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«Il blues è un atto di fede»: Ben Harper e Charlie Musselwhite

Un genere che è uno stile di vita per i due. Di nuovo assieme, per suonare come "treni merci"
Ben Harper e Charlie Musselwhite, il loro ultimo album di coppia è "No mercy in this land". Foto: Ilaria Magliocchetti Lombi

Ben Harper e Charlie Musselwhite, il loro ultimo album di coppia è "No mercy in this land". Foto: Ilaria Magliocchetti Lombi

Ti accorgi che Ben Harper è entrato in una stanza perché tutte le donne presenti – di botto – si fermano, e guardano nella stessa direzione. Lui, splendido quasi- cinquantenne, ha una parola buona per tutti: si presenta, ti stringe la mano, ti chiede come stai, si ricorda di tutte le volte che ha parlato con te in precedenza e poi passa a raccontarti dettagli della sua giornata o delle cose che lo legano all’Italia: «Siamo stati in quello show che fanno a Milano, quello di Rai Uno, è stato molto divertente».

«Abbiamo fatto un pezzo del disco nuovo», prosegue, «ma, poco prima di cominciare, è partito un fusibile del mio ampli – che è vecchio e malandato, ma suona da far spavento – e abbiamo dovuto letteralmente fare una corsa contro il tempo per recuperarne uno, altrimenti rischiava di saltare tutto. Questi sono gli inconvenienti che capitano a noi musicisti della vecchia guardia. Ma, almeno, se salta la corrente, c’è sempre questa», dice, mentre con la mano tocca a caso un paio di corde della chitarra acustica, ancora sdraiata nella sua custodia aperta.
Il plurale non è maiestatis, anche se, per certi versi, potrebbe anche esserlo. Riguarda lui e Charlie Musselwhite, con cui già nel 2013 aveva realizzato un disco – Get Up!, premiato con il Grammy –, con cui torna ora sul luogo del delitto per un nuovo-disco-di-nuovo-blues-delle-origini (sappiamo che può sembrare un ossimoro, ma fidatevi: questa formula ha davvero senso, ascoltare per credere). Charlie è una vera leggenda, uno che ha suonato nei dischi dei “maestri” e scritto pagine di storia del blues, genere nato lungo il delta del Mississippi e approdato a Chicago (esattamente lo stesso percorso compiuto da lui, nato a Memphis quando Elvis ancora non era Re e arrivato nell’Illinois, alla corte di John Lee Hooker).

Una leggenda su cui circola un’altra leggenda: sarebbe lui, infatti, ad avere ispirato il personaggio dell’armonicista di nome Elwood e di cognome Blues in un film che non dovrebbe avere bisogno di alcuna presentazione. «Me l’ha chiesto pure il conduttore di quello show! Che ti devo dire, è tutto vero. Me l’ha confessato Dan (Aykroyd, ndr) qualche anno fa, e non posso che sentirmi onorato». Manuel Agnelli ha ospitato nel suo tv show Ossigeno la coppia, che nello studio ha ese- guito una cover di When the Levee Breaks, nella versione dei Led Zeppelin, insieme agli Afterhours. «Cazzo, che band incredibile. È stato bellissimo suonare con loro», dice ora Ben, mentre Musselwhite annuisce convinto. Agnelli ha iniziato la sua chiacchierata con i due chiedendo cosa fosse il blues. Una domanda che può sembrare forse banale, ma che ne suggerisce un’altra davvero stupida: “Che senso ha un disco blues nel 2018?”.

Risponde sempre Ben Harper: «Non è affatto una domanda stupida, anzi. È esattamente la questione da cui siamo partiti noi, quando ci siamo ritrovati a decidere se volevamo scrivere un altro disco insieme. Ma la risposta giusta a un quesito del genere la può dare solo Charlie. Vero Charlie?». Charlie lo guarda, beve un sorso di caffè, giocherella con l’anello a forma di teschio nero che ha sull’anulare destro, e poi risponde con il tono di chi parla poco e mai a sproposito: «Ha senso perché il blues non è un genere musicale, ma una fede. La fede nel blues. Ed è ovunque. È una filosofia, uno stile di vita, un modo di essere, e ha a che fare con il guardare al futuro con fiducia. Anche quando ti sembra che tutto stia andando a puttane».

Fa una pausa e poi riparte, con il piglio inconfondibile del predicatore: «A me hanno sempre annoiato a morte i discorsi tipo “questa cosa non è abbastanza blues”, oppure “il blues si può fare solo con quei tre accordi, o cinque, seguendo una determinata scala, altrimenti non è puro, eccetera”. Chi se ne frega di queste stronzate! Io posso dirti per certo che uno come B.B. King era blues pure quando cantava una canzone per bambini come Mary Had a Little Lamb, non tanto per il modo in cui l’aveva riarrangiata, ma per il suo spirito. Perché questo è il blues: spirito. E lo spirito è senza tempo. È natura. Qualcosa che hai nel sangue».

