Il desiderio di non essere come tutti: M¥SS KETA intervista Wayne Santana | Rolling Stone Italia
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Il desiderio di non essere come tutti: M¥SS KETA intervista Wayne Santana

Poteva essere una conversazione un po’ matta e in parte lo è. Però la M¥SS e Wayne, che abbiamo messo assieme dopo il feat di lei in ‘Succo di zenzero vol. 2’, hanno parlato anche del disco come acid trip, della distinzione tra bene e male, dei segni che indicano la via, dell'importanza di essere divisivi

Il desiderio di non essere come tutti: M¥SS KETA intervista Wayne Santana

Wayne Santana e M¥SS KETA

Foto press; Dario Pigato

Allora, senza tanti preamboli: mentre l’Italia era risucchiata da Sanremo, abbiamo preso M¥SS KETA e – facendole dribblare a fatica il traffico milanese – l’abbiamo portata nella nuova casa milanese di Wayne Santana (sì, Milano ormai attira magneticamente anche i membri della romanissima Dark Polo Gang: un centro gravitazionale dell’hype o un buco nero la metropoli lombarda, scegliete voi a seconda dei vostri gusti). Li abbiamo fatti conversare tra loro.

I due si conoscono bene: non solo e non tanto perché c’è anche KETA nei featuring di Succo di zenzero Vol. 2, l’album/mixtape di Wayne appena uscito, ma forse soprattutto perché sono anni che per certi versi il loro percorso è proprio simile: iconoclasta e bestemmiatorio nei confronti di tutto ciò che dovrebbe essere rap serio, ma capace al tempo stesso di attirare pubblici insospettabilmente vari (e variamente insospettabili). Condividono insomma attitudini ed esperienze, i due. Quindi ecco: più che intervistare noi Wayne Santana, abbiamo lasciato il compito a M¥SS KETA, prendendoci giusto la licenza di intervenire di tanto in tanto. Il risultato, se leggete e scavate bene nelle parole, anche quelle apparentemente leggere e cazzone (che non mancano, basta vedere come inizia il tutto, e che comunque abbiamo in parte sfrondato dalla conversazione), ha più di un lampo significativo.

M¥SS KETA: Wayne, vorrei iniziare chiedendoti qual è il tuo segno zodiacale.

Wayne Santana: Scorpione.

KETA: Ascendente?

Wayne: Gemelli.

KETA: Ah wow. E ti rivedi in questo?

Wayne: Sì sì. Sono fiero di essere Scorpione.

KETA: Te la vivi bene, insomma.

Wayne: Sono fiero dei miei pregi e dei miei difetti.

KETA: Quindi questa tua attitudine di spezzacuori, di cui tanto si dice, deriva proprio dal fatto che sei Scorpione come segno zodiacale?

Wayne: Ma penso di sì, guarda. Cioè: diciamo che vivo le relazioni in modo molto forte, ecco. Sempre in spezzacuori mood. Qualcosa si deve sempre rompere, sì; le cose non possono mai andare lisce. Zero soave mood quando ci sono di mezzo io.

KETA: È un po’ distruttivino, lo Scorpione, in effetti…

Wayne: Credo sia un segno zodiacale molto determinato: quindi o riesci a stargli dietro, o in bocca al lupo.

KETA: Ma è anche profondo.

Wayne: Ti dà tanto, ma se non lo segui…

KETA: Ha la codina velenosa mica per niente, no?

Wayne: Brava.

KETA: Altra domanda: film preferito?

Wayne: V per vendetta.

KETA: Top!

Wayne: Sì, mi piacciono ‘sti film un po’ alienanti…

KETA: Un po’ distopici…

Wayne: Che alla fine rispecchiano un po’ quella che è la realtà per davvero, anche se pare che parlino di un futuro lontano. Cioè, io sono uno positivo, di mio, le cose le vivo volentieri; ma ho come l’impressione che in generale la catastrofe sia sempre dietro l’angolo. E allora sì, questi film mi piacciono.

