Idles: l’arte di guarire | Rolling Stone Italia
Tutto è amore

Idles
L’arte di guarire

Imparare a volersi bene per affrontare la dipendenza. Stare lontano dal circo dei social. Scrollarsi di dosso le etichette. Cambiare “voce”. Cantare d’amore nel nuovo album ‘Tangk’. Parlano Joe Talbot e Mark Bowen, frontman e chitarrista della guitar band più importante d’Inghilterra

Foto: Lillie Eiger per Rolling Stone UK

Joe Talbot s’appoggia al tavolo di casa, a Bristol, e sorseggia una tazza di caffè. «Due cose sono importanti nella mia vita: mio figlio e quest’album». Il disco in questione è Tangk, il quinto e più audace a livello musicale degli Idles. Dopo avermi parlato in modo entusiasta dei temi dell’album legati all’amore e del suo percorso di recupero dalla tossicodipendenza, andrà a prendere il figlio a scuola. «Faccio il lavoro più bello del mondo», dice sorridendo a proposito delle due passioni che al momento sono il fulcro della sua vita.

Formatisi a Bristol nel 2009, gli Idles hanno iniziato scrivendo canzoni indie pop tipo Maccabees. Nel decennio successivo, cambi di formazione e centinaia di piccoli concerti li hanno spinti a irrobustire il sound fino a pubblicare nel 2017 il fortunato esordio Brutalism. Il suono ruvido e i testi pieni di vulnerabilità e politicizzati di Talbot (“Il modo migliore per spaventare un conservatore è leggere e diventare ricco”, urla in Mother) hanno colpito sia gli ascoltatori più giovani che i vecchi punk disincantati. Dopo essersi fatti il mazzo per otto anni, sono diventati da un giorno all’altro, o quasi, la guitar band più importante d’Inghilterra.

Il secondo album Joy as an Act of Resistance è arrivato nel 2018. In poco tempo si sono ritrovati headliner all’Alexandra Palace, considerati gli ultimi di una lunga serie di salvatori del guitar rock britannico (sempre che avesse bisogno di essere salvato). Con Ultra Mono del 2020 hanno raddoppiato la dose, prima di fare un passo indietro verso atmosfere più calme con Crawler, l’anno dopo, un lavoro più orientato alla sperimentazione a livello di testi e suono. In tutto ciò, Talbot ha sempre parlato apertamente, nelle interviste e nelle canzoni, della sua lotta con la dipendenza e di come la band e i fan l’hanno sostenuto durante il suo percorso.

«È stato nel periodo di Ultra Mono che ho iniziato a rendermi conto, per la prima volta, di essere un personaggio pubblico», dice Talbot a proposito di un album che gli piace ancora, ma di cui ora vede i difetti. «E quando succede, cominci a predicare ai convertiti. Ecco cos’era quel disco: spavalderia e un senso quasi deragliato di “grandezza” usati per fare un album. Oggi invece non voglio arrendermi all’insicurezza. Sono un insicuro. Ho paura. Desidero essere amato. Ma è più proficuo essere semplicemente se stessi».

Superare questa insicurezza e stabilire legami sinceri è un tema chiave di Tangk, che si inserisce nel solco di Crawler. È un disco composto solo da canzoni d’amore presentate in modo più raffinato e soft rispetto agli Idles di un tempo. «Non volevo aderire a un’idea standardizzata di cos’è una canzone d’amore», dice Talbot. Se sul palco è un frontman aggressivo, di persona è molto tranquillo e pacato, ed espone i suoi pensieri con gentilezza e cura. «Avevo bisogno di amore, di trovare l’amore. Mi sentivo di nuovo solo, spaventato e, quando si affronta una dipendenza, volersi bene è importantissimo. Devi interrompere il circolo vizioso. Hai un figlio, hai una carriera: ma le cose possono andare solo in due modi. Uno è incredibile, gratificante, bello; l’altro è un inferno. Che fare? Anche se sembra una scelta semplice, la dipendenza la rende incredibilmente difficile. C’è moltissimo amore ovunque, ma occorre ricordarselo: non bisogna perdere di vista le cose essenziali. Dovevo solo fare un respiro, ho pensato, iniziare a lavorare su me stesso, amarmi, e il resto sarebbe venuto da sé. E così è stato».

