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«Un trip lucido»: ‘Return of the Dream Canteen’ dei Red Hot raccontato da Fru dei Jackal

L’ultimo dei Peppers ascoltato da un fan talmente accanito da dedicare il suo nome d’arte a John Frusciante. «Qui ci sono quattro persone che si divertono a fare quello che fanno meglio»

Foto: press (1), Clara Balzary (2)

Gianluca Fru lo conosce chiunque abbia meno di 80 anni e accesso a internet: il volto senza età di un caratterista anni ’70, il fisico asciutto e allampanato di un Bruce Lee impiegato come controfigura del film dell’Ispettore Gadget, Gianluca Colucci detto Fru, con la sua comicità spontanea, irriverente e surreale, è uno dei membri più amati del collettivo The Jackal (di cui fa parte dal 2016). Le sue doti improvvisative lo hanno presto fatto uscire dalla gabbia dorata dei video di YouTube per farlo partecipare alla prima edizione di Lol (è stato il primo ad essere eliminato, esempio perfetto della sua imprevedibilità), a Don Matteo, al Festival di Sanremo e all’ultima edizione di Pechino Express in coppia con la collega Aurora Leone.

I Red Hot Chili Peppers li conosce chiunque abbia meno di 90 anni e non sia audioleso: quattro californiani che nella prima metà degli anni ’80 avevano ambizioni semplici – suonare come i Funkadelic stuprati dai Gang of Four con una bella spolverata di Hendrix e vivere ogni giorno seminudi come in una festa – e che 40 anni dopo sono ancora qui e riempiono stadi con il loro punk funk pop. Nessuno lo avrebbe immaginato nel 1983. Il merito, al di là delle indubbie doti musicali (non sto parlando di Kiedis) è in larga parte del loro discontinuo genio della lampada, uno degli ultimi guitar heroes che è determinante nell’economia di un pezzo sia quando suona che quando non lo fa, l’uomo che usciva dal gruppo, John Frusciante.

Poco più di due anni fa nel gruppo John ci è rientrato (per la seconda volta) e il risultato è stato un’euforia produttiva che si è tradotta in due nuovi album usciti a distanza di meno di sei mesi l’uno dall’altro. L’ultimo, Return of The Dream Canteen, è uscito venerdì scorso. In sala di regia siede il fedele producer della loro età dell’oro, il nemico dei barbieri Rick Rubin.

Cosa lega Gianluca Fru ai Red Hot Chili Peppers l’ho scoperto solo quest’estate, quando l’ho visto testimoniare il suo amore per il quartetto losangelino alla loro unica data italiana a Firenze Rocks. Non solo mi trovavo al cospetto di un grande fan della band, il suo nome d’arte Fru era addirittura un omaggio al suo eroe Frusciante. Quale miglior occasione dunque per tributare la sua passione per i Chili Peps con la propria recensione (sui generis) del loro ultimo lavoro?

Prima di addentrarci nelle 17 tracce dell’ultima fatica di Kiedis e soci, per dimostrare ai lettori di Rolling Stone che sei un fru… itore (ehm, scusate) competente, inizio col chiederti che musica ascolti.
È banale, ma io oggi ascolto soprattutto la musica che mi diverte. Con gli anni ho ampliato i miei gusti e le mie playlist sono un’accozzaglia di cose strane e diversissime, dal progressive ai cantautori sudamericani. Se mi avessi fatto questa domanda quando avevo 15 anni, ovvero quando è nata la mia passione per i Red Hot (nel 2010, nda) ti avrei risposto «io ascolto solo brani che hanno linee di basso interessanti». Perché io dai 15 ai 21 anni circa ho studiato basso elettrico. Ho preso lezione di armonia e solfeggio in accademia musicale per sei anni.

Aspetta ma quindi nasci musicista?
Beh sì, sono anche entrato in conservatorio. Ho superato l’esame ma poi non l’ho frequentato perché nello stesso periodo i Jackal mi proposero un prolungamento del mio stage con loro. Nel mio periodo da bassista tutto quello che cercavo erano band il cui bassista mi colpisse e risaltasse. Per esempio non gli AC/DC, band che comunque ho apprezzato successivamente.

