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Il pappone e la farfalla. Kendrick può essere entrambi

Il suo album è una risposta alla depressione che «mi stava mangiando vivo». Perché per Kendrick Lamar accettare il successo è quasi impossibile
Kendrick Lamar ha il coraggio di rompere le barriere del rap come monologo. Fonte: Facebook

Kendrick Lamar ha il coraggio di rompere le barriere del rap come monologo. Fonte: Facebook

A Compton il cielo è di un grigio che non si vede spesso in California. Kendrick Lamar parcheggia il SUV Mercedes nero davanti a un posto dove fanno hamburger. Lo aspettano una decina di ragazzi del quartiere,tra cui i suoi amici L,Turtle e G-Weed: «Sono cresciuto con loro» dice. Poi fa un cenno a Mingo, un tesoro di ragazzo nato e cresciuto a Compton, grande più o meno quanto il furgone con cui è arrivato: «Non ho bisogno di una guardia del corpo, guarda quanto è grosso!». Il locale si chiama Tam’s, è un posto conosciuto in zona, all’angolo tra Rosecrans e Central. Kendrick Lamar, 27 anni, probabilmente il rapper più talentuoso della sua generazione, è nato a sei isolati da qui, al n.1612 di 137th Street. Di fronte c’è il Kentucky Fried Chicken dove andava tutti i giorni a prendere un menu da tre pezzi con patatine fritte e limonata.

Più avanti c’è Rite Aid, dove invece comprava il latte per i suoi fratelli. Anche da Tam’s andava spesso: «Qui ho visto il mio secondo omicidio. Avevo 8 anni e stavo tornando a casa da scuola. Un tipo stava ordinando da mangiare seduto in macchina, l’altro si è avvicinato: boom, boom. Steso». Il primo lo aveva visto a 5 anni. Un giovane spacciatore freddato davanti alla porta di casa: «Dopo non ci fai più caso». Lamar ha passato la notte in studio a finire il suo nuovo album, To Pimp a Butterfly. È un artista che ha vinto due Grammy, ha fatto un disco di debutto da un milione di copie prodotto da Dr.Dre ed è adorato da Kanye West e Taylor Swift. Ma qui da Tam’s è sempre Kendrick Duckworth, il figlio di Paula e Kenny. Una donna appena uscita dalla chiesa gli si avvicina e lo abbraccia. Poi lui compra un pranzo per una signora appoggiata al suo carrello, una tossica di crack che conosce praticamente da sempre: «Quando eravamo ragazzi e la sfottevamo, ci inseguiva con il bastone».

Nel suo album di debutto, Good Kid, M.A.A.D City del 2012, Lamar si è fatto conoscere rappando di questo quartiere, descrivendo luoghi e periodi della sua vita (la striscia di asfalto di Rosecrans e l’estate del 2004) e realizzando un concept album sull’adolescenza nel ghetto raccontata con precisione cinematografica con gli occhi di chi è ancora così giovane da ricordare ogni dettaglio: “Io e miei niggas in quattro su una Toyota bianca / Un quarto di benzina nel serbatoio, una pistola e una Soda Orange”.

I genitori di Lamar si sono trasferiti qui da Chicago nel 1984, tre anni prima della sua nascita. Suo padre Kenny Duckworth faceva parte di una gang di South Side, The Gangster Disciples. Un giorno tra Kenny e la moglie e futura mamma di Kendrick, Paula Oliver, scoppia la crisi. Lei lo avvisa: «Non faccio più sesso con te se non provi a cambiare la tua vita. Non possiamo rimanere in strada per sempre». Ficcano tutte le loro cose in due sacchi neri e salgono su un treno diretto in California con 550 dollari in tasca: «Volevano andare a San Bernardino, ma mia zia Tina, che viveva a Compton, gli ha trovato una stanza in un motel. E mia madre è andata a lavorare da McDonald’s», racconta Kendrick.

Qui ho visto il mio secondo omicidio. Avevo 8 anni

Per due anni Kenny e Paula dormono in macchina o in motel, oppure nel parco se non fa troppo freddo: «Alla fine sono riusciti a mettere via i soldi per una casa, quella dove sono nato io». Lamar ha un bel ricordo di quei primi anni: andava in giro in bici, faceva i back flip dai tetti delle case degli amici, si intrufolava in soggiorno quando i suoi davano una festa a casa: «Lo beccavo in mezzo ai miei amici mentre ballavano», racconta sua madre. Poi arriva il 29 aprile del 1992, un giorno che non dimenticherà mai. Scoppia la rivolta di South Central. Kendrick ha 4 anni: «Ero in macchina con i miei su Bullis Road, guardo fuori dalla finestra e vedo gente che corre. Correvano, quei figli di puttana. Poi vedo il fumo. Mio padre si ferma davanti a un negozio e torna con quattro pneumatici nuovi. Sapevo che non li aveva comprati». Kenny ha dato la sua versione dei fatti: «Tutti abbiamo preso qualcosa, è così che vanno le cose durante una rivolta».

