Il manuale dei dEUS su come reinventarsi | Rolling Stone Italia
A volte ritornano

Il manuale dei dEUS su come reinventarsi

Abbiamo parlato con Tom Barman, il leader della band belga («una dittatura benevola») che torna dopo 11 anni con 'How to Replace It', tra canzoni rétro, una citazione di Springsteen e uno sfogo sulle balle della Silicon Valley

Il manuale dei dEUS su come reinventarsi

dEUS

Foto: Joris Casaer

Quasi 11 anni senza pubblicare un album e nemmeno un singolo: per come funziona la discografia oggi, significa condannarsi a morte quasi certa. Per fortuna c’è chi rifiuta certi meccanismi e fa un po’ quel che gli pare. Come Tom Barman: il cantante e chitarrista di Anversa ha fondato i dEUS nel 1991 e, non che siano mancati momenti difficili – un periodo di stop, pur breve, c’è stato, senza contare i cambi di line-up – ma alla fine la band belga è riuscita ad andare avanti con il suo indie rock eclettico, figlio di una ricerca che da Frank Zappa, Velvet Underground, Leonard Cohen arriva a Pixies e Nirvana, capace di contaminazioni inattese con il jazz, il funk, il blues e il mondo delle colonne sonore.

Il nuovo disco How to Replace It, in uscita venerdì 17 febbraio e che sentiremo dal vivo in Italia a fine marzo (il 29 ai Magazzini Generali di Milano), prosegue su questa strada: è l’ottavo album di un gruppo che si diverte ancora a giocare con la musica per forgiare arrangiamenti ricchi di inventiva, pezzi corposi e dalle ritmiche trascinanti, ballate dall’andamento sinuoso, un sound personale che Barman, unico rimasto della formazione originale oltre al multistrumentista Klaas Janzoons, riscalda con la sua voce infilando come d’abitudine qualche passaggio in francese nei testi in inglese e alternando il cantato con un parlato/rappato che seduce. «Non è mai stata un’opzione sul tavolo, quella della fine dei dEUS», dichiara quando su Zoom gli chiediamo il perché dei 10 anni e passa senza dischi. «È solo che il tempo vola, sono stato impegnato in tanti progetti. Avevo bisogno di aria fresca, ma adesso è il momento di tornare».

In effetti Barman non è uno che se ne sta con le mani in mano, anzi, a parlarci si ha l’impressione che senza una dimensione creativa in cui sfogarsi probabilmente impazzirebbe. Dopo l’uscita del precedente Following Sea il nostro si è dedicato a due progetti paralleli, Magnus e TaxiWars, legati rispettivamente al suo amore per l’elettronica e per il jazz. E tutto sommato anche il titolo How to Replace It potrebbe alludere a una precarietà non affrontabile se non reinventandosi di continuo. Ma cos’è che andrebbe rimpiazzato? «Ciascuno può dire la sua», dice Tom, «per quanto mi riguarda non so nemmeno se quel titolo è un interrogativo. Forse ha a che fare con la mia età, visto che quando abbiamo cominciato a lavorare all’album andavo per i 50 e stavo affrontando le trasformazioni dovute al passare del tempo, lo stile di vita che cambia… Ma si può guardare a questo titolo pensando a qualcosa di più grande: se andiamo avanti così, la cosa da sostituire potrebbe essere il pianeta».

Dietro c’è anche una riflessione su come costruirsi una carriera il più longeva possibile: “You don’t want to repeat yourself, but you have your style”, recita la title track in apertura del disco, pezzo cinematografico con ricchi cori e percussioni. Ma sono versi che si aprono a più livelli di lettura, che è un po’ la cifra del Barman songwriter, fautore di una scrittura evocativa, a tratti enigmatica. «How to Replace It è nata durante il primo lockdown da pandemia. Era il 12 marzo 2020, ci stavamo tutti chiedendo cosa stesse avvenendo. Mi trovavo in studio, cosa tra l’altro illegale all’epoca, e in pochissimo tempo mi è venuto questo pezzo pregno del sentimento d’incertezza di quel momento».

