Intervista a Ian Paice: «Prima di un tour con i Deep Purple mi preparo con le cover band» | Rolling Stone Italia
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Ian Paice: «Prima di un tour con i Deep Purple mi preparo con le cover band»

Non sono mai scesi dal palco in 50 anni di carriera, ora tornano con un disco, un tour e il loro hard rock «Imperfetto, perché la musica non è scienza»

Ian Paice: «Prima di un tour con i Deep Purple mi preparo con le cover band»

Foto di Jim Rakete

«Non abbiamo mai detto che questo sarà il nostro ultimo tour. Abbiamo solo detto che sarà lungo». Ian Paice, 68 anni, capelli bianchi raccolti in una coda e occhiali da vista con lenti colorate blu, sorride, guardando il manifesto che annuncia le date di The Long Goodbye Tour (che parte il 13 maggio) e l’uscita di InFinite, il 20esimo album dei Deep Purple. Il peso della Storia non è poi così difficile da portare sulle spalle se sai come fare. I Deep Purple sono dei titani, creatori di un genere che non esisteva prima di loro, quasi condannati dal destino a essere testimonianza di se stessi e del loro suono.

«Prima o poi la nostra storia finirà, perché alla nostra età siamo più vicini alla fine che all’inizio, ma nessuno di noi vuole smettere. Anche se non è facile andare avanti quando vedi morire i tuoi amici, soprattutto quando sono più giovani di te», dice Roger Glover, 71 anni, coppola in testa e accento aspro del Galles. «I Deep Purple sono la cosa più straordinaria che ci sia capitata nella vita, ma arrivati a questo punto dobbiamo confrontarci soprattutto con il tempo. Nessuno di noi sa quanto ne abbia a disposizione, può solo decidere come impiegarlo. Noi vogliamo suonare. La nostra casa spirituale è il palco. Siamo sempre stati in tour, non pianifichiamo nulla, suoneremo finché sarà fisicamente possibile e ci divertiremo e speriamo che si diverta anche il pubblico».

Foto di Jim Rakete

Ian Paice (batteria) e Roger Glover (basso) sono il gentleman e il pirata, due versioni diverse dell’avventuriero britannico, il personaggio da romanzo che si mette in testa di conquistare il mondo e parte verso il posto più lontano. Paice è pacato, ironico e fa battute sferzanti. «Quando non ci saremo più rimarrà un vuoto difficile da riempire», Roger Glover è coraggioso e amichevole, il tipo di persona con cui vorresti uscire alla ricerca dell’ultimo pub aperto: «InFinite è un album fuori dal tempo? Per noi va benissimo così». Insieme sono la colonna portante di una struttura musicale che sta in piedi senza evoluzioni dal 1970, quando è stata scolpita per sempre nell’album Deep Purple in Rock e ha preso quella forma chiamata hard rock: «Cercavamo un modo per suonare più forte», racconta Glover. «Ci chiedevamo: come possiamo tirare fuori dagli strumenti qualcosa di ancora più potente? Alzare il volume è sicuramente un’opzione interessante. Volevamo maltrattare gli strumenti, spingerci oltre il limite».

La storia più celebre sulle origini di questo suono è quella secondo cui un giorno, durante le prove di Deep Purple in Rock, Jon Lord decide di attaccare il suo organo Hammond a un amplificatore Marshall (Jim Marshall ha fondato la Marshall Amplification a Londra nel 1962 proprio per far fronte alle richieste di Ritchie Blackmore dei Deep Purple e di Pete Townshend degli Who, nda): «Voleva modulare il suono come faceva Blackmore con la chitarra e ha pensato che, collegando l’Hammond al Marshall e accendendolo e spegnendolo, poteva creare l’effetto di un motore che si ferma e riparte», racconta Glover. «Ma quando ha suonato il primo accordo è venuto fuori un muro». Oggi Jon Lord non c’è più (ha lasciato la band nel 2002 per dedicarsi alla sua prima passione, la musica classica, ed è morto nel 2012), Ritchie Blackmore è un ricordo lontano (sostituito da Tommy Bolin e anche da Joe Satriani per un tour negli anni ’90) e la formazione con l’americano Steve Morse alla chitarra («Il suo arrivo nel 1994 ci ha fatto rinascere», dice Paice) e poi Don Airey alle tastiere è quella che è durata di più nella storia dei Deep Purple.

