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«I Rolling Stones hanno preso un matto e gli hanno permesso di produrre il loro album»

Andrew Watt racconta le session di ‘Hackney Diamonds’. «Paul McCartney era lì, Mick ha trascinato il microfono fino al centro della stanza e, giuro su Dio, è venuto giù tutto»

Foto: Jeff Kravitz/FilmMagic

Che cosa succede quando ti fai produrre da un tuo superfan? Può venir fuori una cosa come Hackney Diamonds. Andrew Watt, che ha lavorato al primo disco di inediti dei Rolling Stones da 18 anni a questa parte, tiene anzitutto a far sapere che è un fan della band a livelli che rasentano il patologico. Ok, ha vinto un Grammy come produttore dell’anno e altri premi per gli album che ha prodotto o co-prodotto per Ozzy Osbourne e Dua Lipa. E sì, il suo nome è associato a parecchi artisti rock, hip hop e pop come Eddie Vedder, Iggy Pop, Elton John, Justin Bieber, Miley Cyrus, Post Malone, Future. Ma i suoi eroi sono da sempre Mick Jagger e Keith Richards.

«Non credo che mi rivolgerebbero più la parola se sapessero a quanti concerti dei Rolling Stones sono stato», dice Watt, 32 anni ed energia da vendere. «Li ho visti dalle gradinate. Li ho visti da vicino. Li ho vissuti da fan. In studio con loro, indossavo ogni giorno una loro maglietta diversa. La mia collezione di t-shirt degli Stones è sterminata, ne ho di vintage e di ogni tipo. Dovevano cacciarmi dalla sala di regia. Una volta in studio, la prima cosa che ho detto loro è stata: avete liberato un matto dalla gabbia e gli avete permesso di produrre il vostro album».

E però Hackney Diamonds non è roba da circo. È il disco della band che è stato accolto meglio degli ultimi 40 anni. «Fotografa gli Stones di quest’anno», ci ha detto Jagger il mese scorso. «Volevo che fosse un gran disco, non volevo che fosse semplicemente ok. E credo che sia andata come desideravo».

Dice Watt che Jagger gli ha parlato per la prima volta della produzione davanti a una tazza di tè nel giugno 2022, più o meno quando gli Stones si sono esibiti a Hyde Park. I due si erano conosciuti tramite il produttore Don Was, che aveva lavorato a tutti i dischi degli Stones a partire da Voodoo Lounge del 1994. Watt aveva realizzato solo alcuni remix per gli Stones ed è stato quindi colto di sorpresa quando Jagger gli prospettato l’idea di registrare nuova musica quell’estate. «Quando me l’ha chiesto, gli ho risposto così: “Un orso caga nel bosco?”».

I mesi successivi sono stati per lui surreali. «La cosa bella è che ho fatto amicizia con i miei eroi. E con Keith ho avuto grandi conversazioni. Mi ha insegnato a suonare con l’accordatura aperta in Sol, con cinque corde, è fighissimo. Osservare i tuoi maestri è come tornare al college».

Nel corso di due ore e mezza di intervista Watt ha offerto, con un entusiasmo palpabile, una testimonianza dettagliata di com’è nato Hackney Diamonds. «Va da sé che è stato l’onore più grande della mia vita».

Quando ha cominciato a sembrarti una possibilità concreta l’idea di produrre un album degli Stones?
Mick m’ha chiamato alla fine di luglio [2022]: «Ho appena sentito al telefono Ronnie, ha cenato con Paul McCartney e sua moglie e Paul gli ha raccomandato di lavorare con un ragazzo giovane e brillante che si chiama Andrew Watt». Sono rimasto a bocca aperta, non mi pareva vero. E ancora: «Ho detto a Ronnie che quello era proprio il produttore che pensavo di proporgli». Ma quanto cazzo è figa questa cosa?

Mick mi ha detto che avrebbero registrato verso la fine di settembre all’Electric Lady e che stavano andando a New York per iniziare la pre-produzione. «Penso che dovresti venire subito a conoscere i ragazzi». Ero all’Ohana Festival per suonare con Eddie Vedder: subito dopo il concerto ho preso un aereo per andare a New York ed essere in studio. Non ho dormito quella notte.

