I Nu Genea ti fanno stare bene | Rolling Stone Italia
Interviste Musica

I Nu Genea ti fanno stare bene

Siamo stati al festival Spring Attitude per capire le ragioni del successo del duo disco-funk. «Abbiamo smesso di rincorrere le cose più complesse per darci un obiettivo: far felici le persone»

I Nu Genea ti fanno stare bene

Nu Genea

Foto: Gennaro Canaglia

A un certo punto l’effetto era straniante, psichedelico quasi, ma di una psichedelia tipo da Las Vegas: lo stilosissimo festival romano Spring Attitude (nato elettronico, ma ormai anche po’ indie, comunque sempre di qualità) quest’anno nel suo perenne vagabondare alla ricerca di una location adatta – problema a Roma sempre più drammatico – era finito nei Cinecittà Studios. Ma non in uno dei capannoni: no, proprio in una delle sue parti più iconiche, assurde, pacchiane. Ovvero quella che, lavorando di resina e di cartapesta, rifà l’antica Roma: archi trionfali, colonne, scalinate imperiali, palazzoni splendenti, accatastati tutti lì attorno ad una vasta piazza e grandi, a grandezza cioè praticamente naturale. L’effetto? Come se qualcuno ti avesse rovesciato addosso una mestolata gigante di Ben Hur (il film, quello originale ed anche il remake); e riempito le tasche di banconote da 7 euro.

Diciamo che per un anno può essere divertente, come setting (meno quando ti tolgono a tradimento, a due mesi del festival, uno degli spazi che avevi prenotato, perché è arrivata una megaproduzione cinematografica americana a sganciare i dollaroni per sei mesi di affitto e se non ti sta bene fai pure causa, che tanto… ma questo è un altro discorso); ma ci dispiacerebbe vedere Spring Attitude, che dell’eleganza e dell’innovazione che fosse pop, techno o quant’altro ha sempre fatto la sua bandiera, doversi prendere come sede definitiva anche per i prossimi anni questa meravigliosa baracconata per turisti. Perché è meravigliosa, sia chiaro: le riproduzioni sono clamorosamente realistiche. Ma è anche una baracconata: perché fa veramente Las Vegas. Oh sì.

Una volta nella vita però la baracconata ce la si può concedere e fa pure bene ed anzi, in questo 2022 ha fatto pure benissimo, diciamolo chiaramente: perché il Spring Attitude 2022 ha sfondato tutti i record delle edizioni precedenti in quanto a biglietti venduti, riempiendo fino all’ultimo posto di capienza concesso la grande piazza fake SPQR. Questo significa: più di 6000 persone a sera. Ma vi diciamo di più: delle due sere in programma, quella che veramente ha sbancato al botteghino è stata la seconda, quella del sabato, con oltre 4000 persone in lista d’attesa (4000!) oltre ai biglietti già venduti, nella speranza che qualcuno già bigliettato rinunciasse a venire e rimettesse in vendita, nell’app dedicata, il proprio ingresso. Vale subito andare a guardare chi era l’headliner della giornata in questione: se Ellen Allien, per quanto sempre pimpante (pure troppo: ha martellato senza pietà, in modo gladiatorio ed anche eccessivo, sarà stato il contesto) non può aver radunato più di 10 mila potenziali paganti, e se per Post Nebbia (bravi!), Whitemary (brava!), Marco Castello (ok), Calibro 35 “morriconiani” (bravi ma un po’ didascalici, nell’affrontare il Maestro), Kokoroko (eleganti e trascinanti) e Venerus (elegante ma non trascinante) si può dire tutto il bene possibile ma nessuno di loro da solo attira più di qualche centinaio di paganti, è chiaro che il catalizzatore di tutta questa corsa al biglietto, oltre al valore intrinseco e decennalmente consolidato di Spring Attitude come festival, sono stati i Nu Genea. Già. I Nu Genea.