«Quando siamo tornati a casa», continua Lamar, «mio padre e i miei zii dicevano: “Cazzo, ci prendiamo tutto quello che ci serve!”. Stanno rubando, ho pensato. C’era un gran casino in tutta Los Angeles. Ho guardato il telegiornale, ho visto Rodney King e ho detto a mia madre: “La polizia ha picchiato un uomo di colore e la gente si è arrabbiata? Ok, adesso ho capito”». Fino a 7 anni, Kendrick era figlio unico, poi sono arrivati due fratellini e una sorella. È così precoce che i suoi lo chiamano Man- Man: «Sono cresciuto fottutamente in fretta. Non avevamo la macchina, così mia madre mi riaccompaganava a casa da scuola a piedi e non facevamo altro che parlare». «Mi faceva domande sull’assegnazione delle case popolari, sul programma Section 8 e io gli spiegavo tutto. Scuola di vita», ricorda sua madre. I Duckworth vanno avanti grazie ai sussidi, ai buoni alimentari e ai 20 dollari che Paula tira su facendo la parrucchiera in casa. Papà Kenny lavora da KFC, «ma faceva orari strani». Lamar non ci mette molto a scoprire che suo padre guadagna trafficando nel quartiere. «Hanno voluto proteggere la mia innocenza», dice, «e li amo per questo». Lui e suo padre non hanno mai discusso della questione: «Ha un demone e non so quale sia. Ma non voglio dargli problemi». Kenny ha liquidato così le sue scelte: «Ho fatto quello che dovevo fare».

Tom Petty ha raccontato un famoso aneddoto sul giorno in cui ha deciso di diventare una rockstar. Quando aveva 10 anni, suo zio, che lavorava nel cinema, lo ha portato sul set di un film con Elvis Presley. Tom vede il Re, le Cadillac, le ragazze e capisce che è quello che vuole fare nella vita. Anche a Kendrick Lamar arriva l’illuminazione: lui però ha 8 anni, è sulle spalle di suo padre fuori dal mercatino delle pulci di Compton e guarda Dr. Dre e 2Pac che girano il videoclip di California Love. «Erano su una Bentley bianca (in realtà era nera, ndr), seguiti da poliziotti in moto. A un certo punto uno ha urtato la macchina, 2Pac è saltato in piedi e ha cominciato a urlargli contro: “Yo, che cazzo fai?”. Quel figlio di puttana gridava dietro ai poliziotti davanti a noi, proprio come nelle sue canzoni. Ci ha dato quello che volevamo!». Il rap però non sembra nel destino di Kendrick, anche perché fino alle scuole medie balbetta vistosamente: «Ma solo alcune parole, quando ero eccitato o nei guai», precisa lui. Gli piace il basket: è piccolo, ma molto veloce, e sogna di arrivare a giocare nell’NBA. Poi, a 12 anni, un professore di inglese, Mr. Inge, gli fa scoprire la poesia, le rime, le metafore e i doppi sensi, e lui si innamora della scrittura: «Potevo mettere su un pezzo di carta i miei sentimenti e improvvisamente avevano un senso. Mi piaceva!». A casa non fa altro che scrivere:«Ci chiedevamo cosa facesse sempre con tutti quei fogli di carta», racconta suo padre, «pensavo che li usasse per i compiti, non credevo che stesse scrivendo canzoni». È anche un ottimo studente e per un po’ pensa di iscriversi al college («Avrei dovuto farlo», dice oggi, e ci pensa ancora spesso: «Non è mai troppo tardi»). Il problema è che è già finito in mezzo alla gente sbagliata. Sono quelli di cui parla nel suo primo album, la gang con cui va in giro a fare rapine e a scappare dalla polizia. Un giorno sua madre trova in casa un camice da ospedale sporco di sangue. «Una corsa al Pronto Soccorso, un fratello è stato colpito», dice Lamar. Un’altra volta lo trova mentre piange rannicchiato davanti alla porta di casa: «Pensavo che fosse triste perché era morta la nonna. Invece gli avevano sparato». Quando la polizia bussa alla loro porta per dirgli che è coinvolto in una brutta storia, i suoi genitori lo buttano fuori di casa per due giorni: «Ti spaventi, perché sai che potresti non tornare più», ricorda lui.

