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Il corso di sopravvivenza degli Idles

Come superare i traumi e scriverci su canzoni. Ma anche: il ritorno sul palco, l'errore di Neil Young con Spotify, la differenza fra dj e musicisti (c'entrano soldi e droghe). Intervista a Joe Talbot e Mark Bowen

Il corso di sopravvivenza degli Idles

Idles

Foto: Tom Ham

Che l’etichetta di post punk gli andasse stretta lo si era intuito da tempo. Joe Talbot l’aveva ribadito più volte: non voglio che gli Idles siano imprigionati in una definizione, siamo più di questo. Parole che si sentono periodicamente uscire dalla bocca di molti e che quasi sempre restano lì, a vagare nell’aria, senza sortire effetti concreti.

Non è il caso della band di Bristol, che dopo aver conquistato il numero 1 della classifica UK nel 2020 con il fragoroso Ultra Mono, si è ripresentata a fine 2021 con un disco, Crawler, che rispecchia la volontà di ridisegnare l’identità del gruppo attraverso l’esplorazione di nuove sonorità; basti citare The Beachland Ballroom, ballad condita di spirito soul che vede Talbot indossare a suo modo i panni del crooner, o Progress, intrigante miscela di elettronica e chitarre acustiche più vicina ai Radiohead che ai Joy Division.

C’è voglia di sperimentare, di dimostrare che partendo dal punk si può imbastire un linguaggio, sì, derivativo – d’altronde, che cosa non lo è, oggi? –, ma aperto alle influenze più diverse. «Con Ultra Mono l’operazione che abbiamo deciso di compiere è stata quella di raggiungere l’apice di ciò che eravamo stati fino a quel momento, per poter bruciare quell’effige e l’idea che ci si era fatti di noi e andare avanti», afferma Talbot in videochiamata su Zoom. Con lui il chitarrista Mark Bowen, che ha prodotto Crawler assieme a Kenny Beats, produttore attivo soprattutto in ambito hip hop, già al fianco di Vince Staples, tra gli altri. Pronti per un tour negli Stati Uniti che li porterà anche al Coachella, i due sarebbero dovuti passare per il nostro Paese a inizio marzo, ma niente da fare, la data è stata rinviata, cosa che abbiamo saputo solo dopo averli intervistati.

Crawler lo avete già presentato dal vivo nel Regno Unito: com’è andata?
Mark Bowen: È stato bellissimo! E anche particolare, perché in un certo senso la pausa dai live cui la pandemia ci ha obbligati ha trasformato questo ritorno ai concerti in un’esperienza di riapprendimento. Vale anche per il pubblico: nei mesi scorsi mi ero convinto che una volta si fosse presentata l’occasione di ritrovarsi sotto a un palco, la gente sarebbe impazzita e ci saremmo messi tutti a urlare «ce l’abbiamo fatta!». Non è andata proprio così, ma non perché le persone abbiano paura, semmai mi sembra che abbiamo tutti trascorso così tanto tempo a proteggerci, a preoccuparci del rispetto dello spazio altrui, che adesso ritrovarsi in mezzo a una folla può mandare in confusione. C’è bisogno di più gradualità di quanto avessi immaginato, ma è solo questione di tempo.

In un video del vostro show di gennaio alla Brixton Academy di Londra, però, ho visto che vi siete potuti godere una folla scatenata, in Italia quel tipo di situazione è tutt’oggi quasi inimmaginabile. Ad ogni modo, come ha influito sul set un album eclettico come Crawler?
Bowen: Abbiamo scritto questo disco proprio con l’idea di rendere più intensi i concerti con dei brani che ci dessero la possibilità di suonare per più di due ore creando una sorta di flusso emozionale. Il risultato è una scaletta che non tiene solo sotto pressione, ma più dinamica, giocata su un’alternanza di momenti più violenti e altri più soft, il che quando suoniamo dal vivo si traduce effettivamente in un’intensità maggiore.

Dal punto di vista tematico Crawler è un concept, quasi una confessione, il resoconto di una serie di traumi che tu, Joe, ti sei ritrovato ad affrontare: dall’infanzia complicata accanto a una madre alcolista all’abuso di sostanze stupefacenti agli anni di lotta per uscirne. Come mai questo bisogno di aprirti su temi così delicati?
Joe Talbot: Tutto è partito da una lunga riflessione, il che penso valga per tanti dischi usciti in questi due anni di pandemia. Noi Idles siamo una delle poche, fortunate band che in questo periodo difficile ha potuto contare su un orizzonte sicuro, così non appena abbiamo intuito che non saremmo potuti tornare in tour per un po’ ci siamo messi a scrivere. Non sapevo di cosa avrei parlato nei nuovi brani, in quella fase mi trovavo da mio padre, ho abitato con lui per un anno a Cardiff e la mattina facevo delle lunghe passeggiate, cosa che non avevo più fatto da dopo l’incidente in auto in cui ho quasi perso la vita (ne parla in MT 420 RR, nda). Mi riferisco al camminare senza meta, senza un reale proposito: non ne avevo mai compreso il senso, prima. Invece ho iniziato a farlo e questo mi ha permesso di riflettere, appunto.

