I Hate My Village, fregarsene del (nostro) tempo | Rolling Stone Italia
Cover Story

I Hate My Village
Fregarsene del (nostro) tempo

Alberto Ferrari, Marco Fasolo, Fabio Rondanini e Adriano Viterbini tornano col nuovo album ‘Nevermind the Tempo’ e finalmente si sentono una band. Molto è cambiato dall’esordio del 2019: meno afrobeat e chitarre, più voci e ritornelli. Alla perfezione preferiscono l’errore, alla comfort zone la possibilità di «far saltare tutti i tempi»

Foto: Simone Cecchetti

A un certo punto suona una sveglia. Non una di default, bensì un suono pungente che assomiglia a una chitarra distorta sparata a 1000 watt. «Ti sei registrato da solo il suono della sveglia del telefono?», chiedo ad Adriano Viterbini, che sorride. «Sì, l’ho registrato io, è la sveglia per ricordarmi che devo prendere l’antibiotico». Dall’altra parte della stanza Alberto Ferrari tossisce e starnutisce in continuazione, forse a causa dell’allergia. «Appena sto all’aria aperta vado fuori di testa».

Gli I Hate My Village sono riuniti per la prima volta nella stessa stanza dopo tanto tempo. Una volta finito lo shooting e archiviata la nostra chiacchierata, si chiuderanno in sala prove per suonare dal vivo Nevermind the Tempo, il loro secondo album. Probabilmente la sessione andrà avanti fino a tarda notte. Fabio Rondanini scalpita, Marco Fasolo invece sembra rilassato. Forse è solo il più bravo a mascherare la tensione.

Nel 2019 gli I Hate My Village si erano raccontati come un progetto “da remoto” ed è strano realizzare che l’abbiano detto in un mondo pre-pandemico. «Il meccanismo è rimasto lo stesso. Io e Adri ci vediamo e buttiamo giù idee, poi ci incontriamo con Marco e facciamo delle basi strumentali, infine si aggiunge Alberto con la voce», mi dice Rondanini. «La differenza è che il primo disco lo abbiamo fatto in una settimana, questo invece ha delle idee più complesse e quindi ha richiesto più tempo». Torneremo spesso sul concetto di tempo, non soltanto perché è espresso nel titolo del disco. In effetti sin dal primo ascolto si capisce chiaramente che Nevermind the Tempo è un lavoro strutturato in maniera diversa rispetto all’esordio. «Se il primo era un’istantanea di come ci sentivamo in quel momento, questo è un film con una sceneggiatura», concordano tutti e, come vedremo, non capita sempre.

Li incontro nel cuore del Quadraro vecchio, un’ex borgata popolare che oggi lotta contro la gentrificazione. È importante specificarlo perché, complice la giornata torrida e soleggiata che in un attimo sposta Roma qualche chilometro più giù vicino all’equatore, è un quartiere ricco di storia, fiero e aspro, ma anche accogliente e casereccio che in qualche modo rispecchia bene lo spirito multiforme della band. Così sono anche gli I Hate My Village, un gruppo che vuole divertirsi andando dritto al sodo. È questa la sintesi che hanno trovato i quattro componenti, l’anima romana (Viterbini, Rondanini) e quella lombarda (Ferrari, Fasolo), dopo decenni di esperienza alle spalle e che tra Calibro 35, Afterhours, Bud Spencer Blues Explosion, Verdena e Jennifer Gentle racchiude un bel pezzo della scena alternativa italiana degli ultimi vent’anni.

Foto: Simone Cecchetti

Il successo immediato che ha ottenuto il primo disco, nove tracce, la maggior parte strumentali, nessuno schema e nessun compromesso, diceva essenzialmente due cose: che il pubblico italiano è migliore di quello che dicono le classifiche e che la musica italiana può avere un respiro internazionale anche mantenendo un’anima fortemente indipendente. Prendete gli I Hate My Village e metteteli in qualunque line-up dei grandi festival estivi e non sfigureranno. Ma non chiamateli superband, quelli sono progetti di plastica. Loro invece si sentono una band a tutti gli effetti e come fare a dargli torto?

Nevermind the Tempo contiene dieci tracce, solo una strumentale e un singolo a fare da ponte tra il passato e il futuro della band. «Water Tanks l’abbiamo scritta durante il nostro primo tour, avevamo un giorno libero ed è venuta fuori di getto mentre eravamo al pollaio da Alberto, per questo mantiene le sonorità di quel periodo». Il pezzo sprigiona una potenza acquatica sulla quale surfa un arpeggio vivace e caraibico. Mantiene un legame con il mood di brani come Acquaragia o Tramp che hanno contribuito alle fortune della band. Per il resto, però, il cambio di marcia è palese, a partire dal progressivo distacco dalle origini afrobeat o etno-ambient del progetto, nato dalla passione di Viterbini e Rondanini per la musica con radici africane. Non che siano state abbandonate, sia chiaro, ma adesso si mimetizzano bene in mezzo a tantissimo altro.