 

 
 
 
 
 
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E non è la prima volta. In un’estate gonfia di eventi e concerti anche per i recuperi affastellati degli anni passati, in cui qualche tour è andato bene e altri sono andati così così, i Nu Genea sono stati una garanzia praticamente per ogni singolo promoter. Dove arrivano loro, riempiono. E creano la festa. Di più: riescono ad attirare nei festival di musica “avanzata” (quelli da intellettuali dell’elettronica e del pop colto, alla Sónar o Club To Club: da lì il loro DNA artistico arriva, lì spesso li chiamano), dicevamo, riescono ad attirare in certi posti anche tutta una schiera di, ehm, persone normali. Persone normali che non sanno nulla di Massimo Di Lena e Lucio Aquilina, non sanno nulla dei loro lavori precedenti funk “spaziali” su Tony Allen o della loro preistoria da Wunderkind della minimal house, o della loro trasformazione in Nu Guinea prima e Nu Genea poi; non sanno nulla e non ne vogliono sapere nulla. Vogliono solo esaltarsi nel cantare in coro gli inni partenopeo-meditarranei di Nuova Napoli (l’album che ha inaugurato la loro svolta rétro disco-funk-napoletana) e ancora di più di Bar Mediterraneo (il lavoro successivo, loro primo album per una semi-major come Carosello, con conseguente promozione italiana aumentata, anche se il loro profilo ormai è da tempo europeo e non nazionale). Il tutto godendosi una band di ottimi turnisti e cantanti esagerate, ad affiancare Massi e Lucio (che fanno i bandleader che se ne stanno quasi in disparte, ma sorridendo e facendo la cosa giusta al momento giusto). Roba iconograficamente quasi da festone. Da brindisi di Capodanno.

L’effetto, appunto, è bizzarro, in quello che è stato il secondo giorno di Spring Attitude: già sei circondato da una finta Roma gigante e debordante, per giunta sul palco si scatena la festa discofunkstupenda ai limiti della stupidera da Renzo Arbore/Marisa Laurito, in una specie di San Silvestro/Carnevale dove si canta e balla tutto il tempo una musica che, di suo, pesca a piene mani da ciò che negli anni ’70 era negletto, dimenticato, irriso perché disimpegnato e disco-discotecaro (prima che arrivasse Pino Daniele a far capire tutti che la black poteva essere una cosa seria, anche e soprattutto sposata al patrimonio musicale napoletano, se suonata bene, e prima che la retromania ironico-sarcastica diventasse terreno di caccia per l’intellettualanza giovane, gioviale, hipster).

Il set dei Nu Genea allo Spring Attitude. Foto: Roberto Panucci

Disclaimer: chi scrive, ha una stima enorme dei Nu Genea (gli è giusto dispiaciuto quando hanno cambiato il nome da Nu Guinea in Nu Genea, in un eccesso di scupolo per la paura di essere visti come appropriatori culturali a sbafo sulla pelle dei guineani. Giusto questo). Chi scrive, è quindi contentissimo per loro e per il successo che stanno avendo. Contentissimo. Se lo meritano tutto. Perché Lucio e Massi sono due tizi che, quando 15 anni fa potevano lucrare sul loro status di ragazzi prodigio del mondo minimal house più in voga nell’allora lanciatissima scena del clubbing à la facciamo-un-weekend-a-Berlino, hanno invece deciso di buttare tutto a mare, tutto: non entrare cioè in pianta stabile nello star system dai guadagni facili e benefit collaterali altrettanto facili, delle serate ad Ibiza. Hanno mollato tutto e se ne sono andati a Berlino a viverci davvero e a farci pure la fame, cercandone la purezza artistica e non lo scintillio dei luoghi comuni e dei successi facili a misura di Easyjet raver. Hanno cercato di non vendersi al mercato, di fare solo quello che avevano voglia di fare, stravolgendo nel processo la propria musica e cercando di capire ciò che veramente avevano voglia di fare. Via allora la facilità minimal, largo alla ricerca da bravissimi intellettuali della club culture, combinando vecchio e nuovo. In pochi avrebbero fatto una cosa del genere, di tutto il giro techno e house in quegli anni in vorticosa ascesa. In pochi. Forse nessuno. Loro, sì. Quindi ecco: se c’è qualcuno che oggi merita il successo, per talento ma anche per rettitudine morale ed onestà intellettuale, questo qualcuno sono loro.