Su cosa, in particolare?
Talbot: Sul mio percorso terapeutico: ero da poco passato da una terapia centrata sulla persona alla psicoterapia cognitivo comportamentale, metodo che implicava più compiti a casa, un lavoro su me stesso da portare avanti in autonomia. È stato allora che, spinto anche dal fatto di essere da poco diventato padre, mi sono reso conto di quanto fossi responsabile di tutto ciò che mi era accaduto. È stata una presa di coscienza: d’un tratto ho capito che se ero finito dov’ero finito non era perché fossi una vittima, ma perché avevo compiuto delle azioni che mi avevano condotto sin lì. Tale consapevolezza mi ha permesso di cogliere la fragilità della vita e di realizzare quanto fossi privilegiato ad avere ancora un lavoro, una band e tutto il resto. Di lì la voglia di aprirmi anche rispetto alla mia dipendenza, per raccontarla come qualcosa di non moralmente cattivo e deplorevole. In questo senso Crawler è un album che parla di perdono e di gratitudine, basato sul viaggio di una persona sopravvissuta a esperienze traumatiche.

“In spite of it all, life is beautiful”, canti in The End.
Talbot: Quella è una grossa bugia, in realtà la vita è orribile, ma la negatività non vende e così… Sto scherzando, sto scherzando! (Ride) Seriamente, il traguardo di ogni processo di guarigione da un trauma è la gratitudine, il che significa che la cura consiste nell’incoraggiare chi soffre di dipendenza da sostanze stupefacenti a ricordarsi sempre di tutte le cose di cui può essere grato. Nel mio caso il fatto di essere ancora qui nonostante gli sbagli commessi e di essere circondato da amici adorabili e intelligenti come Mark.

Da quant’è che vi conoscete?
Bowen: Da 15 anni, la prima volta ci siamo incontrati nel 2007 o 2008 allo Start the Bus, un locale di Bristol. Abbiamo iniziato a chiacchierare e siamo andati avanti tutta la notte, ricordo che abbiamo anche litigato con un coglione… Questo per dire che Joe è un amico da tempo, non mi ha sorpreso vederlo includere aspetti così personali della sua vita nella musica degli Idles, del resto lo aveva già fatto in passato. Diciamo che questa volta ciò che ne è scaturito all’interno della band è una riflessione sulla riflessione, non so se mi spiego.
Talbot: Credo che Mark voglia dire che il processo che abbiamo portato avanti insieme non ha riguardato tanto la mia storia personale, quanto la possibilità di comprendere la dimensione collettiva del trauma. Perché tutti viviamo dei traumi, tutti lottiamo contro qualcosa che ci ha fatto soffrire e ci condiziona, non c’è nessuno che non abbia dubbi su se stesso. E, non bastasse, a tutto questo si aggiunge la preoccupazione per la rapidità e la violenza con cui nella società certe cose possono cambiare sopra le nostre teste sia da un punto di vista politico, sia sotto il profilo etico. Voglio dire, il modo in cui agisce il neoliberismo oggi è spaventoso.

Lavoravate entrambi come dj, prima degli Idles: era una vita tanto diversa da quella di oggi?
Talbot: No, perché in fondo i motivi per cui facevamo i dj – io in ambito punk, Mark metteva dischi techno – erano gli stessi di quelli che ci hanno poi spinti a formare una band: si tratta di voler vivere la musica da protagonisti e non da spettatori. Se io ero diventato un dj, era perché desideravo che la musica fosse il mio mondo, volevo far ballare la gente e farla sentire bene. L’unica differenza rispetto al fare parte di un gruppo è che come dj sei sempre pagato per il tuo lavoro e hai più facilmente accesso gratuito a ogni genere di droghe.

