«Penso che il modo migliore per descrivere gli Sparks sia dire che siamo una band che non è possibile descrivere». Verso la fine dell’intervista, collegato via Zoom dalla sua casa di Los Angeles, Ron Mael centra il punto come meglio non avrebbe potuto. Come si fa a dire chi sono gli Sparks? Se c’è un gruppo di culto sono loro. Presente l’attacco di William, It Was Really Nothing degli Smiths? È una citazione che più chiara non si potrebbe di This Town Ain’t Big Enough for Both of Us, uno dei loro più grandi successi. Che poi, successi. Le band di culto non fanno successi, ma nel cuore dei loro fan sono più grandi dei Beatles. Solo che poi, quando chiedi a questi fan di descrivere la musica della loro band del cuore, la risposta è chiara solo per loro. Succede anche guardando The Sparks Brothers, il bellissimo documentario uscito nel 2021 in cui decine di musicisti, da Todd Rundgren a Thurston Moore passando per Beck e i Duran Duran, spiegano perché amano gli Sparks, «il gruppo preferito del tuo gruppo preferito», come da efficacissimo claim di lancio.
Sono partiti con le chitarre, ragazzini travolti dalla British Invasion, e approdati al synth pop in età matura. Sempre sfuggendo alle catalogazioni, sempre facendo semplicemente gli Sparks. In Italia hanno ispirato un giovanissimo Enrico Ruggeri, per il quale Kimono My House (1974) è uno dei dischi della vita. L’ultima reunion dei Decibel è stata decisa proprio davanti al palco su cui i fratelli Mael hanno suonato per intero quell’album, come ci ha raccontato Fulvio Capeccia in un’intervista di qualche anno fa. Narra la leggenda che quando John Lennon li vide per la prima volta a Top of the Pops alzò il telefono per dire all’amico Ringo: «Ehi, hai visto? In tv c’è Marc Bolan che canta con Adolf Hitler».
Adolf Hitler era proprio Ron Mael, con i suoi baffetti e il suo look in bianco e nero, omaggio agli eroi del cinema muto. Oggi che sta per compiere 80 anni, ha ancora un aspetto enormemente cool, constatiamo mentre sbirciamo alle sue spalle, dove c’è una vetrinetta con due paia di Air Jordan. «Sono parte della mia eredità americana» spiega. «Per me Michael Jordan è stato una grande fonte di ispirazione. Può sembrare incongruo, ma l’intensità con cui si allenava e stava in campo è qualcosa che cerco di portare nella nostra musica, rimanendo focalizzato su quello che faccio, senza perdere la concentrazione».
Siamo qui per parlare di Mad!, il nuovo album degli Sparks che uscirà venerdì. Il primo singolo si intitola Do Things My Own Way, un titolo che sembra un po’ un manifesto della vostra carriera. Più di trent’anni fa avete pubblicato un singolo che invece si chiamava When Do I Get to Sing My Way?. C’è qualche collegamento tra i due?
Il messaggio è molto simile, anche se nel pezzo nuovo lo esprimiamo in maniera più diretta. Abbiamo sempre pensato che l’unico modo per fare le cose sia il proprio, e siamo stati abbastanza fortunati da riuscirci. Se non ho contato male, questo è il nostro ventottesimo album. Sono tanti, ma siamo sempre stati intransigenti. Possiamo continuare a fare così perché ci sono abbastanza persone che nella musica cercano qualcosa che vada oltre le aspettative.
Il secondo singolo invece si intitola JanSport Backpack e sul vostro sito vendete per davvero uno zainetto JanSport degli Sparks. Di cosa parla la canzone?
Vado parecchio in giro qui a Los Angeles e ho notato un sacco di ragazze stilose che hanno questo zainetto. La canzone si basa sull’immagine di una ragazza che si allontana da un ragazzo dopo averlo lasciato, e quello che lui riesce a vedere in lontananza è proprio questo zainetto. La situazione si ripete e lui ogni volta rimane deluso ma ogni volta ha una visuale migliore di questo zainetto e comincia quasi a prenderci gusto.
