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Il martirio di Gemitaiz

Si è dato fuoco sulla copertina del suo nuovo 'Davide', perché fare un disco significa "esporsi al linciaggio". Fuori dalle mode, a costo di sentirsi incompreso. Tanto da tatuarselo in testa.

Gemitaiz, foto via Facebook

Paradossalmente, il 2018 è il periodo più felice e complesso che il rap italiano abbia mai vissuto. Da una parte, per la prima volta è davvero il genere più venduto, acclamato e ascoltato; dall’altra, è difficile trovare un punto di equilibrio tra capolavoro e trash, tra innovazione e ripetizione. Ne sa qualcosa Gemitaiz, che ha trascorso più di metà della sua vita a sputare rime con ottimi riscontri e una tecnica e una costanza invidiabili, e ora si ritrova a pubblicare l’album della maturità, Davide, in un panorama completamente diverso da quello in cui aveva iniziato.

Il rischio di non essere capiti è concreto, ma uno che si tatua sulla fronte la scritta “Misunderstood” non teme incomprensioni. «Ci ho pensato tanto prima di farlo, e poi mi sono deciso», spiega. «Non devo piacerti per forza, ci tengo a distinguermi. È un gesto punk». Anche la foto di copertina, che lo vede ardere come una torcia umana, è carica di significati: «Mi piaceva il concetto di martirio. Fare un disco così, che non ha nulla a che fare col rap che va di moda adesso, vuol dire esporsi al linciaggio della gente».

L’album alterna episodi metricamente intricatissimi e potenti a momenti riflessivi e intimisti: cose che non vanno per la maggiore tra le nuove generazioni. «È un mix dei miei ascolti: Post Malone, Travis Scott, Three 6 Mafia, Oasis…» racconta. «Davide era l’unico titolo possibile per il progetto: la traccia omonima è la più intima, quella in cui mi esprimo in maniera più chiara». In effetti il brano, in collaborazione con Coez, è uno dei più sentiti che abbia mai scritto: si parla di quando “Vivere così non era un obbligo”.

«Non cambierei niente nel mio percorso, ma anche le situazioni più perfette hanno dei bug», sorride. «Mi manca poter girare per strada, la quotidianità non la vivo più da tanto. Quando ti fermano è bello, vuol dire che sei arrivato a tutti. Ma allo stesso tempo è stressante». Così come è dura continuare a perseguire la qualità. «Mi hanno fatto notare, come se fosse strano, che ai concerti rappo dal vivo e non in playback. Dovrebbe essere ovvio e scontato, come dire che se giochi a calcio colpisci la palla coi piedi, ma a quanto pare non lo è più. Per me resta più importante spaccare ai concerti che vendere album. È inutile fare un bel disco se live fai schifo».

Fortunatamente Gemitaiz è uno che ci ride su, come ha fatto in Ho scritto un pezzo trap, con il featuring di Fibra: una satira azzeccatissima su certi stereotipi musicali. «Ci ho messo un quarto d’ora a scriverlo: per me che faccio un altro tipo di rap, mantenere un flow lento è facile. Il genere mi piace, ho anche fatto roba così nei miei mixtape, ma mi divertiva prendere per il culo un certo modello». Ma senza chiedersi ossessivamente quanto durerà il momento d’oro del rap. «Perché finché esisterà la possibilità di fare la mia musica, non vado da nessuna parte».

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