Tutte queste cose il grosso del pubblico non le sa. Il grosso del pubblico – diciamo la parte più hipster e informata – si è fatto affascinare dal recupero disco-funk-vesuviano datato 2018 di Nuova Napoli, nell’onda lunga di interesse che ha circondato la città campana anche per l’effetto-Liberato, e per il sempre presente amore per il primo Pino Daniele da un lato e per la pacchianeria dall’altro; tutto questo per poi impazzire definitivamente per l’upgrade Bar Meditarraneo, uscito quest’anno. Simile, ma più contaminato di Maghreb e di altre piccole preziosità in filigrana, e in grado di catturare l’attenzione, le feste e i canti in coro anche di chi è meno hipster e meno informato e alla musica in fondo chiede spensieratezza e divertimento, nient’altro. Chiede di essere una gran festa.

«Ma noi siamo supercontenti di essere una band da festa», dice convinto Massimo. Perché ha capito che sì, tutto bello, ma il pensiero che si agita nella testa di chi scrive qui e conduce la chiacchierata con loro effettivamente è: non vi secca essere presi come una band da festa e caciara e basta, quando invece voi avete uno spessore enorme, come teste musicali? E il vostro recupero di certe sonorità disco-funk partneopee nasce da un lavoro mostruoso di ricerca e musicologia, con soci barricaderi e antagonisti come la semi-misteriosa Famiglia Discocristiana? «Vuoi o non vuoi, la musica deve far sorridere», continua Massimo. «Poi certo, se fai uno sforzo in più inizi a cogliere i mille riferimenti che mettiamo dentro, la fatica di assemblarli, le scelte armoniche strane (che era una caratteristica anche del Pino Daniele funk!), le contaminazioni imprevedibili. È bello trovare più chiavi di lettura in un artista: perché magari questa chiavi cambiano a seconda dei momenti della tua vita. No?».

Gli dà man forte Lucio: «Noi abbiamo capito che la genuinità nella musica paga. Paga te stesso, perché fai quello che vuoi fare; e qualche volta paga pure nella vita. Fortunatamente da qualche anno in qua per noi sono vere entrambe le cose insieme. Come sai non sempre è stato così. Ma di sicuro oggi stiamo facendo quello che stiamo facendo solo ed unicamente perché lo vogliamo fare. Il fatto che ci stia girando così bene è una conseguenza meravigliosamente piacevole, ma non è l’obiettivo. Che poi, già dopo il successo del tutto inaspettato di Nuova Napoli un po’ di ansietta c’era, non lo neghiamo. Ma da lì sono arrivati i primi concerti, prima ancora dell’uscita dell’album nuovo e… wow. Le date si dividevano in: belle, bellissime, incredibili. Non ce n’è una che sia andata male! Manco all’estero. In Italia sapevamo di giocare in fondo in casa, ma l’accoglienza che abbiamo avuto ad esempio in Olanda a Lowlands è stata assurda: la serata perfetta. Potrei farti poi molti altri esempi».

Prosegue Massimo: «C’è stata una fase nella nostra vita, prima dell’esplosione di Nuova Napoli, in cui io e Lucio eravamo entrati nel tunnel del “vogliamo fare una musica che non sia mai stata ascoltata prima, vogliamo fare qualcosa di assurdo, qualcosa che sia assolutamente innovativo”. Poi però un giorno ci siamo ritrovati in Marocco per una data, e assieme a noi in line-up c’era un nostro amico. A un certo punto ha messo su un disco che ci ha spiazzato: molto semplice, tre suoni in croce, senza i synth che noi tanto sempre amiamo, era musica tradizionale di Capo Verde… Andiamo da lui e gli facciamo: “Ma scusa, perché stai suonando questa musica?”. E lui: “Semplice: perché mi fa stare bene”. Beh: è stata una illuminazione. Improvvisamente ci siamo resi conto quanto fosse non necessario dover sempre rincorrere le cose più complesse e le novità più sorprendenti. Perché anche con qualcosa di molto, molto semplice puoi stare bene. E se questa musica che ti fa stare bene ti sembra troppo semplice, forse dovresti chiederti: ma faccio musica perché voglio strappare l’ammirazione di qualcuno, tipo dei critici e degli amici addetti al settore, o perché voglio stare bene di mio?».