Foto: Lillie Eiger per Rolling Stone UK

Per trovare questo amore, Talbot ha dovuto disconnettersi da Internet. «Ho capito che la gente penserà in ogni caso di me cose che non mi piacciono, ma se non presto attenzione a questa roba nella vita quotidiana, perché dovrei andare a cercarla in Rete? Oggi ad esempio non sono andato online manco una volta», dice, spingendo il telefono lontano da sé, sul tavolo della cucina, con un gesto plateale. Suggerisco al cantante che anche a me piacerebbe vivere così, ma ho motivi sia concreti (impegni di lavoro) che più futili (paura di perdermi qualcosa, la forza dell’abitudine) che mi tengono incatenato al telefono.

«La cosa strana è che si staccherebbe la maggior parte delle persone», risponde. «Io non lo faccio per darmi arie da tipo strambo… Mio padre non ha mai avuto una tv, mai, e io mi sono sempre chiesto perché. Ora mi rendo conto che aveva capito gli effetti che la tv ha sulla gente. E poi, perché mai voler fissare un oggetto per cinque ore ogni sera?».

Ora che è padre, spera che le nuove generazioni finiscano per rifiutare la gratificazione istantanea dei social e stiano lontane dalle cose che dominano le nostre vite? «Oggi c’è così tanta gente su Internet che le mode vanno e vengono molto più velocemente. Pensa agli NFT. È stato pazzesco, ma per cinque minuti. “Questo è il futuro, gente! Investiteci!”. Capisci cosa stava dicendo questa gente? Immobili immaginari? Ci sono persone che hanno investito i risparmi di una vita in questa roba e, guarda un po’, è andato tutto in malora».

«Ci sono aspetti pericolosi nell’AI, in termini di valore culturale e nanotecnologia, ma mio figlio e la sua generazione ne rideranno proprio come noi abbiamo riso dell’età vittoriana. Non c’è bisogno di un robot in cucina per rompere un uovo: lo rompi e basta. Le acque si calmeranno, tutti si renderanno conto degli effetti reali che i social media stanno avendo sulle persone e ci metteranno un freno. Stare nove ore al giorno su qualche cazzo di social network non fa bene».

«Se la razza umana è la più evoluta è perché siamo in grado di guardare indietro e ricordare. Quindi progrediremo e i nostri figli non saranno stupidi, ma per ora è un cazzo di circo enorme, bizzarro e pericoloso».

Talbot si terrà pure ontano dalle polemiche online, ma la sua band ha comunque dovuto affrontarne alcune. In passato, gli Idles sono stati coinvolti in battibecchi coi Fat White Family e gli Sleaford Mods e sono stati accusati di essere cosplayer della working class. Quando incontro il cantante, a fine novembre, è iniziato l’assedio di Israele a Gaza e al popolo palestinese e gli Idles sono stati criticati da altre band, sia online che sul palco, per essersi astenuti da dichiarazioni sul tema e non avere manifestato a sostegno alla Palestina. Nonostante abbiano firmato la lettera aperta di Jeremy Corbyn “Music for a Ceasefire”, molti hanno pensato che in un momento tanto critico una band che ha costruito il proprio nome (e gran parte della propria fanbase) grazie a idee politiche forti e a ideali di sinistra dovesse lanciare messaggi importanti.

Per Talbot la faccenda è piuttosto semplice. «Sostengo le stesse cose da sempre. Prendete qualsiasi intervista: dico sempre le stesse cose. Ma non siamo attivisti. Mi occupo della condizione umana e di come questa si ripercuote sugli altri, e per comunicarlo uso la musica, non Internet. Nulla è in contraddizione con quanto ho detto 12 anni fa sul palco e in ogni mia intervista. Sì, i miei valori tendono al socialismo. Quello che credo fin da quando avevo 15 anni è che il nostro governo e quello americano offrano garanzie e supporto a Israele e ad altre entità schifosamente orribili».