Come è stata la prima session della band a cui hai assistito?
Li ho osservati mentre lavoravano ai pezzi, li miglioravano, li rendevano solidi… anche se fossi rimasto lì solo per un paio d’ore e basta sarebbe stata comunque l’esperienza più bella della mia vita.

Su cosa stavano lavorando?
Una delle prime cose che ho sentito è stata Angry. Non era ancora definita musicalmente e la linea vocale non era del tutto sviluppata. Hanno fatto anche una canzone di Keith intitolata Tell Me Straight ed è stata un’esperienza completamente diversa. Poi sono andato a cena con Ron e Mick. A un certo punto sono andato in bagno e, quando sono tornato, Ronnie fa: «Diglielo, Mick». E Mick: «Sei il produttore dei Rolling Stones» (ride). Ero esaltato. Da quel momento ho sentito Mick ogni giorno.

Una volta ingaggiato ufficialmente, cos’è successo?
A metà ottobre sono andato a Parigi per incontrare Mick. Abbiamo ascoltato tutto quello che avevano registrato all’Electric Lady e quello che avevano inciso in Giamaica [all’inizio del 2022]. Abbiamo passato in rassegna il materiale più vecchio che avevano registrato con Don e i demo. Avremmo sentito più di 100 canzoni. Poi abbiamo iniziato a scegliere le cose che ci piacevano e a parlare di quelle che si potevano cambiare. A New York ho fatto la stessa cosa con Keith. Era importante passare del tempo da solo con lui e guadagnarmi il suo rispetto, prima di iniziare. L’idea era che se se fossimo riusciti a tirar fuori il meglio di Keith e a intrecciare le chitarre di Ronnie e Keith, per poi aggiungerci la voce di Mick, allora il disco avrebbe suonato davvero come gli Stones. A Los Angeles ho ascoltato di nuovo tutto con Ron. Abbiamo parlato di ciò che era importante per lui e di come fare in modo che ci fossero dei grandi momenti per i solisti.

Foto: Kevin Mazur/Getty Images for RS

Quando avete iniziato a parlare di ospiti?
A Parigi c’era una batteria: la suonavo io, stavo jammando con Mick e credo che gli sia tornato in mente che, quando ha scritto Miss You, Billy Preston era alla batteria e lui alla chitarra. Mi ha raccontato quant’è stato bello, per gli Stones, avere Preston in studio e che quando c’era un ospite tutti si comportavano bene. Così ho pensato: «Chi potrebbe essere il Billy Preston degli Stones, nel 2023?».
Lui mi ha fatto ascoltare una prima versione di Sweet Sounds of Heaven suonandomela al pianoforte. La cosa sorprendente è che si tratta di una canzone molto semplice dal punto di vista degli accordi. È un classico gospel degli Stones, come You Can’t Always Get What You Want o Shine a Light. Io ho dei tatuaggi sulle dita e uno ritrae Stevie Wonder. Mentre parlavamo di Sweet Sounds of Heaven, pensavo: «Sembra il pezzo giusto per un ospite». Ho guardato il dito e mi sono detto: «Stevie Wonder! Quanto sarebbe bello che Stevie Wonder suonasse in una canzone dei Rolling Stones e non si limitasse a cantare?». Ho chiesto a Mick che ne pensasse e ha capito subito. Così abbiamo chiesto a Stevie se voleva suonare e lui ha risposto: «Certo».

Quando sono iniziate le session principali?
Mick mi ha detto che sarebbe stato a Los Angeles, a novembre, ma ero già impegnato con Paul McCartney in quel periodo. Gli Stones volevano registrare per un mese di fila, dai primi di novembre ai primi di dicembre. Ma non credo di dovere spiegare perché non si può assolutamente disdire un impegno con Paul McCartney. Così ho chiamato Mick e gli ho detto: «Senti, posso lavorare, ma ho questi quattro o cinque giorni già prenotati con Paul, proprio nel mezzo delle vostre session». E lui ha risposto: «Oh, sì, capisco». Ho riattaccato e mi sono detto: «Adesso gli sparerò la domanda più stupida che si possa fare». Così ho richiamato Mick: «Che ne dici se chiedo a Paul se gli va di suonare il basso in un pezzo?». E Mick: «Mi sembra perfetto». Allora ho telefonato a Paul e lui mi ha detto che gli sarebbe piaciuto farlo.

