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I Fontaines D.C. raccontano ‘Skinty Fia’ traccia per traccia

La mutazione dell’identità irlandese, l’amore come dipendenza, Joyce che aiuta a superare l’hangover. Grian Chatten spiega il nuovo album di una delle rock band più forti del momento

Foto: Filmawi

Grian Chatten è un irlandese che vive a Londra e in quanto tale va incontro a un sacco di rotture di palle. La gente per strada lo chiama Paddy, fa battute sull’IRA, gli dice “top o’ morning!” quand’è seduto a bere con la ragazza. Senza contare quelli che gli urlano di tornarsene a casa sua.

Sono tutte esperienze finite nel nuovo album dei Fontaines D.C. Skinty Fia che uscirà il 22 aprile. «Mi sono stupito anch’io di quanto sia influenzato dall’irlandesità in Inghilterra e da come essa sia mutata, diventando una nuova cultura».

I Fontaines D.C. sono esplosi nel 2019 con l’album Dogrel. Scritto a Dublino, ha fruttato una nomination ai Mercury Music Prize e ha conquistato i fan a botte di poesia e garage rock, una miscela caotica e brillante che ricorda i Fall o gli Sleaford Mods. Il secondo album, A Hero’s Death del 2020, è stato scritto per lo più in tour. L’hanno recensito tutti bene e ha avuto una nomination ai Grammy.

Spiega Chatten che Skinty Fia (una vecchia imprecazione irlandese che significa letteralmente “sia dannato il cervo”, vedi sotto) ha preso forma quando la band s’è ritrovata a Dublino durante la pandemia. È ispirato tra le altre cose da un vecchio accordion che la madre di Chatten gli ha regalato per Natale. «Me lo sono ritrovato per le mani e per un paio di giorni l’ho suonato senza sapere come farlo, ma ho capito che poteva essere uno spunto interessante».

Il resto del disco ha preso forma a Londra durante session notturne nella sala prove del gruppo. «È più salutare scrivere durante il giorno, è anche più facile. Abbiamo voluto vedere come sarebbe stato farlo di notte, ci piaceva il lato incognito della cosa».

Il risultato è un album in cui si mescolano il suono dell’accordion e dell’elettronica cupa, l’alternative rock dei ’90 e l’irlandesità. Col primo, sinistro singolo Jackie Down the Line già fuori, Chatten ci racconta l’album traccia per traccia.

“In ár gCroíthe go deo”

«Ho letto sul giornale di un’anziana irlandese che viveva a Coventry, in Inghilterra. Si chiamava Margaret Keane. Dopo la morte la famiglia ha voluto onorarne le radici irlandesi incidendo le parole “in ár gCroíthe go deo” sulla sua tomba. Significano “per sempre nei nostri cuori”, un messaggio tenero che però la Chiesa inglese ha ritenuto inopportuno poiché poteva essere letto come uno slogan politico. E insomma, hanno impedito che una frase in lingua irlandese apparisse sulla tomba d’una donna irlandese. La cosa scioccante, che mi sono tenuto per il finalino della storia, è che non è accaduto negli anni ’70, ma due anni fa, all’inizio della pandemia».

«È impressionante constatare come l’irlandesità sia ancora associata a cose tipo l’IRA e il terrorismo. Leggere quella notizia m’ha fatto capire cosa rischiavo a stare in un Paese che non considera benvenuti noi irlandesi, che non pensa siamo degni di fiducia. Molto dell’album viene da questi pensieri, da questi sentimenti. È una cosa che abbiamo vissuto anche a noi a Londra».

“Big Shot”

«È l’unico pezzo dell’album di cui non ho scritto il testo. È di Carlos [O’Connell], uno dei nostri chitarristi. Sono sicuro che lui sarebbe in grado di spiegarlo meglio di me, ma penso abbia anche fare con la lotta col suo ego, che è cambiato parecchio da quando siamo diventati una band di relativo successo. Parla del fatto che è diventato difficile separare ciò che è reale da ciò che è superficiale e materiale».

“How Cold Love Is”

«L’amore è un’arma a doppio taglio. Credo che questo pezzo abbia a che fare con la dipendenza, una cosa molto comune nelle famiglie, non solo la mia. Parla della dualità delle cose che ti danno conforto, calore, incoraggiamento, un senso di sicurezza. Ma allo stesso tempo ti impoveriscono».

«Perché si possa scrivere d’un argomento ci deve essere della tensione. Non m’interessa scrivere canzoni d’amore dirette, non sarei in grado di scrivere d’amore se non con un po’ di tensione o dualità. Non c’è speranza senza tragedia».

“Jackie Down the Line”

«In un mondo in cui è considerato importante essere bravi, ho voluto scrivere un pezzo dal punto di vista di una persona a cui non interessa essere bravo, né fingere d’esserlo. Se c’è una parola che riassume questa canzone, è “sventura”».