Sì sì, massimo rispetto per Cliff Williams, funzionale al sound della band, però diciamo che come bassista in generale ruba i soldi.
Esatto. Invece ascoltavo i Primus, i Level 42. Anche i Police: le linee di basso di Sting, sebbene spesso fossero tecnicamente semplici, nascondevano in realtà un grande lavoro.

Ma quindi ascoltavi anche il funk di gente tipo Funkadelic, Sly and The Family Stone, Earth Wind & Fire?
Non troppo in verità perché io vengo da un’educazione musicale forgiata da mio padre, un grandissimo appassionato di musica che ha interrotto i suoi ascolti al 1989. Tutto quello che arriva dopo non gli piace quasi mai. Gli artisti che citi li ho scoperti dopo, quando i Red Hot li citavano a loro volta come influenze.
Comunque io ho inizialmente ascoltavo hip hop, soprattutto come forma di rifiuto nei confronti del rock classico chitarristico di mio padre. Poi però, grazie al basso, ho iniziato ad ascoltare anche la sua musica, e pure quella di mia madre, che è un pò più morbida ed eclettica. Lei per esempio ascoltava i King of Convenience e anche i Red Hot Chili Peppers.

E qual è stato il loro primo disco che hai ascoltato approfonditamente? Per quelli della mia generazione, gli ultraquarantenni, Blood Sugar Sex Magik fu il disco del breakout oltre che il loro apice.
By The Way. La prima volta che li ho ascoltati ho pensato: finalmente una rock band con delle linee di basso interessanti. Il lavoro di sottrazione ma allo stesso tempo virtuosistico di tutti i musicisti, soprattutto Flea e Frusciante, è stato una grande ispirazione per me, per lo studio del mio strumento.

Avevi una band? Cosa suonavi?
Sì, ho iniziato coi miei compagni di accademia a suonare, avevano gusti lontanissimi dai miei. Io cercavo sempre di piazzare cover dei Red Hot quando il cantante era un grandissimo fan di Tiziano Ferro. Era difficilissimo. Poi il cantante se n’è andato (con tutto il rispetto per Tiziano Ferro) e noi ci siamo orientati verso sonorità jazz. Ma eravamo dei secchioni dello strumento: tanta teoria e poca pratica. E per un bassista che deve fare pratica i Red Hot Chili Peppers sono la band migliore.

Sei un bassista, ma il tuo soprannome è un omaggio a un chitarrista.
Il paradosso è infatti che il mio grande amore, la persona a cui ho dedicato il nome d’arte rendendolo più ufficiale che all’anagrafe ovvero scrivendolo su Facebook è quello per Frusciante e nacque guardando i loro concerti, in particolare Live at Slane Castle nel 2003. Ero in provincia di Vibo Valentia in Calabria, dove sono cresciuto e andato in vacanza spesso. Il mio amico Danilo strimpellava anche lui e amava i Red Hot quindi mi passò tutte le tracce audio. Lì a un certo punto tra una hit e l’altra c’è Frusciante da solo che suona Maybe, una cover (originariamente data alle stampe dalle Chantels nel 1957, nda). Folgorato. Da allora ho sempre seguito Frusciante anche nel suo percorso solista. Dico sempre che io sono un fan di Frusciante prima e dei Red Hot poi.

Foto: Clara Balzary

Qual’è il disco dei RHCP che preferisci? Per quelli della mia generazione, gli ultraquarantenni, la domanda è abbastanza retorica.
Oggettivamente riconosco l’importanza di Blood Sugar, ma il mio disco preferito in assoluto è Californication. By the Way è ancora più maturo, ci sono alcune sperimentazioni che all’epoca non capivo molto, ma che apprezzo oggi e che ritrovo in questo Return of The Dream Canteen.

