Il mistero di Kurt Cobain nelle foto di Charles Peterson | Rolling Stone Italia
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Il mistero di Kurt Cobain nelle foto di Charles Peterson

«Il grunge era una rivoluzione contro ogni etichetta, un rifiuto dello status quo», racconta il fotografo che, insieme a Michael Levine, porta in Italia una mostra dedicata ai Nirvana e della scena di Seattle

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Sbarca a Firenze, a partire dal prossimo 7 marzo e in esclusiva per l’Italia, la mostra Come As You Are: Kurt Cobain & The Grunge Revolution, esposizione fotografica a quattro mani firmata da Charles Peterson e Michael Lavine. Il primo, che amava usare il bianco e nero e prediligeva l’atmosfera rispetto ai soggetti, è stato per anni il fotografo della leggendaria etichetta Sub Pop di Seattle, e ha immortalato i primi momenti di band che da lì a pochissimo sarebbero diventate (in molti casi) enormi, come Alice in Chains, Mudhoney e Nirvana. A Lavine invece il compito di rappresentare il lato più pop di Cobain, con una serie di immagini che lo ritraggono assieme alla compagna Courtney Love negli anni più glamour della coppia.

Abbiamo contattato Charles Peterson via e-mail e gli abbiamo chiesto di raccontarci la scena grunge e la figura di Kurt Cobain, musicista che ha conosciuto «su un divano, una sera, a una festa di amici». 

Vorrei cominciare chiedendoti della parola grunge. Quando l’hai sentita per la prima volta e cosa significa per te, oggi? Quale fu la reazione delle band quando capirono di essere state etichettate in quel modo?
Mi piacerebbe ricordare il momento in cui l’ho sentita per la prima volta, ma mi vengono in mente gli inizi, quando lavoravo nel primo ufficio della Sub Pop e non facevamo altro che cazzeggiare con quel termine, pensando quanto fosse allo stesso tempo divertente e poco accurato. Poi il termine grunge è rimasto ed è entrato nel lessico musicale. È una parola importante, soprattutto fra coloro che ci si ritrovarono per primi. E lo diventò ancora di più quando la musica venne cooptata dalla moda e dall’industria, oltre che essere un termine ombrello sotto al quale si trovavano band che suonavano in maniera profondamente diversa. Ce ne stancammo presto, ma col passare degli anni il termine è tornato di moda, soprattutto fra quelli vicini a quella scena dato che, in tutta franchezza, non esiste parola migliore per descrivere quel fenomeno. Ha preso vita propria, principalmente perché utile per capirsi, un po’ come rockabilly, psichedelia, kraut rock.

Perché hai scelto il bianco e nero?
Inizialmente fu una scelta sia artistica che economica. Sono sempre stato innamorato della street photography degli anni ’60 e ’70, ma avevo anche un’esigenza pratica. Rispetto al colore, era decisamente più semplice sviluppare e stampare in b/n nella cucina o nel bagno di casa. Inoltre, usavo spesso il flash per fotografare i concerti, e il bianco e nero risultava decisamente più semplice da manipolare. Ho fatto anche qualche scatto a colori, ma niente che sia davvero diventato iconico come avvenuto con altre mie creazioni.

Quali erano le band che amavi fotografare maggiormente?
I Mudhoney e i Nirvana, perché i loro show erano i più selvaggi. Ma a quel tempo quasi tutti quelli del giro volevano essere fotografati da me, quindi ho ritratto anche un sacco di gruppi che oggi sono decisamente più oscuri come Seaweed, Gas Huffer o L7.

Qual è la tua foto preferita fra quelle presenti alla mostra?
Un primo piano di Kurt al microfono, probabilmente perché sembra molto diverso rispetto alle altre foto che gli scattai, ed è facile immaginarselo ‘meditativo’ mentre se ne sta lì con gli occhi chiusi.

