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I Röyksopp e i misteri della vita: è una clementina o un mandarino?

Dopo otto anni il duo norvegese torna con un nuovo (triplo) album, 'Profound Mysteries', un'indagine sonora che si interroga sugli enigmi dell'universo. La nostra conversazione però comincia altrove: dagli agrumi e da Kierkegaard

Foto: Angelina Bergenwall

Quando la videochiamata decide finalmente di attivare l’audio, Svein e Torbjørn, i due produttori dietro al progetto Röyksopp, band fondamentale dell’elettronica degli anni zero, sono impegnati in un’animata conversazione in norvegese. Il grande mistero che li attanaglia quest’oggi non riguarda le irrisolte domande sulla vita – a cui hanno appena dedicato un triplo album – ma qualcosa di più imminente. Svein ha in mano un agrume, ma di che tipo di agrume stiamo parlando: è una clementina o un mandarino?

Non trovando una risposta certa, a Svein non resta che sbucciare l’agrume e mangiarselo. «La vita non è un quesito da risolvere. È un mistero da vivere», sogghigna Torbjørn nella sua citazione preferita di Kierkegaard. È questa la filosofia dietro Profound Mysteries, il triplice concept album dei Röyksopp che arriva a otto anni di distanza da The Inevitable End, il disco con il quale i due avevano definitivamente salutato il formato-album tradizionale. Profound Mysteries I, II e III sono una serie di quesiti irrisolvibili attorno ai quali i Röyksopp hanno fatto edificare un imponente apparato visuale messo in scena in 30 cortometraggi di 30 registi differenti.

Abbiamo raggiunto i due sull’asse Milano – Bergen, per farci spiegare meglio questa imponente mole di lavoro. Per dovere di cronaca, Svein si sta chiaramente mangiando un mandarino.

In passato avete dichiarato l’intenzione di smettere di pubblicare album in modo tradizionale. Cosa non vi convinceva (e convince) più di quel formato?
Torbjørn: Non abbiamo nulla contro gli album tradizionali, li amiamo per la loro capacità di raccontare storie. A noi però piace a metterci alla prova, questo è il modo per continuare a far scorrere la creatività. Non ripetersi e non stare in un luogo troppo sicuro rende le cose più interessanti.

The Inevitable End, il vostro ultimo album precedente, è del 2014. In questi anni però non siete stati fermi e avete inaugurato i Lost Tapes, una formula con la quale avete provato un nuovo metodo di pubblicando: musica inedita (soprattutto materiale d’archivio) gratuita a cadenza mensile. Come è stata quell’esperienza per voi?
Svein: I Lost Tapes ora sono in pausa, ma ripartiranno. Nascono come un’idea specifica per i fan, per dare materiale inedito e accontentare coloro che dopo i concerti ci chiedevano dei brani che magari suonavamo live ma che non avevamo poi mai pubblicato. È un’opportunità di interazione coi fan.
Torbjørn: I Lost Tapes hanno comunque trovato un formato fisico tradizionale (vinile e casetta). Ma sono un modo per entrare più a fondo nel nostro universo.
Svein: Quella che abbiamo stampato è una compilation di tracce scollegate tra loro che arrivano da periodi e momenti differenti: tutto molto diverso da Profound Mysteries che è un concept album triplo.

L’output di Profound MysteriesJonathan Zawadam dall’altra la collaborazione con la Bacon Production, dalla quale sono nati i 30 cortometraggi che accompagnano ogni singola traccia pubblicata. Ci raccontate come è nata quest’idea?
Torbjørn: Parliamo di tre album da dieci brani, un progetto molto vasto. Il nostro obiettivo era quello di non dare un’importanza a qualche traccia specifica, dichiamo a quelle che comunamente vengono chiamate singoli, ma cercare di portare tutte le tracce sullo stesso piano. Per gli artwork abbiamo lavorato con Jonathan Zawada che ha la capacità di realizzare opere che non hanno un soggetto chiaro e questo funzionava perfettamente con l’idea di mistero. In contempo abbiamo lavorato con una casa di produzione, la Bacon Production, e i loro registi. Con alcuni avevamo già collaborato, con altri invece era la prima volta; gli abbiamo chiesto di reinterpretare i singoli brani dei tre dischi. Noi crediamo nella soggettività e nell’interpretazione personale per quanto riguarda la musica, ci piace lasciare molto spazio agli altri, all’ascoltatore. Ne sono uscite 30 interpretazioni umane che parlano di umanità.

Avete dato delle linee guida ai registi coinvolti?
Svein: Abbiamo cercato di non dire molto, limitandoci a dare solo alcune piccole regole: usare almeno un frammento della canzone assegnata, creare un video di minimo 20 secondi, stare in un certo budget. Su forma e contenuto c’era invece totale libertà.

Tornando invece agli artwork di Zawada? Sono davvero molto soggettivi nell’interpretazione: voi cosa ci vedete?
Svein: Quando li osservo quello che mi succede, se ci penso, è al contempo strano e divertente, in modo interessante. Il cervello cerca sempre di riconoscere dei pattern, vede qualcosa e capisce cos’è in base alle sue esperienze passate. Zawada invece inventa cose che in natura non esistono e questo inganna il nostro cervello. Personalmente a volte ci vedo cose anatomiche, in altre oggetti intangibili o forme geometriche. A volte avverto delle sensazioni sinistre, che non so spiegare perché alla fine sono immagini generate da un’intelligenza artificiale; non ho i mezzi per spiegare cosa mi crea quel senso di disagio: ma apprezzo l’esperienza.