E qui allora entriamo nel vivo della recensione, che s’è fatta una certa, cosa dici? Partendo da Frusciante, qui il suo lavoro con la chitarra appare molto meno centrale che in passato.
Sì, assolutamente. Sia dalle dichiarazioni di John stesso che dal mio dialogo interiore spirituale con lui, dopo anni che lo ascolto, ho capito che lui è tornato in una fase compositiva diversa, più vicina a Californication e By the Way. La cosa straordinaria di Frusciante è che nonostante i suoi assoli siano in genere pochissimi e anche brevi, la sensazione all’ascolto è che ci sia la sua impronta netta in ogni brano. L’approccio musicale e il tipo di suono mi sembra lo stesso di Blood Sugar. Come in quel disco sembra che i ragazzi si incontrino e facciano delle lunghissime jam ricamandoci poi i pezzi sopra. È proprio quello che pensi quando ascolti pezzi come Funky Monks. Comunque io mi sono segnato degli appunti sul telefono, gli episodi che mi sono piaciuti di più. Tieni conto che tra un mese i miei gusti potrebbero cambiare. Vado?

Vai!
Devo dire che Tippa My Tongue e Eddie sono i brani che preferisco ad ora, anche se ci sono state diverse perle.
Una bassline incredibile in Peace and Love. Il ritornello è in stile volemose bene.
Reach Out: strano contrasto un po pazzo che ricorda These Are the Ways.
Eddie: un assolo di cui Van Halen andrebbe fiero. Ed è l’unico brano che ha un assolo bello lungo.
Su Bella ho fatto un esercizio di declinazione oggettivale, ho scritto “bellissima”. Sembrano le jam di Flea e Chad su MTV degli anni ’90.
Di Roulette ho scritto “brano che non mi piace molto”. Solo questo.
My Cigarette ha una drum machine: non l’avevano mai fatto. In più c’è un assolo di sassofono!
Su Afterlife mi sono segnato “assolo di Fruscianteeeee”. Con parecchie e. Perché appunto come dicevo nel disco i suoi soli latitano e sentirne uno fa piacere.
Shoot Me a Smile: grande coesione e coerenza ma anche questa non incontra i miei gusti.
Vado avanti?

Sì, dai, arriviamo fino in fondo al disco.
Handful: qui ho scritto una nota che mi piace molto, l’assolo di Frusciante qui ricorda moltissimo uno dei suoi primissimi soli del suo primo disco solista Niandra Lades, per suono e tipologia.
The Drummer: mi piace di più come finisce che non come inizia. Mi aspettavo un mega assolo di Chad Smith che non c’è stato.
Bag of Grins: la nota più sporca del disco. Perché l’album è molto armonioso, questa è l’unica nota sporca.
La La La La La La La: “magico” mi sono segnato come commento. Poi sotto “particolare come non se ne sentono da tanto”. Non amo le ballad nei dischi ma questa è bellissima.
Copperbelly: Flea ispiratissimo.
Carry Me Home: intro bomba, avrei voluto un assolo di chitarra più lungo.
In the Snow: brano superinteressante anche se non sono come detto un grande amante delle ballate.

Quindi possiamo dire che ti è piaciuto?
Moltissimo. Sarà il titolo, sarà l’artwork, ma questo è il disco che mi ha portato nei luoghi più onirici rispetto ai viaggi che mi hanno fatto fare i Red Hot. È un trip, ma non è allucinante, è un sogno lucido. Non so cosa succederà, ma so che è tutto sotto controllo. È bellissimo. Qui ci sono quattro persone che si divertono a fare quello che fanno meglio. Anche Anthony ha fatto tanti flow diversi tra loro. E per me, da ex musicista, è bello sentire una band che suona, che ti fa fare un viaggio musicale. E questa è una cosa non scontata.

Vogliamo riservare un pensiero al povero Josh Klinghoffer? I Red Hot sono stati il ragazzo che molla la tipa dicendole «non sei tu, sono io».
Lui è bravissimo, ha anche fatto un disco intero con Frusciante e collabora a molti suoi lavori. Però in questo caso credo che i Red Hot gli abbiano detto «non sei tu, è lui». Frusciante è insostituibile. Fra l’altro, piccolo parallelismo, io da ragazzino ero fan dei Jackal e ci sono entrato alla stessa età in cui Frusciante, fan del gruppo, è entrato nei Red Hot.

A questo punto la domanda d’obbligo è: Gianluca Fru uscirà mai dal gruppo?
Bella questa, tienila come chiusa!

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