Oggi invece di cosa ti occupi? Mi pare che tu ti sia allontanato un po’ dal mondo della musica.
Ormai scatto quasi solo a colori, e sto lavorando ad alcuni progetti che ruotano attorno ai paesaggi, ai graffiti, alle immagini di viaggio e forse all’unione di tutte queste cose. Porto avanti da molti anni anche una serie sui miei figli, si tratta di astrazioni costruite a partire dai sentimenti universali che proviamo nei confronti dell’infanzia. Non potevo continuare a mantenere quello stile di vita rock ‘n roll, mi ha semplicemente consumato. Ogni tanto mi capita ancora di fotografare qualche band, ma sono più che altro cose in grande stile, come il tour negli stadi dei Pearl Jam o i Mudhoney sulla cima dello Space Needle.

A proposito di Kurt Cobain, quale fu la prima impressione che ti fece? Che tipo di persona era?
La prima impressione è stata quella di una persona molto fragile e timida, ma pronta a trasformarsi in un mostro rock non appena imbracciava la chitarra, spesso un attimo prima di salire sul palco. Era alternativamente dolce e timido, socievole e bizzarro. Credo di capire come si sentisse, entrambi abbiamo sofferto di dolore cronico per anni, ed è qualcosa che può impedirti di vivere la tua vita al massimo. L’eroina gli permetteva di sopravvivere agli impegni con la band e alle pressioni derivanti dalla fama e dall’industria musicale, ma alla fine lo ha portato oltre il limite. Ricordo la prima volta che prese degli antidolorifici, eravamo a un concerto dei Jesus Lizard e divenne subito una persona diversa, totalmente estroversa e folle. Pensai: “Oh no, speriamo non finisca male”. E invece è esattamente quello che è successo.

A proposito della rivoluzione grunge che dà il nome alla mostra: cosa ci fu di così rivoluzionario in quel momento? E cosa rimane, oggi, di quella rivoluzione?
Si trattava di una rivoluzione contro l’essere etichettati (e poi, ovviamente, vennero etichettati tutti). Eravamo appassionati di punk, metal, classic rock, hardcore, rock psichedelico anni ’60, e tutto questo finì dentro a un frullatore, ma senza le trappole della moda tipiche di quei generi. Era un rifiuto dello status quo e un’accettazione di tutte le cose difficili. Cosa è rimasto? Beh, sembra esserci un continuo e rinnovato interesse verso quella musica, in buona parte perché è stato l’ultimo grande movimento musicale prima dell’era di internet. E questo lo rende in qualche modo misterioso, oltre a donargli un’aura di nostalgia.

Com’erano i primi concerti dei Nirvana? Avresti mai detto, all’inizio della loro carriera, che sarebbero diventati così grandi?
Mi piacerebbe aver capito subito quello che sarebbe successo, perché avrei fatto molte più foto (e probabilmente anche in maniera differente) all’epoca. Ma inizialmente loro erano solo una delle band emerse da un mare di progetti interessanti, per quanto fosse chiaro a tutti che Kurt aveva una personalità che gli altri non avevano. I loro primi concerti erano per poche persone e assolutamente folli, a tratti quasi sciamanici per intensità e per la relazione che si creava tra band e pubblico.

Nonostante le mode e le scene nascano e muoiano in maniera molto rapida, la musica dei Nirvana continua ad essere rilevante, anche per coloro che non hanno vissuto quell’epoca. Perché, secondo te?
Come ho detto prima, si tratta del fenomeno pre-internet. Adesso è tutto a portata di clic, anche i fotografi hanno la possibilità di vedere subito cosa hanno scattato invece di dover aspettare giorni per lo sviluppo del rullo. Quella del grunge era un’epoca in cui dovevi andare a cercarti le cose, non c’era immediatamente una saturazione di informazioni su qualsiasi tema. Cobain è stata probabilmente l’ultima rockstar – onestamente non si è più visto nessuno, dopo di lui, che fosse in grado di ispirare e rappresentare un’intera generazione.

 

La mostra sarà visitabile dal 7 marzo al 14 giugno 2020 presso Palazzo Medici Riccardi (via Cavour 1, Firenze). Per ulteriori informazioni, visitate il sito ufficiale