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I King Gizzard & The Lizard Wizard sono i mutaforma più imprevedibili del rock

Sono una delle band più prolifiche e inafferrabili in circolazione. Quando hanno visto avverarsi le loro fantasie doom, hanno scelto di fare un disco allegro che ricorda Beck e i Flaming Lips

Foto: Jason Galea

Torrenziali, logorroici, affascinanti, iperproduttivi, psichedelici, escapisti, fantascientifici. Anche un bel po’ cazzoni, volendo. Sono tutti termini istantaneamente associabili a King Gizzard & The Lizard Wizard, gruppo australiano che in dieci anni di carriera ha scombinato un certo numero di luoghi comuni su ciò che una rock band dovrebbe essere, per poi mandare in crash anche le aspettative dei loro stessi fan, che non fanno in tempo ad affezionarsi a un disco, un suono, una versione dei KG&LW che questi surfer mancati regolarmente arrivano con un altro disco, un altro suono, un’altra versione di loro stessi.

Strana bestia mutaforma, questo gruppo di Melbourne. Partiti come revivalisti garage-psichedelici, più o meno nello stesso periodo dei conterranei Tame Impala di Kevin Parker (ma senza lo stesso successo immediato) nei primi anni ’10, sono approdati ai ’20 con una discografia già sterminata (nel solo 2017 hanno pubblicato cinque album) nella quale hanno attraversato dimensioni sonore diversissime, quasi fossero livelli successivi di un videogioco. Uscendone (quasi) sempre vincenti. Dall’acid rock sbrindellato e i viaggioni psych stile Hawkwind al metal, dal r’n’r all’electro più danzerina, passando naturalmente per la musica microtonale con la quale si sono gingillati già in varie occasioni. L’ultimo lavoro, Butterfly 3000, li vede tutti presi dai bleep e blurp dei synth analogici, come figure pixelate su una linea immaginaria che va dagli Yello e Beck fino alla dance contemporanea, con vocine che fanno pensare tanto alla disco dei Bee Gees con la permanente e i catenoni d’oro sul petto quanto alle corali dei Beach Boys, e un mood generale piuttosto allegro e rilassato. Per quanto si può essere allegri e rilassati nel 2021.

Un album in maggiore, mettiamola così. Naturalmente, quando diciamo “ultimo” disco scherziamo. Nel momento in cui starete leggendo questo articolo ne avranno sicuramente finito un altro. Non è una battuta. Ce lo dice in collegamento Zoom dalla sua casa di Melbourne il neo-papà Stu Mackenzie, chitarrista/cantante/flautista/co-autore della band. «Stiamo dando gli ultimi ritocchi, per quest’autunno sarà fuori». Visto che siamo in argomento ci togliamo subito la rituale domanda su pro, contro e soprattutto perché di così tanta produttività. «Non c’è un vero e proprio perché, è il nostro modo di procedere e di crescere come artisti. Personalmente trovo che ventiquattr’ore in un giorno siano troppo poche per tutto quello che vorrei fare e che vorrei esprimere. Ma non si tratta di essere dei workaholic e neanche, spero, di faciloneria. I nostri dischi non sono mai buttati via, giusto per toglierci uno sfizio. Qualcuno mi soddisfa di più e qualcuno di meno, ma non chiedermi come fanno in tanti di farti la top 3 o top 5 all’interno della nostra discografia. Sarebbe come chiedermi qual è stato il viaggio più bello della mia vita. Ognuno è stato un’avventura e da ognuno ho imparato qualcosa. Ecco, se c’è un principio a guidarci, fin dall’inizio, è proprio quello dell’imparare attraverso i dischi: la nostra produzione è un work in progress continuo, un cantiere aperto. Non è amore per il cambiamento in quanto tale, magari potremmo fare altri tre album come quello appena uscito, se ci serve per crescere come musicisti».