Quando parla della sua musica Barman è onesto nel raccontare anche le sue paure, ma la determinazione e la fierezza che gli si leggono negli occhi parlano di un artista che crede in ciò che fa, pazienza se il mondo in cui i dEUS sono riusciti a conquistare la ribalta internazionale con brani come Suds & Soda, Roses e Instant Street pare essere stato fagocitato dallo streaming e dai festival sempre meno rock’n’roll. «Abbiamo realizzato questo disco tornando più o meno al modo di lavorare dei primi dEUS. Allora ero io quello che portava la maggior parte del materiale, per poi lavorarci su con gli altri, mentre gli ultimi due dischi del 2011 e 2012, e in qualche misura anche Vantage Point, del 2008, sono stati il frutto di jam di gruppo e di sforzi collettivi. Questa volta abbiamo fatto comunque un po’ di jam, ma più brevi e intense, dopodiché io mi sono isolato con un ingegnere del suono per continuare nella scrittura e tutto il resto».

Una strategia per restare vitali: «Recuperare la modalità degli esordi non è stato un gesto nostalgico, per carità, ci sono così tante maniere di fare musica. Semplicemente cercavamo un cambiamento. Sarà che per i precedenti Following Sea e Keep You Close avevamo jammato cinque giorni a settimana, sei ore al giorno, per settimane e settimane, ed era stato devastante. Nessuno aveva voglia di rifarlo, così ho preso in mano la situazione, anche perché volevo un disco meno pulito, ruvido, un po’ selvaggio, anche imperfetto. Ci sono persino parti di demo nella versione finale, magari ci piaceva come suonava la chitarra e allora… perché no?».

dEUS - 1989 (Official Visualizer)

Tra le tracce ce n’è una che colpisce per le sonorità anni ’80, non casuali visto il titolo, 1989. «Abbiamo ripreso apposta il suono della Linn Drum presente in una bellissima canzone di Bruce Springsteen, Streets of Philadelphia, e in molti altri brani dell’epoca. Anche Prince l’ha usata», spiega Barman. «Il 1989 è l’anno in cui è morto mio padre, la canzone parla di quello scherzo della memoria che ci spinge a santificare o deificare i morti. Quando perdi il padre a 17 anni è come se quella persona si congelasse nella tua testa per com’era stata fino a quell’istante: smette di essere un individuo e diventa una figura monolitica. L’idea di 1989 nasce da questa constatazione, ovvio poi che quello fu un anno anche pazzesco per altri motivi: la caduta del muro, quella di Ceaușescu…».

«Non avevo l’età per comprendere a fondo, ma ero abbastanza grande per capire che stava succedendo qualcosa di importante. Ero in quella fase in cui non sei né bambino, né adulto, ed è lì, dopo aver perso mio papà, che ho iniziato a suonare la chitarra. Non credo sia una coincidenza, penso che aver perso mio padre così giovane mi abbia messo di fronte al lato oscuro dell’esistenza, quel lato che tutti scopriamo a un certo punto, e questo mi ha fatto diventare ciò che sono». E confida: «Prima di quel lutto ero il tipico radio boy, sentivo solo musica commerciale alla radio, e per fortuna ai tempi c’era roba buona: Human League, Grandmaster Flash, Duran Duran… Fu il dolore ad avvicinarmi agli Smiths, ai Velvet Underground, ai Pixies, a Neil Young, a tutta quella musica fatta di sottogeneri e di artisti che si muovono liberi».

In realtà da ragazzo Tom Barman sognava di diventare regista. «Lo sono stato, una volta», dice in riferimento ad Any Way the Wind Blows, film del 2003 da lui scritto e diretto. «Mi ero iscritto alla scuola di cinema quando la band era appena nata, è stata la vita a far vincere la musica, con i primi successi, i primi tour. Del resto, essere un musicista era anche parecchio divertente, cos’avrei dovuto fare, l’aspirante regista serioso che snobba la musica proprio quando MTV decide di dare spazio alla sua band?». Scoppia a ridere e aggiunge: «In seguito ho diretto dei video, ma non ho più fatto cinema. In compenso ho appena finito la sceneggiatura di un film a cui ho lavorato per più di 10 anni. E sai una cosa? Non credo ne scriverò altre, perlomeno non da solo. È stato faticoso, per fortuna mi ha aiutato un amico italiano, lo scrittore Leonardo Colombati, con qualche consiglio. Ha da poco pubblicato un libro in cui ci sono io, sono uno dei personaggi, il che è un po’ strano, non ho ancora la traduzione. Ad ogni modo, per il film adesso servono i soldi per la produzione, bisogna cercarli, ma non sarò io a occuparmene: io me ne andrò in tour con i dEUS».