Lucio specifica: «Era il periodo appena successivo alla collaborazione con Tony Allen. Avevamo iniziato a lavorare a un nuovo disco assurdo, una specie di jazz-fusion dell’altro mondo, armonie complicatissime: qualcosa che se va bene sarebbe piaciuto a 150 persone. Ora, non è che per forza devi pensare al grande pubblico, se vuoi essere contento. Ma improvvisamente ci siamo resi conto che avevamo preso una deriva un po’ troppo intellettuale…». «Una cosa da “guarda che bravo che sono”», chiosa Massimo. E Lucio: «Esatto. Ci stavamo perdendo. Volevamo avventurarci in qualcosa che era anche al di là del nostro mondo, e pure dei nostri ascolti. Abbiamo capito, grazie a quella epifania in Marocco, che dovevamo ritrovare invece un contatto più diretto con la musica e con lo stare bene attraverso la musica. Perché la musica è fruizione: sia per gli altri che la ascoltano, ma anche per te che la fai. Capire quanto entrambe queste cose siano vere e interconnesse tra loro ti evita di cadere nell’autocompiacimento».

La conversazione prende quota. Provo a giocare un’altra carta: sì, tutto vero, tutto bello, tutto giusto, ma a fare questa musica che è così “mimetica” di ciò che è stato nella disco napoletana anni ’70 (su cui, sia chiaro, avete fatto un lavoro di ricerca da musicologi strepitoso) non c’è forse il rischio di impigrirsi artisticamente, adagiandosi sul fatto che ora come ora è una formula di straordinario e inaspettato successo? Non sarebbe magari il caso di provare a contaminare questo suono vintage con striature di modernità, tanto per alzare il livello della sfida? Massimo: «Ma cos’è questa modernità? Cos’è moderno, in musica? Io, onestamente, oggi non saprei rispondere, oggi che è stato fatto un po’ tutto. Su una cosa sola saprei rispondere, solo su una: ovvero quello che per noi è una novità, e quello che non lo è. E nella nostra musica di novità continuiamo a mettercene, credici. Ad esempio in Bar Meditarraneo c’è un uso massico di strumenti a corda, chitarre e non solo, e questa è una cosa con cui non ci eravamo mai misurati prima. Nella traccia Rire c’è un tipo di linea di basso e di ritmica che, ad oggi, non avevamo affrontato praticamente mai. Capisci? E potrei farti altri esempi. Quindi, per noi Bar Mediterraneo è: nuovo. Assolutamente nuovo».

«Poi io capisco» interviene Lucio «che i due dischi, Nuova Napoli e Bar Mediterraneo, a un ascolto superficiale possano sembrare simili tra loro: l’organico più o meno è lo stesso, i musicisti sono gli stessi, c’è sempre la voce di Fabiana (Martone, nda), anche l’ingegnere del suono è lo stesso e gli abbiamo detto di seguire lo stesso processo che aveva seguito allora, perché ci era piaciuto parecchio – e mix e mastering influiscono molto sul suono di un disco. Ok. Ma in realtà c’è molto più Nord Africa. Poi chiaro, la matrice disco-funk napoletana ruba sempre l’attenzione. C’era prima e c’è adesso…». Musica di cui siete cultori maniacali e da tempi non sospetti, posso dirlo: prima che diventasse di moda. «Esatto. Ma appunto: quando conosci bene un genere e lo frequenti tantissimo, senti più e meglio le sfumature. Se lo conosci magari poco, allora ti sembra tutto uguale. Noi mettiamo assolutamente in conto che ci possa essere chi ascolta Bar Meditarraneo senza porsi minimamente le seghe mentali che ci mettiamo noi, senza cogliere che qui c’è il Nord Africa, lì quel giro di darabouka, e quando mai queste due cose sono state fatte interagire col classico disco-funk anni ’70… Sente invece la chitarrina e dice “Uh, bello questo funkettino”: lo capisco. Ma per noi in questo nuovo lavoro c’è tanta ricerca, ci sono tanti rischi – pure troppi, forse – e ci sono davvero tante soluzioni per noi inedite. Poi, non lo neghiamo: dopo un album andato così bene come Nuova Napoli non volevamo cadere nella trappola autocompiaciuta di “Ah, vi è piaciuto? Beh, ora invece facciamo qualcosa di completamente diverso”. Siamo rimasti un po’ nel solco. Ma il solco non è stilistico, il solco è fare quello che ci fa stare bene ora. Se a qualcuno sembra una emulazione, bene; se a qualcuno sembra una novità, ancora meglio. Ci hanno detto più volte che il nostro suono, anche se già sentito e già codificato in passato, in mano nostra sembra nuovo e fresco…».