Da sinistra: Glenn Hughes, Ritchie Blackmore, Ian Paice, Jon Lord, David Coverdale. Foto di Fin Costello/Redferns.

Da sinistra: Glenn Hughes, Ritchie Blackmore, Ian Paice, Jon Lord, David Coverdale. Foto di Fin Costello/Redferns.

«L’hard rock incorpora il pop, il jazz, il blues e la musica classica, è un genere nato per esprimere emozioni diverse. È diverso dall’heavy metal che esprime una sola emozione, la rabbia», dice Glover. «Noi non siamo una band heavy metal, non mettiamo in scena uno spettacolo, siamo cinque musicisti che suonano il prodotto delle loro influenze in modo onesto. È questo il segreto della nostra longevità». InFinite, registrato a Nashville con Bob Ezrin (produttore di Alice Cooper, Kiss e di The Wall dei Pink Floyd), è l’ultimo capitolo della loro carriera, ma potrebbe essere anche uno dei primi. Un album di pura tecnica applicata al volume, che potrebbe stare in qualsiasi punto della loro storia, perché i Deep Purple vivono in una loro dimensione fuori dal tempo, demiurghi di un suono che solo loro riescono a tenere in piedi.

Non ascoltavamo nessun’altra band, eravamo nel nostro mondo. Vuoi fare un assolo? Ok, fallo. Quando finisce? Quando vuoi tu
Roger Glover

«Noi non facciamo canzoni, piantiamo un seme e lo facciamo crescere suonando, finché non riconosciamo qualcosa che può funzionare. Deve essere naturale, altrimenti il pubblico non lo ascolterà», spiega Glover. Ci sono dei momenti fondamentali nella mitologia dei Deep Purple: l’esordio coraggioso solo in America e con una cover, Hush (che arriva al numero 4 in classifica e lancia la band al successo), il progetto ambizioso Concerto for Group & Orchestra voluto da Jon Lord e messo in scena alla Royal Albert Hall nel 1969, la genesi dell’hard rock con la triade Deep Purple in Rock, Fireball e Machine Head, la storia arcinota di Smoke on the Water che Roger Glover scrive mentre il Casinò di Montreaux va a fuoco durante un concerto di Frank Zappa il giorno prima che la band inizi a registrare proprio lì l’album Machine Head (che alla fine viene registrato nelle sale e nei corridoi del Grand Hotel Montreaux) e, ovviamente, Made in Japan, l’album dal vivo registrato a Osaka e Tokyo durante il tour del 1972, che doveva uscire solo in Giappone, ma è finito in tutti i negozi del mondo e nelle collezioni di vinili di una generazione di musicisti. «È stato in Giappone che mi sono reso conto del potere che avevamo e che dovevamo imparare a usarlo», dice Glover. «Era la libertà di scrivere qualsiasi cosa, di seguire la propria ispirazione. Non ascoltavamo nessun’altra band, eravamo nel nostro mondo. Vuoi fare un assolo? Ok, fallo. Quando finisce? Quando vuoi tu». Aggiunge Paice: «Era un’epoca diversa: potevi far durare un pezzo 20 minuti e il pubblico te lo permetteva. Oggi la soglia di attenzione è ridotta e la musica è solo una delle mille cose che interessano alle persone».

I Deep Purple nel 1970: alla chitarra Ritchie Blackmore, Ian Paice alla batteria,  David Coverdale alla voce e Jon Lord alle tastiere. Foto di Anwar Hussein/Hulton Archive/Getty Images

I Deep Purple nel 1970: alla chitarra Ritchie Blackmore, Ian Paice alla batteria, David Coverdale alla voce e Jon Lord alle tastiere. Foto di Anwar Hussein/Hulton Archive/Getty Images