C’è qualche esempio di pubblicazione di album non-tradizionali che vi ha colpito in questo periodo?
Torbjørn: C’è questa installazione che va avanti da milione di anni e a cui abbiamo dedicato questo triplo album: la vita. (Ride) Sul lato artistico siamo sempre ispirati da ciò che succede, da chi pensa fuori dagli schemi, da chi ha idee fuori dall’ordinario.

In un periodo storico in cui i singoli brani tendono ad accorciarsi sempre più per andare incontro alle politiche dei distributori digitali, voi vi presentate con un triplo album con alcuni brani di lunghissima durata.
Torbjørn: Non abbiamo fatto questionari su come le persone ascoltano la musica, cosa di certo già fatta dai distributori digitali. Per noi artisti, e per chi fa arte, non dovrebbe essere un obbligo seguire certi calcoli. Da artista non ho alcun interesse a creare musica che rientri perfettamente nelle richieste del pubblico.
Svein: Noi vogliamo fare la musica che vogliamo. Non sarà mai musica per un consumo di massa, lo sappiamo: se avessimo voluto conquistare il mondo non avremmo pubblicato un triplo disco. Ma c’è qualcuno che la pensa come noi; noi facciamo musica per quel tipo di persone.

Come avete lavorato alla scrittura di questi tre dischi? Li avete composti assieme, in momenti differenti, o avete recuperato qualcosa dal passato come per i Lost Tapes?
Torbjørn: Dal passato non c’è molto se non Unit, un brano che in effetti utilizza dei midi del ’92. Per il resto abbiamo fatto musica senza pensare ad un ordine o ad un album specifico. Solo dopo abbiamo costruito una narrativa con quello che avevamo. Il primo disco parte piano, un lento fade in. È un ritorno alla coscienza, è un lavoro molto personale, direi da ascoltare in cuffia. Quando si arriva alla parte due, invece, la musica si apre e diventa più eclettica, più sociale. Ci si toglie le cuffie e si partecipa alla socialità della stanza con le altre persone. Mentre la parte tre è un mix di queste due esperienze sonore, a cui si aggiunge qualcosa di nuovo.
Svein: Per usare uno degli esempi più celebri della storia possiamo tirare in ballo, senza fare paragoni naturalmente, Sgt. Pepper’s dei Beatles, un disco fatto di esperienze sonore molto differenti tra brano a brano che però, nel complesso, hanno una coerenza, funzionano all’interno dell’universo pensato dalla band. La nostra idea era proprio questa: un disco eclettico, ma coeso, in cui non ci fossero brani che andassero persi nel background.

Una delle cose più difficili nella musica elettronica è trovare un suono capace di rimanere attuale oltre le tendenze e gli sviluppi tecnologici. Voi in questi trent’anni avete solidificato un sound evergreen che mischia passato, presente e futuro, molto difficile da incasellare in certe categorie di genere.
Svein: Penso che la parola giusta sia longevità. È qualcosa che abbiamo sempre cercato di tenere d’occhio. Quando cerchi di seguire un genere che sta andando in un determinato momento, suonerà subito come datato. In questo periodo storico questo accade ancora più velocemente. Si nota soprattutto nel pop dove è molto facile capire un periodo storico guardando anche solo all’uso di una singola tecnica, il side-chain. Rende subito chiaro se è un brano pop è del 2010 o 2020. Quando utilizzi con eccessiva foga anche solo una tecnica del momento, invecchi. Per noi è sempre stato importante recuperare pezzettini di suoni da generi e momenti distanti tra loro, facendoli rapportare tra loro in modo organico e naturale.
Torbjørn: Crearsi i propri suoni da zero, come facciamo noi, soprattutto nelle batterie, aiuta ad uscire da questa corsa sul tempo, sfuggendo a mode e wave. Nel tempo ci siamo creati una sorta di palette di suoni a cui possiamo fare riferimento per posizionarsi fuori dal tempo.
Svein: È una questione importante per noi che crediamo che la longevità sia definita dall’originalità. Ora i producer utilizzano gli stessi pack, le stesse library e certe cose suonano davvero sempre uguali: questo lo trovo noioso.

Come è cambiato il vostro approccio in studio dagli esordi a oggi?
Torbjørn: I software sono migliorati così tanto che è veramente facile lavorarci ora. Noi comunque usiamo ancora un approccio misto tra software e hardware che abbiamo collezionato durante la nostra carriera. Usiamo il meglio dei due mondi, è un modo sano di lavorare.
Svein: L’analogico ha una dose di errore che il digitale non permette, quasi impercettibile, che dà un guizzo in più su alcuni livelli. Quando vuoi la precisione, scegli il digitale, quando preferisci dare un colore è tempo di analogico.

Lasciamoci con un’ultima domanda impossibile: la musica può svelare i profondi misteri della vita?
Torbjørn: C’è una cosa che ho già detto ma che mi piace ripetere: «La vita non è un quesito da risolvere. È un mistero da vivere»

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