Se non esattamente gioioso, Butterfly 3000 può essere considerato un disco sereno, persino ottimista. Le cadenze dance-elettroniche riflettono un più che giustificato desiderio di leggerezza dopo un anno così spaventosamente opprimente? «Io utilizzerei un termine che ci è stato appioppato altre volte, ma in questo caso con una accezione per me positiva. Butterfly 3000 è un disco d’evasione. Perché no? A un certo punto hai voglia di mollare tutto, e rifugiarti in qualche altra dimensione della mente. Un posto più accogliente di quello in cui ci troviamo. Cristo, ne abbiamo tutti bisogno, no?». E dire che in più di una occasione la vostra musica sembrava andare in direzione opposta. «Sì, è vero. Nel nostro suono c’è comunque un elemento di minaccia, un po’ inquieto e inquietante. Non so, saranno i cambi di tempo strani, i poliritmi, ma c’è un sottofondo disturbante, oscuro. In molte occasioni abbiamo scritto canzoni che parlano di ingiustizia sociale, di catastrofi climatiche incombenti, di quanto viviamo in un mondo che parrebbe ormai fottuto. La realtà che ci circonda è questa, ma non c’è solo questo. C’è anche spazio per la bellezza, la contemplazione, la rinascita».

«Venivamo da due-tre album particolarmente pesanti, come atmosfere, e quando è arrivata la pandemia sembrava che le nostre fantasie doom si stessero avverando in tempo reale. Forse anche per reazione alle canzoni che abbiamo cominciato a scrivere mentre eravamo chiusi in casa abbiamo voluto dare un taglio positivo. Vaffanculo, era già abbastanza pesante la situazione, non c’era nessun bisogno dei King Gizzard che vengono a dirti quanto siamo nella merda. Preferisco, come in Dreams che per me è uno dei pezzi chiave dell’album, dire a chi ascolta “voglio che ti svegli nei miei sogni, e andrà tutto bene”. Si tratta di musica d’evasione? Evviva l’evasione, allora»

Evviva. Ed evviva pure la fantascienza, il cui immaginario ha nutrito quello dei KG&LW nello stesso modo in cui ne sono stati influenzati, per dire, i Flaming Lips (che in Butterfly 3000 vengono in mente più volte). Ma facendo un passo indietro, come si inseriscono gli esperimenti sulla musica microtonale che vi ha visti impegnati a più riprese in quella descrizione della vostra musica come tendenzialmente “minacciosa”, e come si possono adattare a questa ritrovata joie de vivre? «Questa è una buona dimostrazione di quel work in progress di cui parlavo prima. Anche con la musica microtonale abbiamo proceduto per tentativi, esplorazioni, e così via. Ci siamo tornati su con strumenti diversi, provando combinazioni inedite, e ogni volta si allargava un po’ lo spettro delle possibilità. In fondo con la musica microtonale, che si basa sull’utilizzo degli intervalli musicali sotto i semitoni, è proprio una questione di aprirsi più opportunità. Hai una tavolozza più ampia, una gamma di sfumature inimmaginabile a cui attingere». Roba che una volta si sarebbe detto che spalanca la mente.

E a questo punto non posso evitare di ricorrere a un altro dei tag citati in apertura: psichedelia. Quanto i King Gizzard si riconoscono ancora in quella parola? «Sento ancora un legame profondo con quella tradizione musicale. Il garage, la psichedelia, sono generi che ho amato e amo molto. Ma psichedelia è un termine che andrebbe inteso in senso più ampio. Non ha necessariamente a che fare con le improvvisazioni chitarristiche, gli anni ’60 o l’LSD. Psichedelico è tutto ciò che ti trasporta da un’altra parte e ti apre la mente, tutto ciò che ti aiuta a creare connessioni nuove. Gli strumenti che uno può usare alla fine sono secondari. Io sono un chitarrista, ma per la maggior parte del tempo suono e compongo al laptop. Da questo punto di vista siamo un prodotto del nostro tempo, non dei nostalgici di ere che non abbiamo vissuto».

A proposito di ere che non si sono vissute, la domanda finale riguarda il rapporto dei King Gizzard con la gloriosa tradizione australiana di rock underground. «Ah, certo: Radio Birdman, Hoodoo Gurus, Died Pretty, Midnight Oil, intendi quel genere di cose no? (ecco, magari i Midnight Oil non proprio, nda) Cool stuff, man! Erano i dischi che giravano in casa dei nostri genitori. Non so dire se ci hanno ispirato davvero, ma era tutta ottima musica. Come lo era quella dei Bee Gees. Ecco, se dovessi dire una band australiana che di questi tempi ascolto a ripetizione direi proprio loro. Strano, eh?» No, non direi. Nell’universo alternativo dei King Gizzard & the Lizard Wizard ha perfettamente senso.

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