I Ministri e l’arte di provarci sempre e comunque | Rolling Stone Italia
Dischi resistenti

I Ministri e l’arte di provarci sempre e comunque

‘Aurora popolare’, la tensione tra disillusione e speranza, lo stato del rock italiano, la libertà trovata sui palchi piccoli. E la massima di Dave Grohl: «Per diventare una band, devi passare molti anni a suonare di merda»

I Ministri e l’arte di provarci sempre e comunque

Ministri

Foto: Chiara Mirelli

Testi che oscillano tra disillusione e tentativi di resistenza, riff serrati e una tensione emotiva che ha caratterizzato tutta la carriera della band: i Ministri non cambiano registro. Aurora popolare è coerente con un percorso ventennale costruito su uno sguardo lucido e impietoso sulla realtà contemporanea, tra frammenti di rabbia, attesa e piccole scintille di speranza.

In Aurora popolare i Ministri riflettono sull’oggi senza indulgere in retorica: il mondo appare sempre più complesso, le possibilità di miglioramento spesso ridotte, eppure c’è consapevolezza e volontà di partecipare, di testimoniare, di provare comunque. La band racconta la propria esperienza, dai club di 2000 persone ai live più grandi, fino al confronto con la nuova scena italiana, tra artisti emergenti e il peso dei numeri social. L’album si inserisce in un discorso più ampio, quello della responsabilità verso le nuove generazioni e della coerenza di un rock italiano che ha sempre oscillato tra individuale e collettivo.

Con sette album, due EP e quasi vent’anni di concerti, i Ministri restano una voce stabile e riconoscibile del rock italiano contemporaneo, capace di aggiornare la propria cifra espressiva senza smettere di interrogarsi sul mondo e sulla propria funzione al suo interno. Il tour li porterà nei principali club italiani tra settembre e novembre.

Possiamo dire che Aurora popolare è l’ennesimo disco dei Ministri sulla disillusione? Da dove deducete questa visione del mondo da così tanto tempo?
Federico Dragogna: Oddio, esiste un’alternativa? Personalmente, almeno per quanto riguarda i testi, questa tendenza al cassandrismo ce l’ho da tempo. Non voglio sembrare un uccello del malaugurio, perché nella poetica dei Ministri c’è sempre una parte di stoicismo, un invito a provarci comunque. Lo si percepisce anche in questo disco, come in Spaventi, quando diciamo “andiamo insieme a vedere cosa ci aspetta avanti”. Quella parte finale rimane consapevole. Però certo, lo scenario generale si è incupito. Detto questo, i testi non sono mai una rappresentazione lineare della realtà: c’è sempre un elemento di fantasia, quella che ci raccontavano da bambini. L’idea è trasmutare il mondo in un discorso poetico, aprendo spiragli di luce, invece di limitarsi a registrare cronache. In passato, questa tensione tra individuale e collettivo nella mia scrittura era a volte meno chiara. In questo disco, invece, credo si sia raggiunto un equilibrio, e siamo davvero in pace con il risultato.

Ministri - Piangere al lavoro

Siamo sempre lì, al fatto che veramente viviamo in tempi bui.
Davide Autelitano: È vero, se guardi ai pezzi di 15 anni fa, ti rendi conto che i temi sono gli stessi. Quello che abbiamo vissuto nel frattempo è che le condizioni hanno reso più facile arrendersi, senza nemmeno accorgersene, non perché le persone volessero smettere di lottare, ma perché le possibilità di risolvere i problemi sono state ridotte. Nel frattempo si è creata un’azione di disturbo enorme sul concetto stesso di futuro, soprattutto di un futuro migliore. Cantiamo e suoniamo una musica coerente con quella disillusione che da sempre ci caratterizza, ma oggi abbiamo anche la consapevolezza che il gap può essere ridotto. Il sistema che regge menzogne e disinformazione mostra crepe, e questo ci fa sperare in un ritorno a qualcosa di collettivo, davvero popolare. Questo risveglio, che chiamiamo anche aurora, lo sentiamo soprattutto come responsabilità verso le nuove generazioni: noi abbiamo fatto il nostro tempo, ora dobbiamo aiutarle a credere in un futuro migliore.
Michele Esposito: Vivendo la vita come tutti, alterniamo ottimismo, pessimismo, disillusione e speranza. Cristallizzare questo momento era importante. Siamo sempre stati abituati a farlo: anche in passato non era tutto rose e fiori.
Dragogna: E poi, come dici, noi non abbiamo mai fatto i soldi veri. Siamo riusciti a vivere di musica e non dobbiamo fare altri lavori. Però allo stesso tempo la nostra parabola ci ha sempre permesso di rimanere radicati nel mondo reale. Le sfide che affrontiamo sono le stesse del nostro pubblico.

Avete detto di essere in pace con il nuovo disco: è la regola o è un’eccezione?
Autelitano: Direi che è un’eccezione. Di solito fare un disco significa scendere a compromessi, le visioni divergono, essere una band è complesso. Qui, invece, tutte le scelte – concettuali, sonore, comunicative – sono state condivise da tutti, senza intromissioni esterne. È raro che un disco nasca così, sentito da tutti, con grande sicurezza e consapevolezza.

E pensate sia una questione di esperienza o che semplicemente ci sia stato un allenamento in questo periodo?
Dragogna: È sia esperienza che allineamento. Siamo come un mini collettivo di amici che condividono un progetto da vent’anni. La pace attuale deriva da anni di misunderstanding, chiarimenti, momenti di silenzio e riconciliazioni. È un ciclo che si ripeterà: tra sette anni ci toccherà un’altra fase di caos.