Come si sono svolte le session?
Avevamo 28, 29 canzoni. Di solito i produttori si sistemano nella sala di controllo, ma io ho deciso di sedermi nella sala di ripresa con la band. In questo modo potevo aiutare con gli arrangiamenti, man mano che procedevamo. È un disco basato sulla performance, è un disco live. È per questo che accelera e rallenta, spinge e tira: proprio come ci si aspetta dagli Stones. Stare nella sala di ripresa mi ha aiutato a osservare le performance e a comunicare con ogni musicista faccia a faccia. Potevo andare da Keith o da Mick e discutere delle cose che stavamo facendo.

Con quale canzone avete iniziato?
Non ti prendo in giro: la prima canzone che abbiamo registrato, il primo giorno a Los Angeles, è stata Angry. Sull’album c’è la seconda take. I ragazzi sono stati rapidissimi a entrare nello spirito. Volevo tenere un buon passo: se facevamo 10 o 12 take di una canzone, le facevamo rapidamente, in modo da non perdere la concentrazione. Non volevo lasciare spazio alle discussioni. Quando incidi una band dal vivo è fantastico quando le parti di tutti sono perfette, come in Dreamy Skies. Keith ha suonato il basso e ha sovrainciso la chitarra elettrica, ma a parte questo è stato fatto tutto live. Dopo aver fissato le tracce di base, abbiamo lavorato sulle parti di Keith. Ascoltando il disco mi pare si riescano a distinguere Keith Richards e Ron Wood in qualsiasi momento. La “trama” è lì visibile, in bella mostra: senza questa roba, non sono gli Stones.

Foto: Kevin Mazur/Getty Images for RS

Com’è stato lavorare con Ronnie?
La cosa più bella, quando guardi Ronnie alla chitarra, è che suona ritmiche e assolo allo stesso tempo. Suona gli accordi e poi (imita l’assolo, nda), quindi torna agli accordi. Suona così perché viene dai Faces, che avevano un solo chitarrista. Quando faceva un assolo di chitarra nei Faces, c’erano solo basso e batteria, quindi doveva fare anche gli accordi e questo è diventato il suo stile. Gli assolo sono bellissimi in questo disco. Sono ora esplosivi e ora minimali, in base a quel che serve. E lui suona anche il dobro in Dreamy Skies. L’unica persona in grado di farlo è Ronnie Wood.

Hai detto che Keith ha suonato il basso. Chi altro l’ha fatto?
Darryl [Jones] era in tour, quindi tutti si sono alternati al basso, pure io in un paio di canzoni ed è stato l’onore più pazzesco della mia vita. Keith ha suonato il basso. Ronnie ha suonato il basso. Paul ha suonato il basso. Ci sono tanti bassisti diversi in questo disco, uno è Stevie Wonder, al basso synth Moog.

Stavano ancora scrivendo in studio?
Ci sono stati tanti momenti magici, come quando Keith ha inventato il riff di Whole Wide World. Il demo di Mick era completamente diverso, poi Keith ha iniziato a suonare questo riff e Steve l’ha seguito: si percepiva un’energia fortissima. Io ho detto: «Mick, inizia a cantare la tua strofa», e lui ha risposto: «Ma dov’è la strofa?». Non aveva senso per lui. Allora gli ho detto: «Canta la strofa qui sopra». Lui ha iniziato a cantare, e boom, è arrivato al ritornello: è stato bellissimo. Si stavano divertendo un mondo.

Hai lavorato con Mick sui testi?
Keith ha scritto i testi, Mick ha scritto i testi, alcuni li hanno scritti assieme. Per certe canzoni ci mettevamo lì e trovavamo qualcosa, oppure lui andava via e se ne usciva con qualcosa. In Whole Wide World sentivo che la storia poteva essere più personale. Quasi tutti avrebbero replicato: «Ma vaffanculo, questa è la mia storia». Lui invece m’ha detto: «D’accodo, lasciami la notte, torno domani». E ora è uno dei miei testi preferiti dell’album. Ha scritto questa storia sulla sua gioventù a Londra, su com’è essere arrestato ed essere un ragazzo di strada. Fighissimo.