Dopo un paio d’ore, l’atmosfera lungo la Rosecrans cambia. Passa un’ambulanza a sirene spiegate. Un uomo in mezzo alla strada urla alle auto. Lamar comincia a essere a disagio, lancia occhiate all’angolo. «Tutto a posto?», gli chiedo. «È la temperatura», mi risponde, «sta salendo». Uno dei suoi amici, che è andato avanti e indietro tutto il pomeriggio «pattugliando la zona», grida: «Rollers!». Un attimo dopo sbuca una pattuglia. «Eccoli», dice Lamar. I poliziotti accendono la sirena e sfrecciano. «La maggior parte dei miei incontri con la polizia non sono andati bene», mi racconta, «alcuni erano brave persone e proteggevano davvero la comunità. Poi c’erano quelli della Valley, che non vedevano l’ora di sbattermi contro il cofano della loro macchina solo perché ero un adolescente in maglietta e short». Indica un punto dall’altro lato della strada: «È successo proprio lì, alla fermata del bus. Chi ti dà il diritto di gettare un minorenne a terra o di puntargli una pistola contro, anche se non è un bravo ragazzo?». A lui è successo due volte. La prima a 17 anni mentre girava per Compton con il suo amico Moose a bordo di una Camaro. Un poliziotto li ferma e, quando Moose non trova la patente, tira fuori la pistola: «Gliel’ha puntata in testa! Poi ci ha lasciato andare. Moose era così umiliato che aveva le lacrime agli occhi».

Pensavo che fosse triste perché era morta la nonna. Invece gli avevano sparato

La seconda volta è andata peggio. Non vuole raccontarmi cosa stavano facendo lui e il suo amico, ma il poliziotto ha preso la pistola e loro sono scappati. Molti dei suoi amici hanno avuto meno fortuna. La notte del 13 giugno 2007, gli agenti della LAPD rispondono a una chiamata per violenza domestica a East 120th Street, a cinque minuti da casa di Lamar, e trovano il suo amico D.T. armato di un coltello. Secondo il rapporto, D.T. attacca gli agenti, che sparano e lo uccidono. «Quando qualcuno veniva ammazzato ci chiedevamo: “Chi è stato?”. Stavolta era stata la polizia, la gang più potente della California. Non puoi vincere contro di loro». Lamar ha sfogato la frustrazione nei testi del suo mixtape del 2011, Section 8.0: «Ero un bravo ragazzo e sono stato perseguitato lo stesso, e ha lasciato un segno. Sono felice di essere riuscito a sfogare le mie frustrazioni su un foglio».

Tre anni fa stava guardando la tv sul tour bus quando è arrivata la notizia che un ragazzo di 16 anni, Trayvon Martin, era stato ucciso in Florida: «La rabbia mi è tornata fuori di colpo e mi ha riportato indietro a quei giorni. Ai miei amici uccisi». Un’ora dopo ha scritto il testo di The Blacker the Berry: “Vengo dal livello più basso della razza umana / La mia testa è pelosa, il mio cazzo è grande / Il mio naso è largo e tondo /Mi odi, vero?/Odi la mia gente/Il tuo piano è distruggere la mia cultura”. Poi Lamar pensa agli anni che ha passato in strada «e alle cose sbagliate che ho fatto». E scrive un’altra strofa: “Perché piango per Trayvom Martin? / Se quando ero nelle gang uccidevo i negri più negri di me? / Ipocrita”.

Quando è uscita nel febbraio 2014, The Blacker the Berry ha scatenato polemiche. Per molti Lamar ha ignorato il vero problema, e cioè il razzismo del sistema americano che ha creato il fenomeno del crimine dei neri contro i neri. A Billboard, Lamar ha anche detto che una parte della responsabilità della morte di Michael Brown è da attribuire alla gente di colore, ed è stato accusato di stare dalla parte della destra conservatrice. Azealia Banks ha commentato: «È la cosa più stupida che abbia mai sentito dire da un membro della comunità nera». «Conosco la storia, sto parlando dal mio punto di vista», risponde Lamar. Lui è cresciuto in mezzoallegang,isuoiamicieranoneiWestSide Prius affiliati ai Blood, i suoi fratelli nei Compton Crips. Uno zio si è fatto 15 anni di galera per rapina, un altro è ancora dietro alle sbarre. Zio Tony è stato freddato con un colpo in testa quando Kendrick era piccolo. È cresciuto sapendo che il vero cambiamento comincia da dentro: «Mia madre mi diceva: “Vuoi continuare a fare la vittima?”. Posso andare avanti a dire che sono arrabbiato e che odio tutto, ma non cambierà mai niente se prima non cambio io. Non importa quante stronzate abbiamo dovuto sopportare, sono abbastanza forte da riconoscere chi sono e quali sono le mie lotte personali».