Parliamo un po’ di live, anche in vista del vostro tour. Qualcuno non ricordo dove ha scritto che siete una band che ha contenuti da disperati del rock che cantano guardando per terra, ma il linguaggio di chi sa ammaestrare le platee.
Dragogna: All’inizio non avevamo esperienze live reali, solo i gruppi del liceo. Poi abbiamo aperto il progetto alla gente, rendendolo collettivo. Ci siamo innamorati dei micromondi – piccoli festival, club – che cercavano di esistere e di resistere. Oggi, pur avendo avuto negli anni anche diverse possibilità di suonare in contesti più grandi, credo che quella dei club fino a 2000 persone sia la dimensione più bella: dopo quella soglia, si perde qualcosa, finché ti ritrovi in uno stadio a guardare un maxischermo perché il palco non si vede.

Vi siete mai chiesti come avreste gestito quel tipo di successo popolare che vi avrebbe reso impossibile mantenervi ancorati alla dimensione di cui avete appena parlato?
Autelitano: Non ci avevamo mai pensato concretamente. Ma avere anche solo la possibilità di avvicinarsi a grandi platee… quando siamo stati giovani, ogni picco era galvanizzante. Va bene così. Però abbiamo una grande fortuna: anche senza la pressione dei grandi palchi, sappiamo divertirci e far funzionare la musica ovunque. Dateci batteria, basso, chitarra, microfono e impianto, e riusciamo a trasmettere energia. Certo, c’è qualcosa di stimolante nella pressione, ma ci divertiamo di più senza di essa, in contesti più liberi.
Esposito: Se per caso dovesse capitare, cercheremmo comunque di portare la nostra energia nel contesto nuovo.
Dragogna: Poi c’è anche a chi è successo. Un esempio recente è Lucio Corsi: ha incrociato molta gente con il suo linguaggio, e credo che pure lui sia rimasto stupito di questo, però sembra che ce la stia facendo e che stia riuscendo a non sacrificare le forme di energia che ha sempre portato nei suoi live anche ora che si esibisce in contesti meno intimi.

Ministri - Avvicinarsi alle casse

Avete scritto delle pagine importanti di questa creatura collettiva che sarebbe il rock italiano: come pensate che stia? Ci sono, tra le nuove generazioni, proposte che vi coinvolgono?
Dragogna: La prima cosa che mi viene in mente è la formazione e la crescita di una scena femminile piena di nuove voci che non rientrano nei ruoli tradizionali riservati dalla canzone italiana alle donne. Dicono cose importanti e seguono percorsi completamente diversi. Penso a Lamante, Emma Nolde, Daniela Pes… e molte altre. Mi sentirei di dire che ultimamente gli act più interessanti arrivano da quel contesto.

E invece quali sono i limiti secondo voi?
Autelitano: Un limite oggi è che i numeri social condizionano troppo. Band senza grandi numeri tendono a imitare chi ha successo e chi ha grandi numeri spesso non sfrutta questa libertà per fare qualcosa di sovversivo. È un problema strutturale: la massmediatizzazione, dai talent show alle piattaforme social, crea una pressione continua a un’immagine, che limita la rottura artistica: quando abbiamo cominciato, la rottura era tutto. Il nostro primo disco è stata una scelta rischiosa e indipendente, che ha segnato chi c’era. Oggi la fantasia sembra usata più per reel che per creare cose significative.
Esposito: Ha ancora senso parlare di divisione tra indipendente e mainstream? Forse no. Prima permetteva di avere un pubblico a parte per le scelte più radicali. Oggi, senza questa distinzione, chi vuole mantenere la rottura deve affrontare rischi maggiori.
Autelitano: In Italia premiano chi ha concetti forti, anche senza una voce perfetta, più di chi ha tecnica ma banalità. La differenza è la credibilità: rappresentare qualcuno, avere convinzione e originalità. Oggi invece molti artisti cercano di fare tutto perfetto, ma manca la sostanza. Ai nostri tempi, imparare a suonare significava spaccarsi le dita per padroneggiare cose semplici ma fatte bene.
Dragogna: Come diceva Dave Grohl: per diventare una band, devi passare molti anni a suonare di merda.

In Aurora popolare parlate di “correre dietro a una rivolta qualunque”. Pensate di averlo mai fatto?
Autelitano: «Altroché basta guardare la nostra storia elettorale: pensa che io ho dato un voto a Renzi una volta, di che cosa stiamo parlando? (Ride).
Dragogna: Mi viene in mente un episodio al liceo: andammo a un presidio davanti al consolato degli Stati Uniti, tanto per cambiare. Il problema è che ci siamo andati un giorno prima ed eravamo in due. Il giorno dopo abbiamo portato la giustifica a scuola con scritto “assenza per manifestazione”. La prof ci guarda e ci dice che quel giorno non c’era manifestazione. «Prof, l’abbiamo fatta noi due…».
Esposito: È un modo di fare moltitudine, osservare cosa succede.
Dragogna: Il testo comunque parla di rivolta, ma anche di scintille e di carnevale. Il riferimento è a una serie di manifestazioni a cui ho partecipato in cui c’erano delle frange che raggiungevano i cortei solo per gli aspetti più folkloristici o per quelli più violenti, senza che ci fosse una coscienza o una struttura a sostegno. Il rischio c’è anche oggi, penso ad esempio alle numerose manifestazioni in relazione a Gaza: bisogna incoraggiare l’attivismo ed è importantissimo, ma lo deve essere anche la coscienza che muove chi si impegna in questo genere di cose.

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