Quali altre canzoni sono nate nel corso delle session?
L’ultimo pezzo scritto e completato per il disco è stato Driving Me Too Hard. Il testo non era finito e Keith mi ha detto: «Torno a casa e lo faccio». Allora l’ho sparata: «Siete entrambi qui. Perché non vi prendete un paio d’ore e lo scrivete insieme? Sapete come funziona, no, Jagger-Richards». Così mi sono seduto insieme a loro, a fare da cuscinetto, suonando la chitarra: i due ragazzi hanno iniziato a scambiarsi battute facendosi ridere a vicenda e hanno scritto il testo l’uno accanto all’altro, veramente insieme. Mick ha cantato mezz’ora dopo e Keith ha fatto i cori. È stato speciale esserci.

Foto: Kevin Mazur/Getty Images for RS

Alcune di queste canzoni sono accreditate a Jagger-Richards-Watt: come è successo?
È l’onore più grande della mia vita. È successo in modo naturale: quei ragazzi sono super generosi e abbiamo scritto insieme. C’è stato un giorno in cui Mick e Keith sono venuti in studio e tutti abbiamo iniziato a suonare un riff; Keith poi ha inserito dei cambi ed è così che è nata Depending on You. È stata una cosa naturale. Ecco perché in alcune canzoni ho i crediti.

Come siete arrivati alla session con Stevie Wonder e Lady Gaga?
Stevie era in ritardo e sono andato a telefonare alla sua assistente: «Stevie sta arrivando. Si è appena fermato a votare. È una cosa molto importante». Quando sono tornato e l’ho detto ai ragazzi, loro ridevano tutti. È stato un ottimo modo per rompere il ghiaccio. Poi è arrivato Stevie e ci siamo messi a suonare. Io gli dicevo gli accordi e gli mostravo le parti. All’improvviso mi ha chiesto: «Andrew, hai un basso?». Ho preso il basso e lui ha detto: «Questa è la linea di basso». E ha iniziato a cantarla. L’ho tirata giù ed è diventata una linea che poi hanno suonato le chitarre e lui ha suonato sul Moog. È stato un grandissimo momento. Fare una canzone gospel rock con il basso synth Moog è difficile.

Poi, mentre stavamo incidendo con Stevie, qualcuno ha bussato alla porta. È entrato un assistente e ha detto: «C’è Lady Gaga che vorrebbe salutare Mick». Tutti erano felici di vederla, lei conosce bene tutti gli Stones. Le ho presentato Stevie e Mick le ha detto: «Vieni in sala ripresa». Si è seduta sul pavimento e le abbiamo dato delle cuffie. C’era un microfono e senza nemmeno prendere accordi si è semplicemente unita alla jam. È stata una cosa naturale. Aveva sentito la canzone solo una volta ed era pronta a partecipare. Ecco quanto è tosta.

Foto: Kevin Mazur/Getty Images for RS

Vi siete presi una pausa per la tua session con Paul McCartney, prima che lui registrasse con la band. Come hanno scelto Bite My Head Off per lui?
Tutti si aspettavano che suonasse in una grande ballad come Depending on You o in uno dei brani più soft per ottenere un effetto alla Paul McCartney melodico. Ma a Paul piace il rock, così ho pensato: perché non scegliere la canzone più punk-rock e cazzuta, quella in cui tutti sono a tavoletta per tutto il tempo, e lasciare che questi ragazzi si divertano come matti a fare casino insieme?

Paul ci dà dentro anche con l’assolo. Come ha ottenuto quel suono?
Avevo appena regalato a Paul un Höfner mancino del ’64. Mi ha chiesto: «Perché mi stai regalando questo basso? Ho già il mio famoso basso dei Beatles. Non me ne serve un altro». Gli ho risposto: «Tocca quello switch che vedi lì». Il mio tecnico della chitarra, Mark, ha inserito un circuito Univox Super Fuzz nel basso, così premendo uno switch si ottiene il suono di basso fuzz più forte e cattivo che abbiate mai sentito in vita vostra. Lui piangeva dalle risate: era la sua arma segreta.