A settembre l’uscita del suo nuovo singolo, i, ha spiazzato i fan. Il pezzo è una botta di positività pop con un campione degli Isley Brothers che si è già sentito in una pubblicità degli Swiffer. Una mossa strana per uno come lui abituato a fare cose molto più complesse e raffinate. Il pubblico lo ha trovato banale e ha criticato il ritornello in stile Happy (“I love myself ”). «La gente pensa che sia diventato presuntuoso, ma in realtà ero depresso». Siamo nel suo studio di Santa Monica, dove ha registrato gran parte di To Pimp a Butterfly. Lamar è pensieroso: «Mi sono svegliato una mattina e stavo malissimo. Mi sentivo colpevole, arrabbiato, pieno di risentimento. Come tutti i figli di Compton posso avere tutto il successo del mondo, ma continuo a pensare di non meritarmelo». Il titolo i è un messaggio per i suoi amici in carcere: tenete la testa alta. Ma è anche un messaggio a se stesso, un modo per tenere a bada i cattivi pensieri: «La depressione è un nemico che devi attaccare subito se non vuoi che ti attacchi lui. Ti mangia vivo. Dovevo fare questo disco, è un invito a non dimenticare. Mi fa stare bene». Tutti quelli che non hanno capito i devono aspettare di sentire il suo contrappunto U: «Il primo è la risposta al secondo». Quattro minuti e mezzo di sincerità devastante, con la voce quasi rotta dal pianto di Lamar che, su un beat distorto, si rimprovera di non avere fiducia in se stesso e di essere “un fottuto fallimento”. È la canzone di un uomo che si guarda allo specchio e odia quello che vede, con un ritornello che dice: “Amarti è complicato”. «È una delle canzoni più difficili che abbia mai scritto. Ci sono tutte le mie insicurezze, il mio egoismo e le mie delusioni. Tutta merda deprimente. Ma aiuta, cazzo, aiuta moltissimo».

Già in passato Lamar ha raccontato i suoi demoni. In Swimming Pools, dal primo disco, parlava dei suoi problemi con l’alcol. Quando ha cominciato ad avere successo, le cose sono peggiorate, invece di migliorare. Ha un enorme problema di autostima, non riesce ad accettare di essere quello che è e da dove viene, spesso in mezzo ai bianchi si sente a disagio… «In tutti gli anni di scuola, dall’asilo alle superiori, non ho mai avuto un compagno di classe bianco. Neanche uno». Prima di andare in tour non aveva mai neanche lasciato Compton. All’inizio è stato uno shock: «Immagina cosa vuol dire arrivare a 25 anni e trovarti circondato da persone con cui non riesci a comunicare. Mi chiedevo: che sto facendo? Ero anche esaltato perché mi trovavo in un ambiente diverso. Ho capito che fuori dal mio quartiere il mondo andava avanti». Se il primo disco era pura nostalgia del passato, To Pimp a Butterfly è radicato nel presente. È la sua presa di posizione su cosa voglia dire essere un giovane nero in America oggi, e anche su cosa voglia dire essere Kendrick Lamar alle prese con il successo, le aspettative e i dubbi.

Musicalmente è avventuroso, pieno di influenze che vanno dal free jazz al funk, da Miles Davis ai Parliament. Il suo produttore Mark “Sounwave” Spears, che lo conosce da quando ha 16 anni, dice che lavora in modo sinestetico: «Vede i suoni sotto forma di colori: “Fallo viola”, oppure: “Lo voglio verde chiaro”». Il colore dominante, però, è il nero. L’album è pieno di riferimenti alla storia degli afroamericani, dalla diaspora ai campi di cotone, dalla Harlem Reinassance a Obama. In Mortal Man elenca tutti i nomi dei leader neri, da Mandela a Martin Luther King fino a Mosè, in King Kunta, una bomba funk alla James Brown, si immagina nei panni dello schiavo di Radici.

E su tutto, ovviamente, incombono le tragedie degli ultimi tre anni: Trayvon Martin, Michael Brown, Eric Garner, Tamir Rice. «Per me è un album perfetto per i nostri tempi», dice Sounwave, «se il mondo fosse un posto felice forse avremmo fatto un album allegro. Ma non siamo felici». E Lamar aggiunge: «È un disco angoscioso, onesto e sfacciato». E ha un titolo che non si può dimenticare: «Un vero trip, una frase che rimarrà per sempre. Un giorno la insegneranno a scuola, ne sono convinto». Gli chiedo se lui è il pappone o la farfalla, e lui risponde con un sorriso «Posso essere tutte e due».

Questo articolo è stato pubblicato su Rolling Stone di Aprile.
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