Nava arriva al suo primo vero album, Gabbeh, dopo due anni e mezzo di lavoro in cui ha intrecciato memoria, identità e trasformazione come si intreccia un tappeto persiano. «È strano, perché non vedo l’ora di capire cosa ne pensa la gente», ci ha raccontato poco prima del lancio ufficiale. «Sono entusiasta e quasi incredula». Il titolo non è solo una metafora: i Gabbeh sono davvero i tappeti realizzati dalle donne Ghashghai, formati da nodi che custodiscono storie e radici. Come queste nove tracce, dove ognuna è un nodo per non perdere la propria identità, ma guardando sempre avanti: «Ormai vivo da più tempo in Italia che in Iran, avevo paura di dimenticare la mia lingua. Da lì è arrivata la spinta per il disco».
Gabbeh, prodotto da Fabio Lombardi e scritto insieme a Erio, è un viaggio ipnotico che mescola tradizione e sperimentazione, voce ed elettronica, passato e futuro. Dentro c’è l’eco di Teheran, la città dove è nata, ma anche la Milano dove è cresciuta. Non mancano, però, la distanza e insieme il tentativo di colmarla. Non a caso in Fire canta il movimento Donna, Vita, Libertà e la fatica quotidiana di difendere i diritti conquistati: «In questo disco ho cercato di raccontare la verità di ciò che succede, quella che non si vede in televisione».
E per la prima volta apre il suo mondo a una collaborazione internazionale, quella con Loraine James: «Quando ho saputo che aveva accettato non ci potevo credere». È il segno di un nuovo orizzonte. Un tappeto che non conserva soltanto il passato, ma che si reinventa.
Gabbeh arriva in un momento in cui il mondo sembra aver perso il senso delle radici. Tu invece le intrecci tra memoria e futuro. Sei più custode o inventrice della tua identità?
È strano, perché davvero non vedo l’ora di capire cosa ne pensa la gente, dopo due anni e mezzo di lavoro. Sono entusiasta e quasi incredula. Quando stai così tanto su un progetto, insieme a tutto il team, e ci metti molto per trovare una forma finale, cresce la curiosità di capire come verrà percepito. L’approccio è stato di grande libertà. All’inizio doveva essere un EP, ma mentre scrivevamo si è creata una sintonia tale che abbiamo prodotto più di quanto ci aspettassimo. Quando siamo arrivati a nove canzoni ci siamo stupiti, non mi era mai successo. Risentendole insieme alla casa discografica, ci siamo accorti che questo era un album vero e proprio. È rimasta quella libertà di non avere aspettative.
In passato raccontavi l’urgenza di lasciare Teheran per poter creare liberamente. Oggi, dopo anni di vita e musica in Europa, senti ancora la necessità di fuggire o stai tornando verso te stessa?
La mia battaglia oggi è non dimenticare le mie origini. Ormai vivo in Italia da più anni di quanti ne ho vissuti in Iran. Infatti, ogni tanto, mi accorgo di dimenticare come si dicono alcune parole in persiano, mi escono in italiano o in inglese. Succede anche nella scrittura. Andando avanti così è come perdere le proprie radici. Da questa paura di perdere una parte di me è arrivata la spinta per questo disco, che mi ha riavvicinata alla mia cultura. Come me ci sono tantissime persone che vivono questa condizione.
Com’è stato immergerti nella storia dei Gabbeh, i famosi tappeti persiani?
Sono le donne dei popoli nomadi che si occupano di questa attività di tessitura, tutta a mano e arricchita con colori naturali. È il loro modo di preservare la propria cultura. Ho studiato le varie tecniche e i colori che utilizzano, oltre alle storie che rappresentano. Una ricerca molto profonda che mi ha fatto conoscere meglio sia questa tradizione sia me stessa e, appunto, le mie radici.
Crescere tra Iran e Occidente significa convivere con contrasti forti. Com’è essere una donna che fa musica, oggi?
È vero, già solo fare musica per una donna iraniana è qualcosa di impensabile. Ancora oggi, purtroppo. Soprattutto nell’ambiente mainstream. Nell’underground, invece, ci sono tante donne che fanno musica, è diventata una forma di ribellione al regime. Nel mio piccolo mi piacerebbe essere un esempio, dimostrargli che è possibile. Quando ero piccola non avevo riferimenti iraniani, solo occidentali.
In Fire canti la speranza del movimento Donna, Vita, Libertà. A distanza di due anni, come resiste quella scintilla?