Come viene l’ispirazione per un pezzo del genere? Non penso sia un’esperienza che hai vissuto in anni recenti. Ti capita di tornare con il pensiero a quando eri giovane?
Penso che ci sia una parte di me che ancora, in un certo senso, non è maturata. Per carità, ci sono cose che faccio molto meglio di prima. Ma nella mia testa c’è una parte di me che ancora segue le ragazze con lo zainetto. Ovviamente le persone della mia età non si comportano così, ma in molte delle nostre canzoni il punto di vista è diverso da quello in cui mi trovo nella vita di tutti i giorni: la prospettiva è quella di una persona diversa da me.
Nel documentario The Sparks Brothers tuo fratello dice che la migliore musica pop è quella che ti fa dire: mio Dio, cos’è questa roba? Immagino che abbiate provato a ottenere questo risultato anche con il nuovo album. Cosa vi spinge a provarci ancora dopo tutti questi anni?
Per noi è importante che tutti i nostri album vengano fatti immaginando un ascoltatore che non sa niente di noi e ci sente per la prima volta. La domanda che ci facciamo è: cosa penserà questo ascoltatore? Non facciamo dischi pensando a chi ha un’idea precostituita di noi e di quello che ascolterà. Abbiamo sempre lavorato così perché l’abbiamo sempre pensata così. Oggi è più difficile di un tempo, perché adesso la musica pop se la deve vedere con diversi concorrenti: basta pensare ai videogiochi, ma ci sono tante altre cose che uno può fare invece di ascoltare musica. Un tempo c’erano meno alternative, adesso fare qualcosa che colpisca è diventato più difficile.
Mi sembra che gli Sparks provino sempre a confutare le certezze che abbiamo riguardo alla musica pop. Una di queste è che la musica pop è fatta da giovani, per i giovani e parla dei giovani. Voi però fate grande musica pop ma non siete esattamente giovani. Com’è che ci riuscite?
Non ho problemi con il fatto di non essere tanto giovane. Abbiamo sempre amato la musica pop, e se mai sentissimo che quello che facciamo non è sincero, smetteremmo di farlo. Abbiamo sempre sentito la necessità di scrivere canzoni pop con un’inclinazione più giovane rispetto alla nostra reale età, lo abbiamo sempre fatto esprimendoci in maniera sincera, e penso che questo traspaia dalla musica che facciamo: non siamo vecchietti che cercano di riscrivere le loro vecchie canzoni pop. Quello che facciamo è qualcosa che sentiamo come naturale.
Un elemento parecchio presente nella vostra musica è lo humour. In The Sparks Brothers, Flea dei Red Hot Chili Peppers dice che il fatto di essere divertenti vi ha tolto una parte del successo che avreste potuto ottenere. Sei d’accordo con questa analisi?
È difficile valutare i se, ma penso che in effetti siano in molti a pensare che, se una canzone contiene dello humour, allora in qualche modo è meno significativa. Noi però la pensiamo esattamente al contrario, perché una canzone può operare a diversi livelli. In uno stesso pezzo ci può essere lo humour ma anche una gravità di fondo. Io sono cresciuto con canzoni in cui lo humour era ben presente, penso ai primi Who o ai Kinks, ma nelle quali si sentiva anche tutta la loro urgenza. Questo ha influenzato il mio modo di pensare in quanto songwriter: penso che lo humour sia molto importante e che la musica possa essere sia divertente, sia presa seriamente. Il rischio che a volte si corre è che ci sia qualcuno che pensa che quello che facciamo sia frivolo o da non prendere seriamente.
Lo humour è importante anche nella vita o rimane confinato nella musica?
Oggi è più importante che mai anche nella mia vita perché mi aiuta a mettere le cose in prospettiva. Se non prendi le cose con un po’ di spirito, il più delle volte è grigia. Specie oggi negli Stati Uniti. Prendere le cose con spirito non significa che faccio finta di niente riguardo a quello che mi succede intorno, ma che ho un atteggiamento che mi permette di vedere le cose da una prospettiva diversa.