«Sono contrarissimo al fatto che Rishi Sunak, come investitore privato che trae profitto dalla morte di altre persone, stringa la mano a Netanyahu. Penso che dovrebbe vergognarsi. Ma dirlo ai miei amici su Instagram servirebbe a qualcosa? Non credo. Sono un personaggio pubblico. Ma potrei smettere di fare ciò che faccio e tornare a lavorare nel settore dell’assistenza. Ho firmato petizioni, ho partecipato a mobilitazioni, ho donato soldi. Capisco il dibattito, ma offendersi perché non ne parlo su Instagram è folle. Come possono confermare i nostri fan, di recente ne ho passate di tutti i colori e il posto peggiore per la mia salute mentale è Internet. Mi sto riprendendo e sono felice di farlo per conto mio».

Una situazione simile si è verificata durante le proteste del movimento Black Lives Matter dell’estate 2020, quando gli Idles sono stati criticati per non avere preso immediatamente posizione. «C’era un sacco di ostentazione, noi invece volevamo assicurarci che il nostro contributo, qualunque esso fosse, avesse una sua utilità», ha detto Mark Bowen a NME. Lontano dai riflettori e dalle polemiche online, Talbot ha disegnato una t-shirt degli Idles grazie alla quale sono state raccolte 36 mila sterline per la causa.

Foto: Lillie Eiger per Rolling Stone UK

Talbot è un interlocutore aperto e coinvolgente, pondera a fondo le risposte e le dà con lentezza e cura. Durante la nostra chiacchierata, affronta le critiche alla band con calma e comprensione, ammettendo di essere stato in qualche modo frainteso, in passato, a causa del suo modo di comunicare. L’unico momento in cui si picca, o comunque sembra a disagio, è quando parla del fatto che gli Idles vengono considerati un gruppo punk. Lo tira in ballo lui, l’argomento, senza essere sollecitato.

«Desideravo smettessero di considerarci una punk band, non volevo rimanere prigioniero dell’etichetta ed essere costretto a suonare quella che per la gente era punk. Ho ascoltato hip hop dagli 11 ai 25 anni. Dovrei forse cancellare questa parte del mio passato per compiacere qualcuno pigro di testa? Sono più di questa roba, come musicista. Sono un musicista punk, sono un rapper, sono un artista folk, sono un pittore. Sono qualsiasi cosa voglia essere oggi. Sono una persona creativa e nessuno mi può dire chi sono. Sto in una band con cinque esseri umani molto diversi tra loro, e non potremo mai essere una sola cosa».

Aggiunge: «Per me era un problema che la gente mi dicesse: “Sei un bianco che odia il governo e quello che ha fatto alle classi lavoratrici: devi essere per forza un punk”. No, non lo sono. Semplicemente non sono un conservatore, ho un microfono e canto quel che mi passa per la testa. Ok che ora non urlo più nei dischi, ma non mi capiterà mai di dire all’improvviso: “In fin dei conti, Tony Blair era un tipo a posto”. Lo stato del mio Paese mi mette tristezza, ma ora voglio cantare d’amore».

Se una band viene percepita come punk semplicemente perché il cantante urla, Tangk chiuderà definitivamente il discorso e farà vedere gli Idles sotto una nuova luce. Nel disco Talbot non alza quasi mai il tono, né tanto meno arriva al growl dei primi lavori del gruppo, ma si ispira ai soulmen che adora. Le canzoni d’amore di Tangk possono essere personali e divertenti (“Sono un uomo intelligente, ma per te rincretinisco”, canta in Roy) o invocazioni (“Rallegro il mio popolo, ecco quello che faccio!” dice Pop Pop Pop), ma tutte sono ugualmente fondamentali per l’album.