Per la cronaca, il romanzo di Colombati, Sinceramente non tuo, narra lo strampalato viaggio di tre amici su una vecchia 500 da Roma ad Anversa. Ed è la trasposizione di una storia vera: Barman quell’auto l’ha comprata sul serio ed è venuto a prendersela in Italia per riportarla a casa guidando.

dEUS - Must Have Been New (Official Visualizer)

La conversazione torna su How to Replace It e in particolare su Man of the House: «La mia idea di canzone furiosa contro qualcosa che mi irrita tantissimo», dice Barman, «ossia le nuove tecnologie e tutti quelli della Silicon Valley che anni fa ci hanno raccontato che sarebbero servite per connettere il mondo bla bla bla». Il tono è di scherno, Tom prosegue: «È vero che questi strumenti hanno portato cose buone, peccato che queste siano state messe in ombra dal solito vecchio profitto del cazzo, da quest’idea di crescita infinita fine a se stessa che si sta impadronendo delle nostre vite, che sta modificando la psiche della gente, che sta alimentando i più bassi istinti della natura umana. È pericoloso, non sono il primo, né l’unico a pensarlo, fatto sta che Man of the House è una sorta di avvertimento in forma di rock arrabbiato, ci voleva».

Gli domandiamo se ha mai pensato di darsi alla carriera solista, in fondo se i dEUS sono ancora qui è anche per il suo carisma di frontman. «Cosa cambierebbe se facessi un disco a mio nome?», risponde. «Non potrei comunque fare tutto da solo. Nei dEUS si lavora assieme, ma sono io ad avere l’ultima parola, vige una dittatura benevola che mi consente di avere qualcuno al mio fianco che le mie scelte può metterle in discussione. Un privilegio, così la vedo io, che da solista si perde, perché se sei tu a pagare gli altri per il tuo progetto, è come se li pagassi per tacere: non fa per me».

La sensazione è di chiacchierare con un artista che fa tutto per il piacere di farlo, cosa non scontata di questi tempi. Certo, Barman è del 1972, è cresciuto in un altro secolo in cui c’era chi ragionava esclusivamente in termini di mercato, ma anche chi se ne fregava e talvolta conquistando comunque il successo. «Penso che i dEUS nel tempo siano stati sottovalutati, ma non sono uno che si lamenta, dovrei mettermi a piangere? L’unico modo che conosco per contrastare questa cosa è continuare a fare album il più possibile belli».

L’importante è non fossilizzarsi, questo può voler dire quell’How to Replace It, e Barman non ne ha alcuna intenzione, anzi, da qualche tempo il nostro coltiva anche un’altra passione, quella per la fotografia. «È una sorpresa giunta con l’avanzare dell’età e mi sta dando così tanto», esclama sorridente. «Ho preso in mano una macchina fotografica per la prima volta 12 anni fa, in tour si viaggia tanto e si passa da un sacco di posti orrendi dove tutto può diventare noiosissimo, ma non se ti metti a fotografare. Non pensavo avrei mai esposto nulla, ma nel 2020 un amico artista è venuto a trovarmi a casa e vedendo alcune mie foto alle pareti mi ha consigliato di farci una mostra. Io non mi sentivo pronto, ma ha insistito ed è finita che ne ho fatta una in Belgio che è stata probabilmente il più grande successo della mia vita, e un’altra in Olanda andata altrettanto bene, incredibile».

Apre le braccia in segno di fatalismo e continua: «Ora sto cercando una galleria che mi rappresenti all’estero, adoro fotografare, i miei scatti riflettono il mio lato più calmo e contemplativo. E mi piace l’idea di dimostrare che posso funzionare come artista anche senza l’aiuto di un management. Alla mostra ho venduto le mie foto da solo, non grazie a un agente: le volete? Eccole! È stato divertente, oltre che utile: è importante misurarsi con progetti che ti tengono con i piedi per terra».

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