“Bloomsday”

«Avevo un rituale nel nostro ultimo tour nel Regno Unito. Conosci l’attore Andrew Scott? Ascoltavo il suo audiolibro di Gente di Dublino. Ogni giorno mi ricavavo un piccolo spazio e passavo un’ora così. Era una specie di meditazione e un bel modo per farsi passare l’hangover, che nel mio caso è sempre come un intorpidimento. Con la sua voce Andrew Scott mi tendeva la mano e mi accompagnava nel libro… e ho scoperto che così i postumi passavano in fretta. Alla fine di “Un caso pietoso” lo si sente piangere. Credo sia una cosa sincera, non avrebbe senso come scelta interpretativa, credo piagnesse sul serio».

«Nella canzone è come se inconsapevolmente stessi dicendo addio a Dublino. Dico che è l’ultima volta che ripercorro i passi di Joyce, Flann O’Brien e Patrick Kavanagh, che è l’ultima volta che cammino in quelle strade e apprezzo la pioggia, i pub, gli edifici di pietra, i fantasmi del passato. Tutte quelle cose mi influenzano ancora o hanno perso significato? Sto diventando insensibile? La canzone parla di questo, di questa grande tristezza».

“Roman Holiday”

«Credo che parli di uscire e accettare Londra in quanto irlandese. [Nel testo] cerco di convincere la mia ragazza a uscire e godersi la vita, un po’ come un’avventura, no? Quando in un nuovo Paese frequenti solo persone che vengono dal tuo stesso posto – la maggior parte dei miei amici sono di Dublino – a un certo punto ti innamori di quella situazione, ti piace far parte di un gruppo di persone un po’ bullizzate, quelli a cui dicono di tornare a casa. A un certo punto diventa tipo una medaglia, ecco di cosa parla la canzone. È una celebrazione del momento in cui una cosa negativa diventa positiva».

“The Couple Across the Way”

«Vivevo in un appartamento con la mia ragazza e dall’altra parte della strada c’era una coppia, una situazione tipo La finestra sul cortile. C’erano effettivamente un piccolo cortile e una coppia di anziani. Litigavano spesso e rumorosamente, li sentivamo urlare, sembrava volessero staccarsi la testa. Durante certi litigi, l’uomo usciva sul balcone, si guardava intorno e faceva un gran respiro, per riprendersi prima di rientrare a casa».

«Potevo mai resistere e non scriverne? Era come guardare un futuro possibile per me e la mia ragazza, e allo stesso tempo noi eravamo un loro possibile passato, un riflesso. Era una manifestazione fisica, una metafora dell’empatia».

“Skinty Fia”

«È un’espressione che usava sempre la prozia del nostro batterista. Lei è una di quelle persone che parlano solo irlandese e la usava come intercalare. Non l’avevo mai sentita prima, si usa al posto di un’imprecazione. La traduzione sarebbe “la dannazione del cervo”. Non so, suonava come qualcosa di inevitabile, una mutazione, mi ricordava tutte le cose che pensavo sugli irlandesi lontani da casa. Come quelli che sono a Boston, per me quella situazione è skinty fia. C’è una mutazione, qualcosa di nuovo, non di impuro, una bestia completamente diversa perché viene da una diaspora».

«Sono i temi che volevo esplorare nel disco. La canzone parla di una relazione maledetta, piena di alcol, droga e paranoia. In un certo senso qui mi sento così, come se incombesse l’apocalisse, ma non so perché».

“I Love You”

«È il titolo più ordinario che esista. E percò volevo scrivere una canzone proprio così, come sfida a me stesso. Volevo usare un cliché e renderlo interessante, mio, unico. Alla fine chiaramente è diventata un’altra canzone sull’Irlanda. A me sembra divisa in due parti. Ho costruito una carriera sull’idea di riconnettermi con la cultura del mio Paese: cerco di raccontarla, facendolo la capisco meglio e aiuto gli altri a fare lo stesso».

«Non vivo più nel mio Paese. Vivo in quello responsabile di gran parte del caos che c’è a casa mia, ora sto nel Paese che ci guarda dall’alto verso il basso. Mi sento in colpa per avere lasciato l’Irlanda. Mi sembra di averla abbandonata. Sopravvivrà senza di me, chiaro, ma mi sembra di aver preso un sacco di roba, creativamente, prima di andarmene. Provo uno strano senso di colpa».

“Nabokov”

«[Conor] Curley, il nostro chitarrista, ha scritto la musica e il titolo. Credo si sentisse consumato dallo spirito delle opere di Nabokov e volesse sfogarsi musicalmente. Aveva la musica e il titolo, così ho scritto io il testo, praticamente tutto d’un fiato. Credo che sia la versione perversa di… parla dei compromessi in una relazione».

«Esagera i compromessi necessari per far funzionare una storia, parlo di quando si sconfina nel patetico. Volevo mettermi nei panni di chi non ha più indipendenza assoluta e autonomia, come quando decidi che sei innamorato e vuoi condividere la tua vita con qualcuno. Ci sono versi come “Sarò il tuo cagnolino in un angolo, vorrei accenderti la sigaretta”. Volevo usare il racconto di questo stato di sottomissione per raccontare la necessità di certi compromessi».

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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