Così Paul è arrivato e ha imparato la canzone. Hanno suonato un po’ tutti assieme e abbiamo iniziato a incidere. Paul era in piedi. All’improvviso, Ron e Keith si sono alzati, Mick ha trascinato un microfono fino al cazzo di centro della stanza e, giuro su Dio, è venuto giù tutto. Non so spiegare cosa ho provato: erano gli Stones e i Beatles. Era una cazzo di esplosione. E il sorriso sul volto di Paul diventava sempre più grande. Abbiamo fatto tre o quattro take e Paul ha premuto l’interruttore durante il suo assolo di basso. Erano tutti on fire. Abbiamo fatto anche un altro pezzo perché ci stavamo divertendo un mondo.

Quanto si è divertito Paul?
Mentre lo accompagnavo all’uscita, m’ha detto: «Ho appena suonato il cazzo di basso con gli Stones. E io sono un cazzo di Beatle». Ha detto queste parole, letteralmente. Era come se quei ragazzi avessero di nuovo 18 anni e lo si può sentire nella registrazione. È cattivissima.

A proposito di gente che gli Stones conoscono fin dagli anni ’60, quando Bill Wyman ha suonato in Live by the Sword?
Per il periodo natalizio ci siamo trasferiti a Londra. È stato allora che Bill Wyman è venuto a suonare il basso. L’ho proposto io e Mick ha risposto: «Vediamo che ne pensa Keith, capiamo se è una buona idea». Keith ha pensato che lo fosse, così Mick ha mandato una e-mail a Bill e lui ha detto che gli sarebbe piaciuto. Gli abbiamo fatto suonare il basso in una delle canzoni con Charlie (che la band ha registrato attorno al 2019, nda), è stato favoloso.

Cos’ha detto Bill a proposito della session?
Ha 87 anni e voleva essere sicuro di fare le cose per bene. Gli avevo mandato la canzone in anteprima, in modo che potesse familiarizzare col pezzo. Abbiamo messo la base di Charlie e lui ha preso a suonarci sopra: mentre lo faceva ha iniziato a divertirsi tantissimo. Sorrideva e rideva, gli tornavano in mente le storie di Charlie. Diceva: «Adesso viaggia, viaggia!». Immagino fosse qualcosa che si diceva con Charlie, in passato. È una cosa da sezione ritmica.

In Live by the Sword c’è anche Elton John al piano. Mick mi ha detto che pensava che Elton non avrebbe voluto farlo, perché non era previsto che cantasse.
Quando stavamo lavorando a Live by the Sword, si parlava di inserire una parte di piano honky-tonk, alla Jerry Lee Lewis/Nicky Hopkins. Ho pensato: perché non chiederlo a Elton? Primo, lui è Elton John, cazzo. Secondo, nessuno al mondo suona quello stile meglio di lui. Jerry Lee Lewis e Little Richard sono le sue divinità, è il loro allievo in un certo senso. È stato fantastico vedere Mick che gli chiamava le parti e Elton fare il turnista. Ha usato un pianoforte verticale, non a coda, e ha semplicemente spaccato. Forte sentirlo dire: «Mick, cosa ne pensi?». E Mick: «Potresti suonare un po’ più melodico nel bridge? Che ne dici di mettere qualcosa qui?». Bello vedere quei ragazzi collaborare.

Quindi Mick si sbagliava: per Elton è stato speciale.
Elton ama suonare e ha iniziato come session man. Proprio come Paul, era elettrizzato e diceva: «Ho appena suonato con i Rolling Stones, cazzo». Tutti avevano il sorriso sulle labbra.

Com’è stato lavorare alle voci con Mick?
Abbiamo registrato molte parti vocali a Londra e poi siamo andati alle Bahamas, dove abbiamo finito l’album. Non ho mai visto nessuno spingersi al livello di quel ragazzo, in studio. Non ha mai lasciato una session di voce senza avere sudato copiosamente, dando ogni volta tutto quello che aveva. È in quel momento che le canzoni prendono vita: quando riesci a ottenere la voce giusta.