«La differenza principale è che questo disco è nato con la volontà di essere un disco di canzoni», dice Marco, «e questo ha fatto sì che tutto il processo fosse diverso. Il primo disco era stato concepito per essere strumentale e la voce si è aggiunta solo in un secondo momento. Adesso abbiamo una consapevolezza diversa e abbiamo voluto innanzitutto esplorare la forma canzone». Al che Alberto aggiunge: «Decisamente, ci sono i ritornelli. Nel primo disco non c’erano».

Ed è vero eccome, i ritornelli ci sono sin dall’inizio, con Artiminime, uno dei brani migliori, che fa partire il disco in quarta con un synth stritolato e una serie di distorsioni che si sovrappongono, compresa la voce di Alberto ancora più presente che in passato. «Ci ho lavorato un po’ di più a questo giro, mi ha aiutato Marco, ci avrò impiegato un paio di mesi», dice. «Ma la vera novità è che canta anche Adriano», interviene Fabio. Non me ne ero accorto. «Solo in tre brani» precisa Adriano. Uno di questi è Mauritania Twist, il brano più pazzo dell’album e nel quale la voce è un delirio processato. «È uno dei pezzi più vecchi ed è nato nel garage da me. Una versione l’abbiamo registrata nella stessa notte in cui abbiamo registrato Jim in pieno Covid», ricorda Adriano, al quale fa seguito Fabio con un pizzico di nostalgia: «Dormivamo nello studio in cui registravamo, io dormivo accanto alla batteria. Il pezzo poi è rimasto lo stesso di quelle sessioni, abbiamo rifatto solo la batteria registrandola su nastro».

A onor del vero, ci abbiamo messo un po’ a metterci d’accordo sul pezzo del quale stavamo parlando, perché i titoli ufficiali sono stati decisi solo di recente e la band ha ancora in mente quelli provvisori delle demo. «Come facciamo con la scaletta se non ci ricordiamo i titoli? È un casino, ci dobbiamo scrivere quelli vecchi!», dice Marco.

Foto: Simone Cecchetti

Tra uno scatto e l’altro, salta fuori una chitarra. Alberto è il primo ad afferrarla e inizia a strimpellare In Bloom dei Nirvana, spiegando che contiene tutti e 12 i semitoni della scala cromatica. Passa poi al pianoforte, eseguendo un frammento di Golden Slumbers dei Beatles. L’intesa con Viterbini è immediata, cantano un vecchio pezzo dei Darkness e si prendono in giro per come sono venuti nelle foto, senza soluzione di continuità. Proprio come una band, appunto. Solo che fa ancora un po’ strano pensarli in questa dimensione, considerato quanto possono essere distanti le strade che di solito seguono. «La cosa interessante di questo gruppo è che ognuno è fan degli altri e per questo disco qui ci siamo fortemente ispirati a noi stessi», dice Adriano.

A proposito di titoli, è curioso che il disco prenda il nome da una frase di un pezzo che invece è rimasto fuori dalla tracklist. «È un’intuizione di Alberto che abbiamo colto e mantenuto nel titolo. È un po’ il nostro manifesto, o forse un monito che ci vogliamo dare», mi spiega Fabio. In che senso un monito? «È un titolo con cui volevamo esorcizzare i dubbi che abbiamo avuto mentre registravamo», aggiunge Marco.

Ci soffermiamo a lungo su questo aspetto ed emerge che il periodo di lavorazione è stato lungo e a tratti si è rischiato l’overthinking. «Ci abbiamo ragionato molto, forse anche troppo, per come siamo fatti», dice Fabio. «La lavorazione è stata frammentata, ma il confronto è sempre stato costruttivo», aggiunge Marco. Insomma, è stata una faticaccia. Io invece avrei messo la mano sul fuoco che gli I Hate My Village rappresentassero una specie di comfort zone, uno spazio sicuro nel quale quattro musicisti talentuosi si sono trovati per condividere il puro piacere di suonare assieme. «È così, quando stiamo insieme stiamo bene ed è super stimolante», interviene Adriano. «Questa band per noi arriva in un’età adulta in cui l’approccio alla vita che abbiamo scelto si è ormai strutturato, sappiamo tutti e quattro cosa vogliamo».

La conversazione si fa animata. «Noi viviamo di comfort zone. Siamo dei privilegiati e questo vale per gli I Hate My Village come per gli altri progetti», sostiene Fabio. Marco non è d’accordo: «Per me non è una comfort zone e personalmente cerco di stare lontano da quella sensazione. Per come la vedo io, è un concetto che ha un’accezione negativa, è come dire che si tirano i remi in barca e invece col cazzo». Alberto aggiunge che «forse per il primo disco è stato così, ma adesso proprio no. Dobbiamo ancora iniziare a provare, altro che comfort zone…».