KETA: Anche a me! Sono catartici.

Wayne: Cioè, quello dico io è che il mondo di suo non è fatto di cattivi, ma semmai di persone che fanno delle scelte sbagliate. Io non vedo mai progetti superiori, non vedo complotti, non vedo grandi disegni contro l’umanità fatti da chissà chi, non so se mi spiego; vedo invece gente che, senza volerlo, si ritrova a fare scelte sbagliate.

Anche i buoni fanno scelte sbagliate.

Wayne: Già. Non sto dicendo che il mondo è in mano agli stupidi… Ma spesso alla fine è un po’ così, no? E vale per ciascuno di noi: tutti noi siamo un po’ stupidi. E facciamo spesso sbagli senza pensare di farli.

KETA: È una visione molto adulta, questa.

Wayne: Non lo so. So solo che la vedo così.

KETA: Io sono più legata invece ad una visione dove c’è il bianco e c’è il nero, sono fatta un po’ così. Ma ci sta che la si veda diversamente, ci sta. Anzi: è molto adulto quello che dici. Non ci sono buoni o cattivi, ci sono solo scelte giuste o sbagliate. Ok. Io però resterò sempre più fumettosa: non riesco a non dividere tutto tra chi vuole il bene, e chi il male.

Wayne: Ma ci sta. Però se ci pensi, la vita è fatta soprattutto di scelte. E spesso le scelte che fai hanno un tipo di intenzione, sì, ma finiscono coll’avere un risultato completamente opposto. Per dire, prendi chi vive in campagna e a un certo punto ha devastato il territorio, per renderlo più produttivo. All’inizio sembrava la cosa giusta da fare, sfamava meglio i propri figli, iniziavi a vivere meglio: no? Hai devastato l’ambiente, alla fine; ma non era quello il tuo obiettivo, però. Tu volevi semplicemente vivere meglio. Non partivi con l’intenzione di fare una cosa cattiva solo per i comodi tuoi, non eri uno stronzo; ma alla fine le tue scelte hanno fatto del male a te, e a tutti.

KETA: Figo questo ragionamento. E il tuo libro preferito, invece? Qual è?

Wayne: Boh, sai, io non leggo. Sono un po’ tipo i millennial.

KETA: Non per forza libri, eh. Anche fumetti.

Wayne: Fumetti, allora ti posso dire Spiderman. E Dragon Ball.

KETA: Dragon Ball è veramente una roba mega tua! Sì! In Succo di zenzero Vol. 2 secondo me c’è infatti un sacco di immaginario alla Dragon Ball

Wayne: L’idea dietro a questo album – non so se lo posso dire, boh? – era di fare tutto come se si fosse preso un trip, un acido. Posso dirlo?

Ovvio che sì.

Wayne: Un disco che deve essere come farsi un viaggio dentro l’acido, un disco che quando lo ascolti inizi quasi a vedere tutto come se fosse un cartoon o come se gli oggetti respirassero, capisci, capite? Tutte le persone coinvolte nella lavorazione volevo che avessero questo tipo di approccio. In questo modo nessuno di noi lavorava pensando «devo ottenere questo», nessuno aveva obiettivi predeterminati, era più invece un «cerchiamo di essere il più creativi possibile», con tutti sintonizzati su una simile lunghezza d’onda. In modo che tutti, durante il processo creativo e produttivo, si sentissero liberi. E protagonisti. Non erano cioè al servizio di un obiettivo: erano al servizio di se stessi, della propria creatività. Del proprio trip.

La copertina di ‘Succo di zenzero Vol. 2’

KETA: A me questo Succo di zenzero Vol. 2 infatti fa pensare ad un acido preso in una di quelle discoteche matte che ci sono tipo a Tokyo… Neon ovunque, design super-futurista…

Wayne: Può essere, perché no? L’importante è che sia un viaggio, un trip. Che poi può essere sia un good trip che un bad trip, o entrambe le cose assieme. Per fortuna, eh: perché è bello che ci possano essere delle sfaccettature. Che ognuno prenda le cose a modo suo.