Un’altra differenza è che con gli Idles, dato il successo ottenuto, avete dovuto avere a che fare molto di più con la stampa, non solo quella britannica. E tu, Joe, proprio in concomitanza con l’uscita di Crawler, hai detto di aver rischiato di perdere il controllo della narrazione attorno alla band. A cosa ti riferivi?
Talbot: Quella è una cosa legata ai miei problemi di salute mentale. C’è stato un momento in cui mi sono sentito perso, ero pieno di rabbia e tendevo a dare la colpa di questo agli altri, mentre il problema ero io: ero io che dovevo ponderare maggiormente le mie risposte ai giornalisti e smettere di pensare che chiunque là fuori potesse avercela con me. Ma ripeto, era colpa del mio stato mentale, sono stato a lungo sotto l’effetto di droghe e alcol sentendomi come un animale in trappola e quando è così è meglio non concedere interviste, perché finisci per stare sempre sulle difensive.

Invece cosa potete dirmi dell’artwork di Crawler? Non ne avete parlato granché e mi chiedevo: quello in copertina è un astronauta?
Talbot: No, sono io con addosso un costume che ho creato abbinando una tuta da combattimento, una sorta di armatura, e un casco da moto. Mi sono ispirato agli scatti di Charles Fréger, fotografo francese che realizza reportage sui costumi da cerimonia folkloristici nelle più disparate parti del mondo, dall’Europa al Sudamerica, dall’Africa al Giappone. Guarda, questo è sull’Europa (prende un catalogo e inizia a sfogliarlo, nda). Il risultato è la nostra copertina, che è simbolica, una metafora del processo che con gli Idles mi ha portato a costruire un posto bello, sicuro e dignitoso dove stare. Per questo dietro di me c’è quella casa modernista: l’architettura modernista è nata con l’idea di creare ambienti belli nella loro semplicità, pensati come gusci protettivi per chi li abita. Poi ognuno può vederci quello che gli pare, tu ci hai visto un astronauta e va bene, in effetti non è chiaro se in quell’immagine io stia cadendo o stia fluttuando, che è ciò che si prova quando si è dipendenti da qualche sostanza e si sta cercando di uscirne. Del resto, anche nella società sono due le prospettive con cui si guarda a chi ha problemi di questo tipo: quando intraprendi un percorso di riabilitazione, c’è chi si sofferma sul fatto che stai tentando di migliorare la tua vita, di superare un disagio, e in questo vede un fatto positivo, e chi, al contrario, nella cura vede comunque qualcosa di negativo, perché di fatto continua a considerarti solo un tossico.

A questo punto avrei una curiosità: che cosa pensate dell’affaire Neil Young vs Spotify? Saprete che Young ha chiesto alla piattaforma di streaming di scegliere tra la sua musica e il podcast di Joe Rogan, reo, secondo lui, di veicolare contenuti no-vax. Probabilmente non si aspettava che Spotify avrebbe preferito tenersi Rogan, anche a costo di rinunciare al suo catalogo.
Talbot: Temo che Young abbia peccato d’ingenuità, a quel tipo di piattaforme non frega nulla dei contenuti che veicolano e i suoi numeri sono una goccia nell’oceano rispetto a quelli che fa Rogan. Per me è indubbio che nel podcast di quest’ultimo ci sia del machismo destrorso, ma resta il fatto che si tratta di opinioni, non stiamo parlando di un telegiornale o di un programma d’informazione, e sinceramente non credo che boicottare dei contenuti rappresentativi di posizioni personali sia una buona idea, anzi, credo sia una deriva non dissimile da quella stronzata della cancel culture. Silenziare un lato della conversazione è da fascisti, Young avrebbe dovuto chiedere di partecipare al podcast di Rogan e approfittarne per dargli del coglione.
Bowen: Già! Tra l’altro non capisco perché così tanta gente segua un podcast come quello, che molto spesso veicola disinformazione e altrettanto spesso alimenta la paura della gente ospitando personaggi quantomeno controversi. Ma concordo con Joe: più che chiudere ogni possibilità di confronto, non sarebbe stato meglio mostrare quanto Rogan sia un idiota?
Talbot: E poi mi chiedo: davvero Rogan sarebbe una minaccia? Anche su Facebook girano un mucchio di cazzate su qualsiasi argomento, e allora? Qual è il punto? Quella non è la realtà, è solo una pantomima. Ma purtroppo in giro c’è un sacco di gente populista e razzista che con la pandemia si è estremizzata ancora di più. Mentre nella situazione in cui ci troviamo dovremmo tutti aprire i nostri cuori e le nostre menti e unirci per costruire un mondo migliore.

Prima di salutarci, vi va di dirmi che cosa state ascoltando in questo periodo?
Bowen: I Depeche Mode e il nuovo album dei Low.
Talbot: Ascolto lo YogiTea e lo YogiTea mi dice «riconosci che sei la verità» (ride). A parte questo, la mia band preferita del momento sono i Mandy, Indiana.

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