I Post Nebbia sono gli ultimi grandi outsider della musica italiana | Rolling Stone Italia
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I Post Nebbia sono gli ultimi grandi outsider della musica italiana

Dalle sagre della zona di Padova al trip psichedelico a bassa definizione del nuovo 'Canale paesaggi', Carlo Corbellini ci racconta l'immaginario sballato e magnificamente provinciale del gruppo

I Post Nebbia sono gli ultimi grandi outsider della musica italiana

Post Nebbia

Foto press

I Post Nebbia sono una giovanissima band padovana di cui avevamo parlato nel nostro speciale Classe 2020, presentandoli come la nuova psichedelia della Gen Z. Ora che per Dischi Sotterranei/La Tempesta è uscito Canale paesaggi, il loro secondo disco che segue all’interessante esordio autoprodotto Prima stagione, possiamo dire che ci abbiamo preso in pieno.

Canale paesaggi è un trippetto a bassa definizione, come i canali regionali che mandano tutto il giorno televendite a loop, che poi sono tra le principali protagoniste di questo disco, assieme alla televisione tutta vista dal punto di vista di Carlo Corbellini, che per ovvie questioni anagrafiche (è nato nel 1999) ha formato la sua idea di televisione negli anni del tracollo più totale, tanto deprimente e assurdo quanto ricco di potenziale narrativo. Si diceva psichedelia, un termine a cui però oggi è troppo difficile dare una definizione unanime. Diciamo che i colori dei riverberi che fanno da fondamenta alle nove tracce sono freddi e acidi, il ritmo è mellifluo e avvolgente, difficile non lasciarsi abbandonare al vortice lo-fi che è già stato accostato ai Tame Impala o agli MGMT, io aggiungo pizzichi di Dope Lemon e Ariel Pink qua e là, un po’ di Insecure Man, ma senza eroina e infine un tocco veneto del corregionale Krano. Insomma, tanta bella roba.

Ne abbiamo parlato con la giovane e brillante mente dietro a tutto questo, facendoci raccontare anche le origini del progetto e qualche visione sul futuro.

Ciao Carlo, visto che è la tua prima intervista per Rolling prendiamola un po’ larga. Intanto vorrei sapere come descriveresti l’ambito in cui siete cresciuti e vi siete formati? Com’è stata per voi la Padova anni ’10?
Siamo nati in un contesto un po’ particolare, abbiamo iniziato a fare i primi passi in un contesto parrocchiale in cui facevamo le cover di Elvis Presley o degli Arctic Monkeys alle sagre di provincia, con un pubblico molto anziano, le famiglie e un tipo di desolazione tipico di questi contesti. Nel frattempo però a Padova si stava iniziando a creare una piccola scena underground messa insieme dai Sotterranei che ci ha permesso di separarci dal giro delle parrocchie nel quale, come puoi immaginare, eravamo un po’ fuori luogo.

Per quanto riguarda la tua formazione musicale, come è stata la tua adolescenza?
Ho la fortuna di avere un fratello maggiore che mi ha dato parecchio vantaggio per accedere a un certo tipo di contenuti rispetto ai miei coetanei, dalla musica ai fenomeni internettiani. Però fuori dalle mura domestiche c’era tantissimo rap tra i miei coetanei, ancora oggi ci divertiamo a fare rap volutamente brutto e ironico che però rimane tra le note vocali di WhatsApp.

Quindi non sei stato un adolescente in fissa con un genere e che si lega a doppio filo con l’immaginario a cui è collegato?
No e secondo me è una cosa che riguarda un po’ tutta la mia generazione, che non ha quella tensione identitaria dell’ascolto di un genere in contrapposizione con un altro, forse perché un tempo dovevi andare a comprare il disco, era una scelta di tipo economico che comportava una scelta più profonda al di là dell’ascolto. Oggi ascoltiamo i dischi principalmente su YouTube. Da una parte è meno romantico, ma dall’altra c’è più libertà nel lasciarsi influenzare da generi diversi.

Prima hai fatto riferimento a una scena underground veneta, quindi non ti chiedo se pensi che esista una scena veneta, ma quanto senti di farne parte e quali sono le sue caratteristiche?
Mi sento parte di un filone che ha radici a Padova e in Veneto, ma non so quanto la si possa considerare una scena, nel senso che non c’è una uniformità nei progetti, è una concezione molto più liquida, che ha a che fare soprattutto con l’attitudine che c’è da queste parti. Qui non è come stare a Milano, Bologna o Roma, non ci sono le strutture che ci sono altrove per la musica underground e quindi qualsiasi cosa te la devi guadagnare. Forse non riguarda solo il Veneto, ma in generale la provincia, però se devo trovare dei tratti in comune tra le persone che ho attorno che fanno musica, non riguardano il sound quanto la fotta che abbiamo.

Tu scrivi, componi, produci la tua musica. Hai appena calpestato un pedale per sbaglio mentre siamo al telefono ed è successo un casino. La tua musica ha una forte componente ansiogena e quindi mi sono fatto un’idea di te che non dormi e non mangi, ossessionato, 20 ore al giorno al computer di fronte a Logic o quello che è. Un po’ troppo?
Il mio approccio è più o meno quotidiano, dedico alla musica una parte piuttosto rilevante della giornata e poi faccio un lavoro di pulizia quando devo chiudere un progetto. L’immagine iper-claustrofobica che emerge dai testi forse nasce dal fatto che io lavoro molto per loop, parto sempre da un loop che mi convince e ci aggiungo il resto attorno. Da una parte è una forma di meditazione, dall’altra mi fa diventare abbastanza scemo, però no, ancora non sono a quel punto, la notte dormo.