Però nel disco c’è molta realtà, Wayne. Parli anche e soprattutto di cose molto concrete che ti sono successe nell’ultimo anno.

Wayne: Vero. Ma ho provato a raccontarle un po’ come se fossi in un viaggio psichedelico, per flash. Che poi, fatemi dire una cosa…

Vai.

Wayne: Non per sminuire questo volume 2 di Succo di zenzero, ma l’obiettivo non era fare il disco dell’anno, non so se mi spiego, ma fare una cosa che avesse comunque un suo gusto, una sua identità. Qualcosa in parte significativo anche al di là della musica.

KETA: Giusto, e infatti l’hai presentato non con un concerto, ma con una cena davvero wow: che è stata una vera e propria esperienza.

Wayne: Già. Io credo che la trap, che è la wave da cui siamo arrivati, abbia portato in superficie tutto un tipo di sensibilità specifica che ha messo in comunicazione varie persone anche al di là della musica. A fare da chef in quella cena c’era Floriano (Floriano Pellegrino chef stellato di Bros, il famigerato ristorante pugliese protagonista di uno dei più discussi e scoppiettanti casi di stroncatura/discussione enogastronomica, nda): lui ha poco meno di 30 nni, 29 mi pare, e lui – ne abbiamo parlato – si sente un botto rappresentato dalla nostra musica, da quello che fa la Dark Polo Gang. Capisci? C’è tutta una serie di persone che sono sulla stessa nostra lunghezza d’onda, anche se fanno altro. La musica, più forse di altre arti ancora, è uno specchio per raccontare una generazione. Non è un valore in sé.

E la Dark Polo Gang cosa rappresenta?

Wayne: Rappresenta la voglia di creare qualcosa di particolare, di nostro. È facile prendere Kanye West, perché lui è quello che sta sulla bocca di tutti e ha più successo, e provare ad imitarlo pari pari: ma è una cazzata. Perché lui rappresenta la sua vita, il suo Paese che sono gli Stati Uniti e non l’Italia, il suo modo di vedere le cose. Io posso prendere ispirazione da tutto questo, ma poi devo tradurlo per me, per il posto dove vivo, per l’Italia. Devo farlo per il nostro modo di parlare, per il nostro modo di pensare. Poi oh: puoi piacere, puoi non piacere… Anche durante la cena dove ha cucinato Floriano, passavo fra i tavoli e sentivo «Aoh, bomba ‘ste ostriche!» esattamente come «Oddio, ‘sto piatto… non so…». E vale lo stesso per tutto quello che ho fatto io e che ha fatto la Dark: gente che dice «Che cagata», gente che dice «Siete dei geni». Sbaglio, o questa cosa non succede a tutti? No, perché allora cosa vuol dire: quello che dice che siamo dei geni è un cretino? O è invece un cretino quello che dice che facciamo cagare? Ma il punto è che proprio il fatto che una discussione di questo tipo si crei è la vera cosa che conta.

È qualcosa di vivo, se non altro.

Wayne: Proprio perché oggi ci lamentiamo che c’è superficialità e si pensa solo al risultato, ai numeri, dovremmo valutarla bene ‘sta cosa, dovremmo darle importanza. Perché sembra che ora come ora conti invece solo l’accettazione. L’essere accettati, piacere a più persone possibili, è diventato l’unico valore.

KETA: Interessante! Spiega, spiegami meglio…

Wayne: Tipo che dovremmo saper apprezzare chi crea qualcosa che divide e che crea una discussione, no? Perché vuol dire che sta facendo qualcosa di diverso. Non sta pensando solo ad accontentare più persone possibili.

KETA: Che bomba, questo ragionamento!

Non male, sì.