Foto: Simone Cecchetti

Questo dimostra che la band fa sul serio: non siamo di fronte a un side project. «Ora ci sentiamo una band e ragioniamo come tale. Non abbiamo mai smesso di pensare agli I Hate My Village in questi anni, anche durante la pandemia, ci siamo ritagliati degli appuntamenti fissi mensili per continuare a lavorare ai nuovi pezzi». E i nuovi pezzi, infatti, sono una bomba. Dico alla band che al momento il mio pezzo preferito è Erbaccia che cresce subdolamente come un brano dei Darkside, scatti e riverberi, una chitarra acustica in lontananza e degli assoli di chitarra che serpeggiano in uno scenario che diventa sempre più infernale. Anche in questo caso, ci mettiamo un po’ per capire di quale pezzo si tratta.

«Ah sì, quello era partito come un pezzo tuareg, e Alberto l’ha fatto diventare reggaeton», scherza Adriano. «Ah, è vero! Ho spostato tutti i tempi indietro di un quarto, ho fatto un casino, chi se ne frega dei tempi», dice Alberto. «Ma non è reggaeton adesso», precisa Marco. Discutono animatamente sulla ritmica. «La verità è che ci siamo dovuti smontare il cervello per strutturarla, ci abbiamo impiegato mesi, poi è arrivato qui Taylor Swift e ha cambiato tutto rendendola più occidentale», interviene Fabio, prendendosela con Alberto tra le risate generali. «Capisci perché Nevermind the Tempo?», conclude Alberto.

Questi sono gli I Hate My Village, quattro personalità molto diverse che hanno dato vita a uno dei progetti più interessanti venuti alla luce di recente in Italia. Sicuramente l’utilizzo più intrigante fatto ultimamente di una chitarra, il marchio di fabbrica dello stile di Viterbini, che dà libero sfogo alle combinazioni di note che, ne sono certo, infestano la sua testa di giorno e di notte. I flipper di riff che reggono pezzi come Italiapaura o Eno degrado ne sono l’ennesima testimonianza. Tuttavia in Nevermind the Tempo le chitarre non sono più le protagoniste assolute e c’è persino spazio per una conclusione al piano con l’introspettiva Broken Mic, forse l’apoteosi pop degli I Hate My Village, insieme al secondo singolo Jim, con il ritornello dell’estate: “Just wanna sleep when it’s time to get up / don’t wanna think I just wanna get out” (“Voglio andare a letto quando è il momento di svegliarsi / non voglio pensare voglio solo uscire di casa”). Ammesso che lo abbia interpretato bene, visto che i testi non sono volutamente disponibili e volutamente poco comprensibili, perché non è quello l’importante; il bello è che sono pieni di imperfezioni.

È pop forse, ma non perfetto, altrimenti diventa noioso. «Viviamo in un’era di perfezione, il nostro non voleva essere un gesto politico anche se lo può diventare. Siamo circondati da una quantità enorme di bravura, la vediamo ovunque anche sui social. Ci siamo chiesti spesso quale sia il limite, dove si innesca la creatività, se sono tutti bravi? Per noi a volte è l’errore. Come una poliziotta nasce da un errore, il nastro a una velocità diversa, e alla fine l’abbiamo tenuto così». Forse è questo che intendeva Marco prima con lo stare alla larga dalla comfort zone: spingersi verso qualcosa che non si può del tutto controllare. «Quando mi è arrivato il disco era perfetto, poi ho fatto saltare tutti i tempi», dice Alberto. Nevermind the Tempo, di nuovo. «Il tempo serve anche per pensare alle cose a lungo termine, non tutto deve essere compreso immediatamente, per cui torniamo di nuovo all’errore: una cosa può essere sbagliata in un certo momento, ma a distanza di tempo potrebbe non essere più tale», aggiunge Rondanini.

Foto: Simone Cecchetti

Twiggy, la cagnolina di Adriano che ci gironzola tra le gambe, è stata protagonista dello shooting insieme alla band e forse si è stufata di tutte le nostre chiacchiere. D’altra parte il nostro tempo sta per esaurirsi. Faccio un’ultima domanda: visto che il tempo è un concetto sopravvalutato, se poteste manipolarlo, cosa scegliereste di fare? Ci pensano un po’, poi prende la parola Fabio: «Istintivamente mi viene da dirti: andiamo avanti di 100 anni per vedere che è successo. Mi ritroverei probabilmente solo nel deserto». Adriano aggiunge che «sicuramente siamo proiettati sempre verso il futuro, ma senza pensarci troppo».

Il futuro imminente dice che è in arrivo un bel tour estivo. «Non abbiamo ancora suonato una nota assieme, dobbiamo capire come far rendere al meglio il disco dal vivo». Ma non è che per caso sono preoccupati? «No, preoccupati no, però eccitati sì», risponde Fabio. «Io invece sono preoccupato», dice Alberto.

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Foto: Simone Cecchetti
Producer: Maria Rosaria Cautilli
Art Director: Alex Calcatelli per Leftloft
Light Assistant: Gianmaria Cenciarelli per Mono Studio
Digital Specialist: Emiliana Aligeri per Mono Studio

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