Riguardo a quello che succede negli Stati Uniti, cosa pensi dell’operato di Trump?
È difficile rispondere. Per quanto riguarda l’attività di governo, gli Stati Uniti hanno sempre agito all’interno di regole condivise. È stato così fin dall’inizio della storia del Paese, e così negli anni in cui sono cresciuto. Ora Trump non sta più operando all’interno di queste regole di base, e questo è pericoloso perché non ci sono molti meccanismi che possono fermare questa tendenza. Oggi quindi sono un po’ preoccupato.
Tornando alla musica, gli Sparks hanno un sacco di fan tra i loro colleghi musicisti. Ma c’è un musicista a cui non piacete e che magari ve l’ha fatto sapere?
Rispondo con un ricordo anni ’70. Eravamo in Gran Bretagna e dovevamo aprire un concerto dei Kinks. Mettiamola così: Ray Davies non sembrava avere una grande opinione della nostra musica. In The Sparks Brothers ci sono un sacco di musicisti che non mi sarei mai aspettato fossero nostri fan, poi magari ce ne sono tanti che non hanno partecipato e ai quali non piacciamo. Ma con Ray Davies ci siamo rimasti, perché i Kinks ci piacevano tantissimo e ci hanno influenzato veramente tanto. Accorgerci che a uno dei nostri eroi non interessava quello che facevamo è stato un brutto colpo.
A parte Michael Jordan, quali sono gli altri tuoi eroi fuori dal mondo musicale?
Sono sempre stato un grande appassionato di sport. Anche se sono di Los Angeles, sono un tifoso dei New York Yankees. Il suo nome forse non dirà molto a chi non è appassionato di baseball, ma Mickey Mantle è stato per me una grande fonte di ispirazione. Ha giocato negli Yankees fin quasi alla fine degli anni ’60. Un altro è stato Kareem Abdul-Jabbar. Quando io facevo l’universita alla UCLA lui era nella squadra di basket, si chiamava ancora Lew Alcindor, prima della conversione all’Islam. A parte essere un giocatore fantastico, era anche attivo politicamente, molto vicino a Martin Luther King. Tutto il contrario dello stereotipo dell’atleta che pensa solo a bere e a divertirsi. È una persona molto seria e riflessiva, e l’ho ammirato per questo almeno quanto l’ho ammirato come sportivo. Ho sempre pensato che fosse una persona speciale, e gli piace il jazz: aveva una collezione di dischi incredibile che purtroppo qualche anno fa è andata distrutta nell’incendio della sua casa. Non riesco a immaginare come possa essersi sentito.
In The Sparks Brothers tutti gli intervistati raccontano la loro versione degli Sparks. C’è qualche aspetto importante degli Sparks che non è stato capito?
Secondo me una cosa importante da dire è che noi non siamo facili da inquadrare, anche perché abbiamo avuto una carriera molto lunga: più il tempo passa e più diventa difficile inquadrarci. A volte mi chiedono di descrivere gli Sparks in poche parole. Penso che il modo migliore per descrivere gli Sparks sia dire che siamo una band che non è possibile descrivere. Quanto a ciò che non è stato capito, si torna al discorso dello humour: ci sono stati dei momenti in cui venivamo liquidati come troppo frivoli. Ultimamente però le cose stanno un po’ cambiando: più il tempo passa, più i giudizi su di noi sono favorevoli.
Il prossimo 8 luglio suonerete a Milano per la vostra unica data italiana. Sbaglio o a parte il tour con i Franz Ferdinand per il disco che avete fatto insieme è la prima volta che venite nel nostro Paese? Come mai non è mai successo in tutti questi anni?
È una cosa da matti e non c’è una vera spiegazione. Siamo venuti in Italia solo da turisti e ora siamo molto contenti di farlo con gli Sparks, così cancelleremo questo errore che è durato per troppi decenni. Saremo in sei sul palco, con dei visual d’impatto. Lo definirei un concerto teatrale, ma non nel senso che mettiamo su delle scenette: a renderlo un’esperienza teatrale sono le personalità dei musicisti, e ovviamente quella delle canzoni.