Fino a che punto e in quali aspetti consideri Canale paesaggi un concept album?
Il disco di per sé non è una costruzione architettonica perfetta e simmetrica, lo considero un concept perché mi sono dato delle limitazioni nello scrivere, a livello di immaginario e di concetti. Tra un pezzo e l’altro ci sono queste intrusioni ambientali, per provare a costruire una specie di botta e risposta tra le canzoni e il contesto nel quale sono immerse.

Che è la televisione regionale. Però è strano che tu a vent’anni nel 2020 fai un disco che parla di televisione.
Uno dei motivi per cui la televisione mi attrae così tanto è proprio perché è un mezzo che sta morendo e si sta svuotando sempre di più di una carica polemica o politica, che sta lasciando spazio a una narrazione che mi affascina. Poi nei testi ci sta un po’ di vena polemica o orwelliana, ma questo perché quello che rimane è talmente distante dalla realtà che sembra una distopia allucinogena.

In effetti ormai l’itpop e la trap non voglio dire che sono roba vecchia, ma hanno comunque già qualche anno sulle spalle e potenzialmente tu con i Post Nebbia potresti tranquillamente dire siamo già dopo questa roba. Ecco, quanto ti senti parte di una generazione che rappresenterà le nuove tendenze della giovane musica italiana nei prossimi anni?
Io mi sento un po’ un outsider, ma non voglio dirlo in maniera spocchiosa. Non ascolto molta musica italiana e quindi non ho mai pensato di calare la musica dei Post Nebbia in una dimensione del genere. Penso che la nuova musica italiana oggi sia una cosa talmente tanto caotica che non so dirti se ne faccio parte. Sicuramente l’intenzione è quella di andare oltre la trap o l’itpop.

Ma ti sei fatto un’idea su quello che sta succedendo negli ultimi anni?
Mah, io penso che la transizione che c’è stata qualche anno fa, ovvero che a un certo punto nella top 10 non c’erano più persone con i capelli bianchi, è stata anche interessante, così come l’ondata che è arrivata diciamo nel 2015. Solo che poi un po’ tutti sono voluti andare sul sicuro e quindi lo sviluppo naturale che poteva avere quella wave è stato un po’ soffocato o sfruttato male, secondo me.

Di questo disco mi è piaciuto il fatto che pretende almeno un po’ di più della soglia minima dell’attenzione. Ho provato ad ascoltarlo mentre facevo altro e non ci sono riuscito, in qualche modo mi distraeva e richiedeva la mia presenza. Non voglio dire che sia un disco disturbante, ma sicuramente ha delle spigolosità interessanti, che sono molto più disturbanti di altri generi che hanno la pretesa di esserlo, ma che invece poi spariscono peggio dei suoni di sottofondo naturalistici per meditare in ufficio.
Ovviamente il successo sarebbe riuscire a fare qualcosa che come dici tu sia disturbante – o che comunque si porti dietro con sé un certo grado di complessità – ma che al tempo stesso sia anche accessibile. Oggigiorno se ci fai caso la maggior parte degli ascolti sono regolati dalle playlist, che sono un contenitore che scegli se non sai che cosa ascoltare di preciso. Io non ti dico che voglio portare un approccio virtuoso, però penso anche che spesso tanta musica viene pubblicata già con l’intenzione di non essere veramente interessante, ma per essere fruibile in modo passivo e fare tanti streaming ma con poca sostanza.

Un’altra cosa che mi è piaciuta è il mix. La voce sta in secondo piano, a volte si sente quasi persino male.
Eh, questo è stato un motivo di discussione in fase di produzione. In Italia noi siamo abituati a un certo tipo di mix in cui la voce è sempre davanti e si dà per scontato che sia così. Io vengo da ascolti anglosassoni, dall’home recording e dal lo-fi, in cui questa cosa non è così ovvia. Da una parte devo dirti che dietro a questa scelta c’è anche un po’ di timidezza, nel senso che ho iniziato a fare musica senza nessun riscontro e solo ora sto imparando piano piano che non devo necessariamente nascondermi tra mega riverberi.

Quando si parla di Post Nebbia ho notato che prima o poi si parla anche di Tame Impala e anche questa intervista, come vedi, non è da meno. Lo sai che ti trascinerai questa cosa per sempre? Quanto ti sei già stufato?
Come tutte le grandi storie d’amore con il gruppo della tua adolescenza, c’è sempre un rapporto un po’ conflittuale. Però devo dire che è un capitolo a cui sono riconoscente e a cui devo molto, anche solo per avermi fatto pensare che anche io avrei potuto registrarmi a casa. Penso che quello che ascolti a 15 o 16 anni sia una specie di dannazione alla quale tornerai per sempre.

Dopo Dutch Nazari e Golden Years, con chi altro ti piacerebbe collaborare?
Non saprei, so soltanto che mi piacerebbe molto collaborare a livello di produzioni più che con i Post Nebbia, che invece vorrei mantenere nella loro dimensione di cui per ora sono molto felice.

Ti faccio una domanda stupida che però ti dà la possibilità di dare risposte simpatiche o di fare screenshot da ritirare fuori al momento opportuno. Come ti immagini fra 10 anni?
Ma, guarda, vista la situazione attuale cerco di pensarci veramente il meno possibile. Diciamo che mi piacerebbe riempire il frigo facendo quello che faccio che mi piace. Non ho particolari manie di grandezza.

Con “fare quello che mi piace” intendi suonare e produrre o c’è anche altro?
No, no, intendo suonare e produrre. Un giorno mi piacerebbe scrivere una sceneggiatura.

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