C’è anche un concerto all’Arena Civica di Milano del 19 settembre 1988, subito dopo la reunion della formazione di Made in Japan (la cosiddetta Mark II sciolta nel 1973) con l’album Perfect Strangers, che per chi c’era è stata una rivelazione, ma è rimasta impressa anche nella memoria della band. «Mi ricordo quella data», dice Glover, «suonavamo con una formazione che non esisteva da dieci anni, abbiamo iniziato il tour in Australia e in America, poi siamo arrivati in Italia per la prima data europea senza sapere cosa sarebbe successo e siamo stati travolti da un’ondata di entusiasmo incredibile. I fan italiani cantavano ogni parola e conoscevano ogni assolo, persino il mio assolo di basso. Erano più potenti di noi. Non lo dimenticheremo mai». Il punto è che i Deep Purple sono sempre stati uno splendido paradosso: una band di virtuosi che nasce in studio di registrazione, ma vive soprattutto sul palco. In fondo, la band underground più famosa del pianeta: vendono pochi dischi, ma riempiono tutti i concerti. «Quando un album è finito, io perdo subito interesse», ammette Paice, «penso subito a come devono suonare le canzoni dal vivo». «E quando mi chiedono se sono stanco di fare Smoke on the Water tutte le sere rispondo di no, perché ogni sera per me è una canzone nuova», aggiunge Glover. «Si sente la potenza dell’elettricità che invade la sala quando suoniamo i primi accordi ed è una canzone così semplice e chiara che può essere interpretata e vissuta diversamente ogni sera, anche da noi».

I fan italiani cantavano ogni parola e conoscevano ogni assolo, persino il mio assolo di basso. Erano più potenti di noi. Non lo dimenticheremo mai
Roger Glover

La storia si ripete all’infinito: i Deep Purple improvvisano in studio, scrivono e registrano un album e poi tornano sul palco e rifanno tutto da capo. Per questo InFinite non suona come il loro ultimo album. Ma questo ci riporta al tema della solitudine dei titani e della loro epica lotta contro il tempo. «È facile cadere nella trappola di diventare una parodia di se stessi quando hai una storia lunga come la nostra, per questo sono molto fiero di quello che stiamo facendo», dice Glover. «Qual è la differenza tra InFinite e il nostro primo album? Sono passati 50 anni, tutto qui». Ian Paice, “Paicey”, come lo chiamano gli altri, è l’unico dei membri che sono entrati e usciti dalla band (che in origine si chiamava Roundabout ed era un collettivo di musicisti che si alternavano sul palco) ad aver vissuto ogni momento.

Foto di Jim Rakete

È sempre stato lì, nella sua posizione riservata e fondamentale, dietro alla batteria (“A guardare il culo degli altri”, come dice un vecchio detto dei batteristi): «Il vero motivo per cui la mia carriera dura da così tanto tempo è che non sono ossessionato dalla musica», spiega. «Quando sono a casa non guardo neanche la batteria, e non mi esercito mai. L’unica cosa importante è rispettare il talento. La mia tecnica viene dall’aver fatto migliaia di concerti, il mio corpo e il mio cervello sanno cosa devono fare. Ma non mi permetterei mai di partire per un tour senza aver fatto pratica». E quindi come fa? «Vado a suonare con una cover band dei Deep Purple», risponde. Lo ha fatto anche recentemente nel febbraio 2017: tre date al Teatro Astra di San Giovanni Lupatoto, in provincia di Verona con gli italiani Forever Deep. «Le cover band sono perfette: sono bravissimi e conoscono tutti i dischi dei Deep Purple alla perfezione, meglio di me. Per loro quelle canzoni sono scolpite nella roccia, io magari non le suono da anni», racconta. «Per questo, all’inizio dei concerti, dico sempre al pubblico: se sentite un errore non vi preoccupate, sono sicuramente io».

C’è una storia da portare avanti, anche perché oggi la musica rock è tornata a vivere soprattutto sul palco. Anche per questo l’infinito ritorno dei Deep Purple è importante: «Vogliamo far vedere a una nuova generazione di musicisti rock che, se riescono a immaginare qualcosa di unico, possono anche realizzarlo. Se esiste un’eredità dei Deep Purple è questa: siate anticonformisti e seguite la vostra strada. Se è la cosa giusta, qualcuno se ne accorgerà. A volte suoni molto bene, a volte meno, ma è così che deve essere. Non è scienza, è musica, è una forma d’arte».
Perché in fondo, come dice Ian Paice con un sorriso: «Suonare non è diverso dalle altre cose della vita. Più a lungo le fai, più migliori».