KETA: Anche perché oggi gli album li ascolti che skippi, skippi, skippi; non ti dai nemmeno il tempo di affrontare qualcosa che sia complicato, qualcosa che in qualche modo all’inizio non ti piace. Molti di quelli che fanno musica lo sanno. E allora cercando di rassicurare chi ascolta, non il contrario.

Mi piace questo discorso della “società dell’accettazione”, lo trovo un bel punto. È un ragionamento che hai maturato di recente, Wayne, o ci pensi già da un bel po’?

Wayne: Quando è arrivata la pandemia, si è rotto qualcosa, si è rotta la ruota in cui stavamo tutti girando. E sono già passati quasi tre anni, no? Oh, la gente è rimasta ancora con l’idea che la Dark sia quello che era prima della pandemia. Invece, senti il disco di Tony: è cresciuto. Senti il mio: sono cresciuto pure io. Ma in generale, tutta la musica che sta uscendo oggi è un po’ più conscious. E come mai?

Già: come mai?

Wayne: Perché riflette quello che stiamo vivendo. Un tempo c’era la discoteca, ci andavi, volevi sentire e ballare i banger. Ok. Ma ora? Ora hai anche più tempo per pensare, per ragionare sulle cose: hai la lucidità e la possibilità di poterti iniziare a dire «Aspetta, ora ho molto tempo a disposizione, posso fermarmi un attimo, posso ragionare sulle cose, posso fare le cose con più libertà, tanto non c’è molto da perdere, è tutto fermo. Proviamoci».

Hai anche tu questa sensazione, KETA?

KETA: Per forza. Credo che questo abbia toccato tutti. Questi quasi tre anni di lockdown ci hanno cambiati parecchio. Ma ci hanno anche cambiati in modo strano: da un lato il discorso che dice Wayne, di rallentare, riflettere, ragionare, provare a recuperare il senso delle cose, vero. Dall’altro però vedo contemporaneamente un nervosismo spaventoso nelle persone, sono tutti molto più nevrotici di prima, e non parlo solo di Milano, anche se Milano è il primo esempio. E sono più nevrotici sai perché? Perché c’è quest’ansia di recuperare il tempo – e magari il guadagno – perduto. Quindi da un lato c’è questa urgenza di accelerare, dall’altro questa neonata consapevolezza che bisogna recuperare un po’ se stessi, perché ci si era persi. È strano.

Wayne: Prima della pandemia, io non riuscivo a pensare a me stesso: ero talmente preso dalla giostra degli eventi…

KETA: Minchia, sì!

Wayne: Ora invece ho capito che ci sono cose che voglio cambiare, sistemare, provare a fare. Ma occhio: non perché non mi piacesse quello che facevo prima. Non sto rinnegando nulla.

KETA: Chiaro. A proposito: ti ricordi il primo concerto che abbiamo fatto assieme, io e voi della Dark? 22 dicembre 2016, Milano, al Black Hole.

Wayne: E certo che me lo ricordo!

KETA: Fu una serata assurda, visionaria. Non lo sanno tutti: ma chi c’era, lo sa. Avevamo un approccio punk totale, tutt’e due – dimmi se sbaglio, Wayne. Tipo: go with the flow, e via in pasto al pubblico! Rispetto ad allora molte cose sono cambiate, per me e per voi.

Wayne: Vero.

KETA: Un certo tipo di purezza sporca penso che sia assolutamente rimasta, almeno io in te e in voi tutti della Dark lo sento, ma già ad esempio quando qualche anno dopo venni al Fabrique per il tour di Trap Lovers

Wayne: Uh, quel tour era avanguardia pura!

KETA: E già lì se ripenso a cosa eravate qualche anno prima al Black Hole, beh, nel frattempo eravate diventati degli alieni. Al Fabrique c’erano i cambi costumi, le coreografie, un sacco di ospiti, una produzione gigante. Insomma, avevate fatto una evoluzione pazzesca. Ma nel farlo, quello che mi piaceva è che lì, sul palco del Fabrique, vedevo comunque persone che se ne fregavano di essere chiamati rapper, o trapper, o pop star: no, eravate semplicemente liberi. Per me è stato potente. Anche perché sapevo bene da dove arrivavate, ero stata testimone diretta dei vostri primi passi.