Foto: Lillie Eiger per Rolling Stone UK

Il frontman concorda con me quando gli suggerisco che questa trasformazione del suo modo di cantare, dall’urlo viscerale a una forma alternativa di espressione, è un’allegoria semplice e azzeccata del cambiamento dal vecchio al nuovo Talbot, o almeno così parrebbe di primo acchito. «Sono stato in analisi di recente e mi sono reso conto di avere indossato una maschera per difendermi», riflette. «Ho perso tante cose nella vita, ero spaventato. Dovevo reagire e a volte questo significa mettersi un paio di parastinchi o preparasi a fare la guerra».

«Ero in balia delle emozioni e della dipendenza, non riuscivo ad uscirne. Così ho cambiato il copione e ho adottato un nuovo approccio basato sulla pacatezza, sull’amore e sull’uso dell’arte per riequilibrarmi. È proprio per questo che ho fondato la band: per connettermi con l’universo e con le persone. È stato quasi come ritrovare la mia magia», aggiunge prima di sospirare: «Questa è una citazione buona da usare!».

«Ho ritrovato la mia voce, sia in senso figurato che letterale», afferma, incapace di resistere alla voglia di approfondire la storia semplice, ma efficace, di Tangk. «Questa è la verità. Ho ritrovato la mia voce. Posso essere vulnerabile. Posso essere innamorato. Posso essere dolce».

Come accade per ogni altro argomento della nostra conversazione, tutto viene ricondotto al suo album e a suo figlio. «Diventare genitore mi ha dato una nuova prospettiva sulle cose. Il mio modo di fare il genitore si basa sull’empatia e sul mettermi nei panni di mio figlio per un minuto, chiedendomi: come sarebbe se dovessi dipendere da qualcun altro per il cibo, tutto il tempo? Se lo fai, non ti puoi arrabbiare con loro».

«Sono più empatico e desidero aprire delle porte per il mio pubblico, porte che non sono mai state aperte prima. E non potrei farlo usando il vecchio approccio. Deve essere qualcosa di nuovo, che faccia emergere tutti i miei lati. Sono complicato, come tutti quanti, e voglio esplorare ogni sfaccettatura. Dal punto di vista dei testi, dei contenuti e delle tematiche, tutti i nostri album sono molto diversi e complessi, ma la mia vecchia voce a volte rendeva le cose piatte e la gente finiva per fraintendre il messaggio. Invece di stare lì ad aspettare che tutti mi capissero, ho scelto di cambiare approccio».

Foto: Lillie Eiger per Rolling Stone UK

Per realizzare Tangk Mark Bowen, chitarrista e produttore degli Idles, ha lavorato ancora una volta col produttore rap Kenny Beats e ha coinvolto il sesto Radiohead, Nigel Godrich. La band lo ha incontrato per la prima volta quando è stata invitata a suonare per il nuovo lancio della sua leggendaria webserie From the Basement. «Eravamo tesi, è una serie che avevo guardato religiosamente», racconta Talbot. «Dal modo in cui ci ha fatto i suoni, sembrava che ci capisse perfettamente a livello musicale, e la cosa ci ha sorpresi».

Dopo le session nello studio di Godrich a Brixton, lui, la band e Beats si sono spostati nel sud della Francia per dare forma al disco. «Volevo fin dal principio che diventassimo più innovativi e sperimentali», mi dice Bowen dalla sua casa di Belfast, quando lo chiamo il giorno dopo aver incontrato Talbot a Bristol. «Nigel ci ha parlato dei tape loop e ci ha mostrato approcci diversi alla scrittura. Gli Idles si sono sempre basati su una sorta di cacofonia sonora, ma volevamo esplorare questa violenza in modi differenti dal banale uso di feedback e rumore. Un buon produttore fa in modo che la band si senta sicura nel perseguire i suoi obiettivi e non abbia paura di commettere errori. E Nigel è bravissimo a farlo».