Incalza Massimo: «Ma poi: emulazione. In realtà, la musica è emulazione, è anche emulazione. Quando fai qualcosa da musicista, è inevitabile che si senta l’effetto di tutto quello che ti piace e di tutto quello che hai ascoltato da appassionato: sbaglio? È emulazione, questa? Ti impedisce di poter fare delle cose interessanti? Non lo so. Secondo noi, no». Pausa. E riprende Lucio: «Non siamo ingenui. Sappiamo che esistono i maniaci. Quelli che emulano davvero. Nel funk come in altri generi musicali. Quelli che la batteria deve per forza suonare in un certo modo, la chitarra in un altro… Ma noi non siamo così, credimi. Riprendiamo molto dalla musica del passato, sì, ma non vogliamo emularla».

Qualcuno però la vostra musica la prende per tale: per una emulazione. E se ne innamora proprio per questo, attenzione, esattamente come gli americani stravedono per Las Vegas. Massimo: «Quando eravamo molto giovani ed eravamo nel giro techno e house, noi e la gente che ci circondava aveva occhi e orecchie solo per quello, solo per i grandi protagonisti di quella scena lì. Volevamo in qualche modo proteggere la scena, non ci interessava che altri con gusti musicali assolutamente diversi potessero scoprirla: ci era indifferente, se non addirittura lo vedevamo come un pericolo. Ma tutto questo ha portato presto ad una atrofizzazione di quel giro lì, giro da cui siamo fuggiti. Stava diventando tutto uguale, omologato. La cosa di cui siamo più fieri oggi è di poter rappresentare un’alternativa. Marechià, nemmeno noi sappiamo bene come e perché, è finita ad essere suonata anche nei contesti più pop, alla radio, in giri anche prettamente commerciali, cose così. Ne siamo felicissimi! Perché in questo modo prima o poi arriverà qualcuno che dirà “Ah ma dai, allora i brani possono suonare anche così, ma pensa, si possono fare anche cose così strane e così fuori dal tempo: bello”. I ragazzini di oggi sono bombardati dai media e dai social: devi vestirti così, devi fare questo, devi ascoltare quell’altro. Noi siamo l’eccezione nel sistema. Noi siamo l’alternativa. Lo siamo magari diventati facendo qualcosa che non è nuovo al 100%, ma in parte riprende cose già fatte? Beh, pazienza: la nostra musica evidentemente fa felici molte persone, riuscendo a restare comunque alternativa rispetto ai modelli dominanti. È facile da ascoltare? Forse. Ma è diversa da quello che si sente di solito in giro alle radio, e in generale nei contesti mainstream. Questo, guarda, è già importante di per sé. Anzi: è importantissimo. Anche se la cosa più importante è…».

Qui ci si ferma, e ci si guarda tutti e tre. Fino a quando Lucio chiude la frase: «Fare stare bene le persone. Fare stare bene noi che la facciamo, questa musica, fare stare bene chi questa musica l’ascolta. E penso proprio stia accadendo».

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