Wayne: Io so solo che non ci è mai piaciuto ripetere le cose. Quello era un momento particolare: avevamo l’occasione per fare qualcosa di folle, di particolare, e ci siamo detti: beh, facciamola cazzo. Ti ricordi? Ci mettevamo pure in gonnellino…

KETA: Vero!

Wayne: Quello disegnato da… come si chiama… da Fausto Puglisi. Un po’ una nostra versione di quello che faceva Young Thug. Facevamo cose così, già. E ha pagato. Noi da sempre abbiamo fatto andare moda e musica di pari passo e, insomma, le persone con un po’ di gusto questa cosa ce l’hanno sempre riconosciuta. Oh, io ho l’impressione che in questa precisa fase storica la moda riesca a comunicare ed a sintonizzarsi con le emozioni e con lo spirito dei tempi meglio della musica. Più persone ci hanno detto «Non mi piace quello che fate, ma il modo in cui lo comunicate è figo, quindi sì, dai, alla fine siamo dalla vostra». Se siamo diventati di culto, è anche per la nostra capacità di incorporare la moda in quello che facciamo.

KETA: Ma non era solo questione di mettere dentro la moda. Anche il vostro giocare con gli archetipi di pop star, di boy band…

Wayne: Sì, c’era anche quello. Ma perché volevamo portare tutto ad un altro livello, un livello estremo; ma in un modo solo temporaneo. Mi viene da farti l’esempio di Virgil Abloh e Kanye: nelle prime foto, quelle più iconiche, erano vestiti in maniera super-appariscente. Ma nelle ultime li vedevi sempre in jeans e felpa. Capisci cosa intendo?

KETA: Assolutamente.

Wayne: Ci sono dei periodi in cui sai che puoi permetterti le cose più strane, più estreme; poi a un certo punto ti stuferai, avrai voglia di cambiare e inizierai a togliere, togliere, togliere. Per me è vitale poter cambiare ed evolvere il modo di comunicare, di comunicarmi. Vivo per questo. Davvero. Qualche volta noi come Dark magari abbiamo sperimentato troppo, a volte la nostra fanbase semplicemente non ci ha capito. Ma sono davvero convinto che se siamo quello che siamo e se abbiamo un successo, e ce l’abbiamo, credo che sia perché abbiamo sempre trovato un modo vivo di comunicare, sempre. Un modo vivo e molto italiano. Non banalmente copiato da modelli da fuori, cioè. Poi oh, la verità è che in Italia se vuoi ottenere la consacrazione devi attendere tipo una vita. La consacrazione in Italia arriva sempre in ritardo. Ci mettiamo proprio tanto a capire le robe. Prendi i Måneskin: non dico che all’inizio non se li cagava nessuno, perché sarebbe brutto per loro dirlo, ma hanno iniziato a diventare fighi solo quando è arrivato tipo un danese a fare «Ahó, ma guardate che questi sono fighi». Deve sempre arrivare lo straniero di turno a dire quanto siamo bravi. Solo allora iniziamo ad accorgercene anche noi.

KETA: Vero, vero, molto italiana ‘sta cosa.

Wayne: Spero che adesso, con Måneskin e magari con altri gruppi, le persone inizieranno a dirsi: «Magari devo stare più attento, per non arrivare sempre tardi alle cose e farmi imboccare da fuori».

A proposito di imboccare, ma in un altro senso, ho una domanda per entrambi. Vi è mai capitato di rendervi conto che avevate imboccato delle strade artisticamente sbagliate, dei vicoli ciechi, da cui bisognava sfilarsi? O semplicemente dei momenti di impigrimento, di stasi creativa, di ripetizione della formula?

KETA: Onestamente? La mia fortuna è che quando mi impigrisco, poi semplicemente non faccio nulla. Facile.