Mentre i tre produttori si dedicavano alle loro apparecchiature, Talbot aveva un solo testo completo per l’album (Grace, canzone delicata e bellissima) e ha lasciato che tutto il resto sgorgasse spontaneamente in studio. Tangk è un album sull’amore istintivo, quello che non puoi negare, che non può essere misurato o analizzato freddamente. Il cantante voleva che le parole evocassero la stessa sensazione. Quando i testi sono usciti, «erano perfetti», dice sorridendo, «erano esattamente come volevo, cioè poetici e veri. Era un periodo molto intenso: tutto sembrava brillante, vivido».

Gli Idles sono emersi come una band di cinque elementi con un sound e un approccio apparentemente tradizionali, ma Crawler e Tangk hanno messo in risalto la partnership creativa speciale e insolita tra Talbot e Bowen, due artisti per molti versi agli antipodi. «Crawler ha ispirato me e Bo a lavorare di più insieme e vedere di cosa siamo capaci», spiega Talbot. «Ci siamo resi conto di essere molto più interessati al nostro rapporto come autori di quanto pensassimo all’inizio. Bowen è pragmatico, l’opposto di me. Mi dà buoni consigli quando stiamo bene emotivamente, ma se siamo in una brutta situazione, ci scontriamo e dobbiamo lasciarci in pace. È un rapporto complicato, quindi dobbiamo staccare, riequilibrarci e poi tornare».

Bowen ride, ma è d’accordo quando gli riferisco queste parole: «È il punto di maggiore attrito: siamo l’uno l’opposto dell’altro, in quasi tutti i sensi. Siamo allineati sullo spirito della band e il modo in cui lo comunichiamo, ma abbiamo creatività di natura differente. Io lavoro meglio nel caos, lui ha bisogno di ordine».

Nell’ottica di questa partnership creativa, ogni cosa in Tangk conduce al suo nucleo fondamentale: l’amore. «Scrivere di qualsiasi altra cosa sarebbe stato pretenzioso», assicura Talbot. «Non volevo parlare di nient’altro, volevo solo concentrarmi su questo, ero fissato con l’amore e lo sono ancora. Tutte le altre cose sono stronzate, per me, in questo momento. Voglio essere in sintonia con le persone di cui ho bisogno e guarire. Quindi perché dovrei scrivere di qualcos’altro?».

Foto: Lillie Eiger per Rolling Stone UK

Oltre a essere un manifesto personale, Tangk è un disco che riafferma lo status degli Idles di band per tutti. Anche se il messaggio non passa attraverso esternazioni online e rockettoni sfacciati, con slogan politici al posto dei testi, la band offre una forma di connessione ancora più potente, che Talbot ritiene necessaria e utile per il suo pubblico e per sé.

«Per via di come è stata la mia vita e delle scelte che ho fatto, ho bisogno di guarire», riflette prima di salutarmi per andare a scuola. «Ho bisogno di restare coi piedi per terra per prendere le decisioni giuste, per essere affidabile, per essere un buon padre. Questo viene fuori nella mia musica, così come emergono sempre nella musica le cose a cui penso di più».

La speranza di Talbot è che i fan degli Idles comprendano e accolgano positivamente questa nuova forma d’espressione e il messaggio di Tangk. «Mi auguro che questo sia un nuovo modo di aiutare le persone a guarire e a prendere le decisioni giuste a livello politico, dando loro amore, parlando d’amore. Se la gente ha amore ed empatia nel cuore poi prende decisioni giuste. Gli argomenti sono quelli di sempre, a cambiare sono solo le canzoni».

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Foto: Lillie Eiger
Fashion director: Joseph Kocharian


Digital operator: Thomas Sedgwick

Set design: Isabel Alsina Reynolds

Acconciature & makeup: Sophia Cox

Primo assistente alla fotografia: Dom Fleming

Secondo assistente: Alejandro Martinez-Campos

Da Rolling Stone UK.

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