Non ci sono tante cose su questo pianeta che suonano come un treno merci. Noi due, invece, suoniamo esattamente così

Ben e Charlie si conoscono dal 1993, da quando John Lee Hooker aveva invitato Harper in veste di guest star in uno dei suoi dischi, eppure c’è voluto del tempo, prima di decidere di realizzare un album insieme: «In realtà ci siamo incontrati in un club, dove Charlie suonava con John Lee, mentre io ero stato invitato ad aprire i concerti. È scattato subito un feeling immediato tra di noi, ci siamo presto resi conto di pensarla alla stessa maniera su un sacco di cose».

Gli fa eco Musselwhite: «La prima volta che siamo entrati in uno studio insieme eravamo già diventati amici, e quella sintonia si sente tutta nelle session che abbiamo realizzato per John Lee. E ora ovviamente anche nei nostri dischi». Riprende Ben: «Ricordo che, quando abbiamo finito di realizzare quella traccia, io e Charlie ci siamo scambiati un cenno d’intesa, rumoroso, che è finito anche nella registrazione, tant’è che John Lee Hooker disse una cosa del tipo: “Ma che cos’è questo rumore? Un cazzo di treno merci? Suonate come un cazzo di treno merci voi due insieme!”. E lui non era uno che sprecava parole: capisci, se John Lee Hooker ti dice che sei un cazzo di treno merci, tu sei un cazzo di treno merci. Anche perché non ci sono tante cose su questo pianeta che suonano come un treno merci. Noi due, invece, suoniamo esattamente così».

No Mercy in This Land non è solo il titolo del loro nuovo album realizzato in coppia, ma anche quello di una delle canzoni più personali e urgenti dell’album. Eppure è impossibile non vederci un riferimento alla situazione politica americana: «Ti giuro che non lo dico perché non voglio entrare nel merito del testo della canzone», dice Harper, «ma il bello della musica sta proprio nel fatto che ognuno può vederci quello che vuole. E sì, chiaramente lì dentro c’è tutto: il micro e il macro. Il personale, perché è molto personale, e il politico. Addirittura per me, che l’ho scritta, cambia significato ogni volta che la suono, perché dipende anche dal mood in cui mi trovo. Come ogni essere umano ho i miei alti e i miei bassi, ogni tanto tocco il fondo, ogni tanto oltrepasso il limite, e più o meno quella canzone riguarda tutti questi aspetti. Ma potrebbe parlare di chiunque, non solo di me. Non solo del mio Paese”.

Nel corso degli ultimi tre o quattro anni moltissimi musicisti afro-americani hanno compiuto una sorta di ritorno alle origini, andando a riscoprire le radici alla base del loro suono. Tanta Africa, quindi, e anche tanto jazz: «Stimo moltissimo il lavoro di gente come Kamasi Washington e Robert Glasper, il loro modo di andare a recuperare un certo tipo di passato. Non ti nego che un po’ la vivo come una vittoria personale, perché se ci pensi è un discorso che ha da sempre contraddistinto il mio percorso. Purtroppo abbiamo lasciato per un sacco di tempo questi generi musicali in mano ai puristi con la puzza sotto al naso». Per Ben Harper il purismo è la peggior cosa che può essere associata alla musica. «La musica è un organismo vivo, nasce dall’incontro, vive proprio nelle diversità e negli incroci impossibili. Ma al tempo stesso è importante sapere da dove veniamo, chi c’era prima di noi, che cosa ha fatto. E poi provare a spingersi un po’ più in là. Io ho cominciato molto presto a frequentare gli studi di registrazione, ero proprio un ragazzino, ma avevo tanti amici che suonavano nelle band. Ci sono sempre stato in mezzo, ma ricordo ancora come uno shock, quando, all’inizio degli anni ’90, Taj Mahal mi ha invitato a registrare dei pezzi con lui. Ho proprio in mente l’immagine precisa di me, seduto con la Washburn sulle ginocchia, che lo guardo e penso: “Wow, sto suonando con Taj Mahal, come cazzo è possibile!”. Pendevo dalle sua labbra, chiedevo se potevo sistemargli la chitarra e nel frattempo spiavo i suoi pedali. Quello era il mio modo per mostrargli il mio rispetto».

Questo è il blues. È spirito senza tempo. È natura. È qualcosa che hai nel sangue

Mentre Ben Harper parla, nei suoi occhi si legge chiara e forte la sua emozione. Intanto Charlie comincia a giochicchiare con l’armonica, in attesa di scattare le foto di questo servizio. Hanno voglia di andare in giro a suonare, di cominciare a fare la cosa che amano di più al mondo, quella che li rende vivi e che a fine aprile li porterà a esibirsi a Milano: «Non vediamo l’ora di portare queste canzoni su un palco. Chissà cosa succederà… con noi ogni concerto è diverso. Ed è questo il motivo per cui io e Ben ci troviamo così bene insieme. Quando siamo in tour finiamo sempre per improvvisare e creare musica nuova. Non smettiamo mai, è sempre una sorpresa». Sarebbe sorprendente, quindi, se la loro sto- ria come duo finisse qui, con questo disco. Risponde Musselwhite, e come sempre ha una parola buona per tutto. Quella definitiva: «Chi lo sa! Non siamo noi a decidere. Lo farà la musica».

L’unica cosa che conta. Insieme allo skate, direbbe Ben Harper.


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