Continua a resistere fintanto che se ne parla e così gli diamo forza mediatica. A Tehran ci sono concerti e manifestazioni spontanee anche in questi anni. E nel disco cerco di raccontare la verità di ciò che succede, quella che non si vede in Tv. Volevo dare un punto di vista reale su come si vive in Iran, che purtroppo non è una novità. Ogni libertà guadagnata va mantenuta con tanta fatica quotidiana.
In quella canzone c’è la collaborazione con Loraine James che porta nel disco un respiro internazionale. Com’è nato questo incontro?
Ci ho provato perché sapevo che Loraine era in cerca di nuove collaborazioni. Da pessimista non speravo affatto che potesse accettare. Quando, dopo averle mandato i demo, mi hanno detto che le erano piaciuti, non ci potevo credere. Ci siamo messe in contatto e abbiamo iniziato a confrontarci su com’era nato il brano e il significato. Questo ci ha avvicinato molto, creando un rapporto intimo.
Ti senti più artista elettronica o cantautrice?
Non credo esista una separazione netta tra questi due mondi. Ci sono periodi in cui uno dei due prevale. Nel momento della scrittura sono più cantautrice, quando entro in studio per la produzione o per la parte grafica e visual rientro più nella sfera elettronica e performativa che poi si vedrà dal vivo. Sono due vestiti sempre presenti in me e che, di volta in volta, si scambiano i ruoli o si sovrappongono.
L’intelligenza artificiale ti spaventa?
Per questo disco non ho avuto a che fare con l’AI, però ci sono artisti che amo che la usano in modo consapevole. Si può trovare un modo di conviverci, visto che, anche se non lo vogliamo, sarà il futuro. È curioso che, per girare il video, siamo andati in una struttura astronomica e quando alcuni hanno visto il risultato credevano avessimo usato l’AI. Invece era tutto merito di quelle enormi parabole.

Foto di: Matteo Strocchia, Marco Servia, Karol Sudolski
La tua musica viene definita elettronica spirituale o pop rituale. Ti ritrovi?
Neanch’io ho ancora capito a quale genere, o a quali generi insieme, appartengo. Anche quando lo chiedo ad altri faticano a rispondermi. C’è l’elettronica, c’è il tribale, l’hyper pop. Probabilmente il bello è proprio non farsi certe domande, anche perché è più divertente scoprirlo passo passo.
Nell’ultimo disco, Lux, Rosalía sembra aver aperto una nuova via che unisce sacro e digitale. Ti senti connessa a questa visione?
Con ogni progetto ho sempre cercato di cambiare. Nessun giorno è uguale all’altro, neanche la musica può essere identica a quella precedente. L’importante è rimanere se stessi nel cambiamento e mantenere un filo conduttore. Così tutto diventa più interessante. Se diventa qualcosa di ripetitivo si perde la gioia di fare musica. In questo mi sento connessa con Rosalía, che ha sempre bisogno di nuovi stimoli. Sull’unione tra sacro e digitale non ci avevo mai pensato, ma può essere. In effetti c’è un mix tra questi due mondi, ma vogliamo mantenere costante un cuore umano nei nostri progetti.
Hai avuto ascolti particolari durante la lavorazione del disco?
Non particolarmente. Di solito non ascolto dischi interi, ho delle playlist che faccio scorrere in base ai miei gusti. Sono ascolti molto diversi tra loro. Forse si sentono nell’album, ma ho bisogno di non ascoltare solo un genere o un solo artista. Anche perché mi annoio molto facilmente.
Qualche artista italiano che apprezzi?
Sì, certo. Amo molto i Thru Collected e Ele A.
Hai mai pensato a Sanremo?
Ho visto che negli ultimi anni si è molto rinnovato. Per ora non ci avevo pensato, però ho sentito che potrebbe partecipare Tommy Cash e, visto che lo apprezzo molto, mi farebbe piacere farne parte. A me basta che ci sia la possibilità di sperimentare, poi va bene tutto.
Ora cosa dobbiamo aspettarci dai live?
La prima data è il 21 novembre al BASE Milano e, essendo la prima, c’è molta adrenalina. Cantare dal vivo le canzoni del disco sarà fantastico, sono curiosa della risposta del pubblico. I brani avranno una nuova veste, per dare a chi ascolta un’esperienza diversa dal disco e pensata per la dimensione live.