Foto: Kevin Mazur/Getty Images for RS

C’è una sensazione di abbandono nel modo in cui canta, come se si stesse perdendo in quel che fa.
È così. E la cosa più bella è che a volte faceva una take e diceva: «Sto cantando troppo bene. Devo rifarla e buttarla via di più». Cioè? «Più spontanea, con più feeling». E poi senza il minimo sforzo la rifaceva ed era decisamente migliore e più orecchiabile.

Mick mi ha detto che ha elaborato alcune parti di voce con Steve Jordan, solo loro due, voce e batteria.
Mick è molto attento al tempo. Gli piace che le cose siano veloci e con un ritmo sostenuto, ma non troppo, altrimenti non riesce a far uscire la voce. Ricordo che hanno lavorato su Get Close: Steve suonava il ritmo della batteria e Mick provava la voce per assicurarsi di avere lo spazio per cantare correttamente. A proposito, la senti la batteria in questo cazzo di album?

Sì, Steve Jordan è fantastico.
Non ha mai suonato il charleston e il rullante insieme. Ha onorato Charlie in modo incredibile e ci ha messo del suo in un modo che solo lui poteva fare. Steve picchia duro e le chitarre dovevano essere più forti: la band suona forte perché deve stare al passo con Steve. Ha posizionato i piatti sulla destra, dietro di lui, perché Charlie si sistemava così per togliere i piatti di mezzo e poter vedere Keith. È un modo difficile di suonare e Steve si è messo in quel pasticcio da solo. Ma non gli importava, perché voleva onorare Charlie e vedere Keith.

In uno dei momenti più belli dell’album, Rolling Stone Blues, ci sono solo Mick e Keith. Di chi è stata l’idea?
Ero seduto con Keith, facevamo delle sovraincisioni e lui strimpellava la sua acustica mentre mi parlava. Così gli ho chiesto: «Come vi siete conosciuti tu e Mick?». Mi ha raccontato la storia. Quando hanno avuto il loro primo ingaggio, Keith era al telefono e il promoter gli ha chiesto: «Come vi chiamate?». Lui aveva sotto mano la copertina di The Best of Muddy Waters e la traccia numero cinque è Rollin’ Stone. Così ha risposto: «The Rollin’ Stones». Gli ho chiesto se avevano mai suonato quel pezzo, per poi pensare: oh merda, ho fatto la domanda più stupida del mondo, mi risponderà che ovviamente l’hanno fatto. E invece: «In realtà, no, mai». Ho sentito un tuffo al cuore e gli ho detto: «La suonereste? Avete preso il nome della band da quel pezzo». Keith ha detto: «Mi piacerebbe molto. La conosco a menadito. Credi che Mick lo farebbe?». E io: «Lascia che lo chiami».

E com’è andata la session?
Abbiamo piazzato un microfono in mezzo. A ogni take si affiatavano sempre di più. Credo che quella che sentite nel disco sia la quarta. All’inizio il tempo è incerto e un po’ freddo: sono due persone che suonano l’una contro l’altra. Ma alla fine della canzone suonano gli stessi lick, con lo stesso tempo, all’armonica e alla chitarra. Le stesse inversioni, le stesse note, gli stessi ritmi. Si fondono l’uno nell’altro. Per me è la dimostrazione che questi due ragazzi hanno bisogno l’uno dell’altro. È il loro rapporto d’amore, in tutte le sue sfaccettature: è questo che si sente nella quarta take.

Hai detto che dalle session sono uscite 28 o 29 canzoni, significa che c’è un altro album in programma?
C’è molto materiale. Ci hanno messo 18 anni per fare un disco, quindi avranno 98 anni quando finiranno il prossimo (ride). Vedi, per me è come essere Batman. Se proietteranno la lingua in cielo, so dove presentarmi e ci sarò. Io, da fan, vorrei che accadesse. Ma non è facile mettere d’accordo tutti, speriamo succeda. Se così non fosse, sono orgogliosissimo di quel che abbiamo fatto.

Da Rolling Stone US.

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