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I Prodigy sono turisti, ma senza una meta

Una birra londinese con i Prodigy, che sono tornati con "No Tourists": un disco senza nostalgia, ma con un po’ di insofferenza per la piega che hanno preso le cose
Foto di Andy Cotterill

Foto di Andy Cotterill

«Qui intorno è cambiato un po’ tutto», racconta Maxim, seduto in un pub in zona King’s Cross. «Veniamo spesso qui, perché il nostro studio è dietro l’angolo». Qualche volta i Prodigy ci hanno pure suonato, per la sorpresa dei clienti del pub. Uno va a bersi la classica birra dopo il lavoro, stravolto dai ritmi disumani della nazione che, tra tante cose belle, ci ha dato il capitalismo. Ma al posto della solita partita di Premier League, ci trova un live segreto. Dei Prodigy.

In questo senso, se c’è una cosa che nessuno può dire è che Liam, Maxim e Keith se la tirino per essere chi sono e per aver venduto milioni di dischi. Sulla copertina di No Tourists, il nuovo album uscito a novembre, troneggia un minaccioso bus Routemaster londinese, tutto nero e con delle lugubri tende. Si legge il numero 7 sull’insegna luminosa, sette come gli album dei Prodigy, e una scritta “The Four Aces, Dalston Lane, Hackney” che ha tutta l’aria di essere un indirizzo. «Al Four Aces Club abbiamo fatto il primo live in assoluto. Era il ’90», spiega Maxim, quello dei tre che si è conservato meglio negli anni.

Resta solo da capire come mai il bus stia tornando lì, nel passato. Una botta di nostalgia per i tempi d’oro del big beat? «Il bus sta andando lì, oppure ci è già stato», mi fa notare Keith, lo scalmanato del gruppo, allegando anche un sorrisetto diabolicamente bonario. È quello che ha fatto la fortuna dei Prodigy. Il sorrisetto demoniaco di Keith, i suoi eccessi, il suo caotico dimenarsi sul palco e il look che non è mai stato esattamente sobrio. Oggi, però, gira con una coppola in testa e si porta dietro tre diverse boccette di liquido della sigaretta elettronica, per non farsi mancare un ricco bouquet di sapori a ogni svapata. «Ricordo solo di essere rimasto folgorato quando hanno alzato le luci. Era pieno di gente», racconta Liam di quel primo live.

Nei loro discorsi non c’è nostalgia, perché è ovvio che tutti invecchiamo, e certe cose prima o poi finiscono (e i loro live rimangono imballati di gente tutt’oggi). Semmai, a infastidirli è la piega che ha preso il mondo di oggi, il presente. Per ciò che riguarda la musica: «Ha perso di rabbia, come puoi sfogare la tua frustrazione se le canzoni sembrano tutte uguali? Sembrano tutte sotto sedativi», fa notare Liam, il produttore. E anche dal punto di vista dell’indipendenza dell’individuo. Ma dietro a un titolo come No Tourists non c’è affatto un messaggio politico, riferimenti a migranti, confini, temi così. C’è una questione che ai Prodigy sta particolarmente a cuore. «Parla di uscire dalla trappola del turismo», spiega Maxim. «La gente si è dimenticata il piacere della fuga, dell’esplorazione. Questa è un esortazione a conoscere il mondo e le altre culture senza isolarsi nell’ambiente finto e protetto di un villaggio vacanze». Mettersi in gioco, magari rischiare come hanno fatto i Prodigy quella sera al Four Aces. «Siamo diventati i Prodigy perché volevamo esserlo a tutti i costi», racconta Keith, prima di mettere in campo un suo grande amore, le moto: «Noi siamo come Valentino Rossi. Ma nella musica».

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