Carla Dal Forno nonostante il perfetto nome italiano è una ragazza australiana che ora vive a Berlino. Essendo molto giovane e al suo disco di esordio, non c’è in giro troppo materiale suo, a meno che non si decida di andare più a fondo scavando nei suoi minuscoli progetti non da solista, ovvero i F Ingers, i Mole House o i Tarcar. Tutte band messe insieme quando Carla bazzicava ancora per Melbourne e il pensiero di mollare tutto e mettersi alla prova in Europa l’aveva ancora sfiorata.
Sensuale e malinconica, Carla ha messo tutta se stessa nel primo You Know What It’s Like, un’idea di pop davvero originale, elettronica, spettrale, la cui pubblicazione è stata affidata alla Blackest Black Ever. Carla ha quattro date italiane a gennaio: Roma (Unplugged Monti @ Black Market, 25 gennaio), Milano (Standards, 26 gennaio), Udine (Dissonanze @ Visionario, 27 gennaio), Bologna (Covo Club, 28 gennaio). Maggiori info qui.
Il tuo cognome ha un non so che di veneto o sbaglio?
È vero, mio nonno veniva da un piccolo paesino vicino Venezia di cui ora non ricordo il nome. Tipo “Marina” qualcosa. Te lo scrivo dopo. Pare che non ci siano molti Dal Forno in Italia, i pochi che ci sono stanno tutti in quella zona.
E tu come sei finita dal caldo australiano al gelo polare di Berlino?
Lascia stare, sta pure nevicando ora e fa un freddo cane. Comunque non volevo semplicemente vivere nella stessa città per tutta la vita. Ci sono troppe cose da vedere nel mondo per restare in un solo posto per sempre. Sono stata spesso all’estero in passato e ho pure fatto un viaggio di scambio culturale all’università. Ma non puoi davvero assaporare un posto e una cultura da semplice turista, devi proprio viverci. La firma con Blackest Ever Black Records è stata la scusa perfetta per stabilirmi in Europa.
Trasferirti in Europa è stato un passaggio necessario per iniziare la carriera solista?
Secondo me sì. Per carità, alcuni artisti rimangono in Australia ma penso che sia molto più dura farcela: sei troppo isolato e i voli per l’Europa e l’America costano uno sproposito. Stare qui in Europa credo ti renda tutto più facile, se vuoi costruirti una carriera.
In pratica hai fatto come David Bowie nel ’77.
Trasferirmi a Berlino? Direi di sì!
Oddio, meno male che tu non l’hai fatto per i suoi stessi motivi.
Quali erano?
Non è un granché vivere a Los Angeles negli anni Settanta e avere un problemone con la cocaina. È letteralmente fuggito da quel posto.
E ha funzionato?
Immagino di sì. Penso abbia optato per un altro tipo di droga, magari meno pericolosa.
[ride] No, per fortuna non ho i suoi problemi.
Tornando a noi: un po’ di tempo fa un tuo connazionale, Kevin Parker dei Tame Impala, mi ha descritto la scena musicale australiana come “abbastanza merdosa”. Sei d’accordo?
Conosco gente di Melbourne che lo conosce. Comunque no, non sono d’accordo. La scena underground è più viva che mai e in continua evoluzione. L’unico problema è che si parla di un mondo molto di nicchia, per cui succede che il pubblico degli artisti è composto da altri artisti. In questo modo è praticamente impossibile farsi strada per arrivare a un grande pubblico, intendo proprio artisti di fama mondiale. Però, no, c’è tanta gente che fa roba interessante in Australia e a Melbourne.
Per esempio?
Beh, c’è Michael, un mio amico con cui ho militato nella mia prima band, i Mole House. Ora ha un’altra band, i Mad Nanna, e sono davvero bravi. Lui ora gestisce anche un negozio di dischi a Melbourne dove si vende tantissimo materiale DIY, una piccola oasi underground.
Com’erano le tue vecchie band? Facevate roba elettronica e introversa come il tuo progetto solista?
C’erano elementi che puoi sicuramente ritrovare nella mia musica di adesso, ma era pur sempre qualcosa di diverso. La prima band era molto incentrata sulle chitarre. Suonavamo molto pop chitarristico, mentre per gli altri due progetti avevo preso una strada più sperimentale e improvvisata, ma con sempre con una struttura a sorreggere i brani. Se ti devo proprio dire un genere, erano sul post-punk/dub. Roba che in parte è stata pubblicata già all’epoca per Blackest Ever Black. Per il disco nuovo invece mi sono affidata a un amico produttore australiano, un ex collega di band. Ora però sto lavorando a nuove tracce interamente prodotte e cantate da me.
Quale disco hai usato da esempio per You Know What It’s Like?
Avevo già in mente di registrare un paio di pezzi, ma l’idea di fare un album per conto mio ha iniziato a prendere forma nella mia mente quando ho sentito per la prima volta Flaming Tunes di Gareth Williams & Mary Currie, anche questo pubblicato per Blackest Ever Black. Sono praticamente pezzi pop ma con suoni sperimentali, molto interessanti. Quindi ho pensato di avvicinarmi a quel tipo di musica, ho pensato “Ho le risorse per poterlo fare.”
Qualcuno, non ricordo se su Pitchfork o qualche altra testata, ha usato la parola “spettrale” per descrivere il tuo album. Ti ci ritrovi?
Ha perfettamente senso. Ovunque nel disco avverti una presenza che c’è o non c’è, mi spiego?
Certo, ma allora lo stesso vale per il tuo video? Ci sei tu che cammini nel selvaggio outback australiano ma non si vedono le Fast Moving Cars del titolo.
[ride]Hai ragione! L’idea originale prevedeva almeno una macchina nel video, ma poi niente. Non si direbbe, ma il video è girato nelle vacanze di Natale. Ero andata a trovare mia mamma, che vive in campagna. Quel lago dove mi tuffo è tipo a cinque minuti da casa sua. Mi piaceva l’idea di non mostrare troppo e allo stesso tempo volevo qualcosa di facile da realizzare. Giusto una camminata fra i cespugli australiani, così ci si può concentrare sulla musica.
Non pensi che sia un po’ pericoloso camminare lì e soprattutto tuffarsi poi in quel lago?
Sì, è pericoloso. L’Australia è piena di serpenti. Mio padre ogni tanto usava la falce per tagliare l’erba alta nel giardino dietro casa e puntualmente si ritrovava decine di serpenti tagliati a metà. Ogni bambino che nasce in Australia si sente sempre dire dai genitori: “I serpenti sono più spaventati di te, quindi batti i piedi per terra e se ne andranno via.” A me spaventano tantissimo.
Sei coraggiosa?
No, direi proprio di no.