Wayne?

Wayne: Mah, guarda… Arriva sempre il momento in cui stai iniziando a ripetere sempre la stessa cosa, e cominci ad annoiarti. Sì. È lì che devi capire che è arrivato il momento di cambiare non solo artisticamente, ma anche un po’ proprio vita. Sta tutto lì. Quando cambi vita, anche il modo di raccontare cose che già hai vissuto e già hai raccontato cambia. E questo è molto interessante. Peccato che ora, dall’arrivo della pandemia, sia diventato molto più complicato vivere. Al tempo stesso però c’è una grandissima pressione per “fare”: esce tanta, tantissima musica. Per stare sul pezzo e uscire con delle cose sensate, dignitose, dovresti velocizzare la tua capacità di provare emozioni. Ma questo non è facile.

KETA: Eh, no.

Wayne: Però oh, ci sta. Ci sta che uno debba stare tanto in studio, a produrre, a tirare fuori cose, di continuo, senza pause. Fino al giorno in cui ti dirai: ahó, me so’ rotto er cazzo.

Wayne, M¥SS KETA, Pyrex - Suv (Visual)

In Succo di zenzero Vol. 2 avete collaborato su una traccia, Suv, e personalmente lo trovo uno dei momenti più interessanti e intensi del disco. Ma fare tutto un disco insieme, voi due?

KETA: Un disco di Wayne Santana e M¥SS KETA insieme?

Esatto.

Wayne: Perché no.

KETA: Sarebbe come Mina-Celentano la vendetta.

Wayne: Mi piace, mi piace, perché no.

(Dal fondo della sala Riva, il socio stretto di M¥SS KETA, sorride ironico e fa: «Più che Mina e Celentano, sarebbe come Pam e Tommy»)

KETA: Senti Wayne, per chiudere volevo farti una domanda un po’ marzulliana.

Wayne: Ah sì?

KETA: Eccola: quale domanda che ti hanno fatto non ha ancora avuto una risposta?

Mamma mia oh, questa è cintura nera di Marzullo…

Wayne: Ripetimi un po’ la domanda.

KETA: Quale domanda che ti hanno fatto non ha ancora avuto una risposta.

Wayne: Mmm. Più che parlare di risposte, vorrei tornare a quello che si diceva del segno dello Scorpione. Io ho capito che di base non sono uno che cerca risposte, ma cerco di arrivare a quello che voglio. Nel farlo, più che risposte io cerco dei segni, qualcosa che mi dica che le cose stiano andando nel verso giusto, anche se non sono delle risposte definitive vere e proprie.

KETA: Forse ho capito. Intendi: avere delle luci lungo il sentiero, che un po’ ti indichino la via.

Wayne: Esatto! Tipo che stai facendo delle cose, e nel frattempo ti arrivano dei segnali. Qualcosa che ti faccia pensare «Ah, forse questo è davvero il percorso giusto». Se inizio invece una strada pensando subito a qual è il traguardo finale, e concentrandomi solo su quello, io questi segnali li perdo. E sai allora cosa succede? Succede che se anche per caso arrivo al traguardo finale a cui dovevo o volevo arrivare, ci arrivo male. Ammesso e non concesso che ci arrivi.

KETA: Ma mi stai parlando di musica o di vita?

Wayne: Di musica, e di vita.

KETA: It’s the same?

Wayne: Massì. Io ora ho fatto Succo di zenzero Vol. 2, ma il mio obiettivo non era il disco in sé, quanto tutte le cose che sono poi effettivamente successe attorno alla sua lavorazione. I dischi arriveranno e passeranno, ma le esperienze che si portano dietro resteranno sempre con te. Se tu invece pensi solo al risultato finale, queste esperienze te le perdi, manco ti accorgi della loro esistenza. Io ora voglio gustarmi i passaggi. Tutti. Voglio fare le cose per bene, ora. Voglio essere vero e giusto. Per essere, stavolta sul serio, la versione migliore di me.

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