I Death SS e la discesa negli inferi della provincia italiana | Rolling Stone Italia
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I Death SS e la discesa negli inferi della provincia italiana

Shock rock da Pesaro. Steve Sylvester racconta com’è possibile coniugare occultismo e ironia. È una storia di chitarre e fumetti di serie B, zombie e croci infuocate, caos e magia. Una festa di Halloween senza fine

I Death SS e la discesa negli inferi della provincia italiana

I Death SS, con Steve Sylvester al centro

«Blasfemia, vilipendio alla religione, atti osceni in luogo pubblico». Steve Sylvester recita divertito come fosse un rosario «le solite cagate per cui sono stato convocato in questura. Ma le accuse le rimando sempre al mittente perché conosco il codice penale e so benissimo cosa posso fare e fin dove mi posso spingere». L’ultimo faccia a faccia con la legge risale all’agosto del 2018 dopo un concerto a Chiaromonte, in provincia di Potenza.

Altro che sei-sei-sei, il numero della Bestia. I Death SS sono sempre stati oltre e il loro numero magico è il sette: «La nostra storia inizia il 7 luglio 1977, ossia il giorno in cui ho incontrato Paolo Catena», racconta Steve Sylvester. «Poi si sono sviluppate altre cose legate a quel numero, qualcosa di più dello sdoganatissimo 6-6-6. Anche per via dei Sigilli, che sono sette». I 7 sigilli dell’Apocalisse.

Un’apocalisse musicale che esplode a Pesaro alla fine degli anni ’70, quando Stefano Silvestri e Paolo Catena formano i Death SS: scelgono con spiccata fantasia i rispettivi nomi d’arte – Steve Sylvester e Paul Chain – e battezzano così il primo gruppo horror rock italiano, riconosciuti pionieri underground di un genere che va da Alice Cooper a Marilyn Manson. Tanto devono i Death SS al primo, quanto il secondo deve a loro.

Il negromante del rock. Le origini dei Death SS è la nuova edizione di un libro – scritto dallo stesso Sylvester con il giornalista Gianni Della Cioppa e pubblicato da Tsunami – che racconta i primi anni del gruppo: una discesa negli inferi della provincia italiana a cui farà seguito La storia dei Death SS, un secondo volume atteso per maggio che ripercorre invece la seconda vita della band, dal 1987 a oggi. Oltre quarant’anni di musica estrema in Italia. Un manzoniano “In morte di Steve Sylvester”, questo significa il nome dell’unica band del nostro Paese che è riuscita a mettere insieme rock’n’roll, sesso, teatralità e occultismo, senza mai perdere di vista senso dell’umorismo e autoironia. Leggendo il libro e quest’intervista capirete che, come ripete spesso lo stesso Sylvester, «è difficile capire dove finisce la realtà e inizia la leggenda».

Sweet Home Pesaro

«Avrò avuto 10 anni e in un juke-box di quelli che andavano con 100 lire c’era Blockbuster degli Sweet», ricorda Steve Sylvester: «Misi la monetina e sentii questa canzone che iniziava con la sirena della polizia e quel riff di chitarra che mi conquistò immediatamente. Sono impazzito e ho comprato tutti i 45 giri degli Sweet che riuscivo a trovare nei negozi di Pesaro». Singoli come Ballroom Blitz ed Hellraiser, «che iniziava con esplosioni e urla. Per un bambino come me a cui piacevano le cose un po’ particolari, un po’ forti, è stato amore a prima vista. Rispetto a Sanremo, era davvero un altro mondo». Al piccolo Steve piacevano quindi il glam rock di Slade, Suzi Quatro, Gary Glitter; poi i film horror della Hammer e i fumetti erotico-orrorifici dell’epoca come Zora la vampira e Jacula.

Ma le cose dell’altro mondo che hanno contribuito a scrivere la peculiare storia dei Death SS sono altre, tipo l’eredità del bisnonno materno di Sylvester: «È morto a 102 anni nello stesso ospedale in cui sono nato io, lo stesso giorno. Su di lui ho sempre sentito leggende raccontate da mia mamma: toccava le persone malate e riusciva a guarirle, era un taumaturgo. E, guardando le sue cose, dentro di me si è acceso qualcosa».

Punk, zombie e fumetti

Nel 1977, ancora adolescente, Steve Sylvester era stato a Londra, toccando con mano la nascita del punk. «In Italia era arrivato solo qualche articolo folcloristico tramite giornali come Ciao 2001, ma su King’s Road ho visto i punk con i capelli colorati, mi avevano colpito tantissimo. C’era Sex, il negozio di Malcolm McLaren, dove avevo fatto incetta di spille. E poi ho comprato i dischi di Sex Pistols, Radiators from Space, Damned».

L’approccio fai da te del punk e l’estetica di gruppi come Sweet e Damned hanno influito tanto quanto cinema e fumetti horror sulla costruzione dell’immagine dei Death SS. I costumi del gruppo erano fatti in casa, ogni membro un personaggio: uno Zombie, l’Uomo lupo, la Mummia, la Morte interpretata dal chitarrista Paul Chain e lui, Steve, il cantante avvolto nel mantello da Vampiro glam, un Dave Vanian elevato al cubo, anzi, alla settima.

«Maghi, fattucchieri, cartomanti. All’epoca ce n’erano parecchi», ricorda Steve Sylvester. «Nella magia puoi fare anche studi da autodidatta, ma poi hai bisogno di qualcuno che ti guidi se vuoi fare le cose seriamente, e io volevo qualcuno che potesse farmi da mentore». Dopo il bisnonno, entra in scena il mago di Orciano: «Una persona molto colta, preparata, che mi ha preso sotto la sua ala e mi ha aiutato nella fase di iniziazione».

Fahrenheit 77

Fumetti di serie B ed esoterismo, film dell’orrore e formule magiche, rock’n’roll e sedute spiritiche. Questi sono i semi da cui sono nati i Death SS. Nonostante il nonno o forse proprio per questo, «mia mamma non era molto contenta», ricorda Sylvester. «I miei sono sempre stati cattolici praticanti: non hanno mai visto di buon occhio certe cose, ma erano anche persone intelligenti. Forse non approvavano, ma mi lasciavano fare».

Nella sua biografia, Steve Sylvester racconta che la madre gli bruciò più di qualche libro, arrivando a sottoporlo a un esorcismo, «un rituale quasi comico». E a proposito di comicità, Il negromante del rock snocciola altri momenti esilaranti, come quando Steve, durante uno dei primi concerti dei Death SS, lanciò una croce infuocata beccando in testa Gigi Sammarchi della coppia Gigi & Andrea, presentatori di quella serata.

Ovvio che Silvestri e Catena erano quelli strani del paese. E se non tutti potevano sapere che profanavano i cimiteri o facevano messe nere, era bastato il loro aspetto esteriore per trasformare i giovani Death SS negli innominabili: «Ci vestivamo di nero e quindi eravamo visti come iettatori. Ma non avrei mai immaginato che questa nomea si sarebbe trascinata per sempre. La superstizione è la madre di tutti i deficienti».

I Death SS sono riconosciuti come precursori dello shock rock, ma il loro nome non è mai realmente emerso dall’underground, frenato forse dalla fama di porta sfortuna: «Sicuramente, anche per questo», dice Steve: «Ho sempre pensato che la sfiga non esiste e se esiste colpisce chi se la merita. Ci ho scritto una canzone, Bad Luck. Ma mi dà anche abbastanza fastidio perché è una storia trita e ritrita».

Si rompe la catena

La prima parte della storia dei Death SS, quella raccontata da Il negromante del rock, dura cinque anni, dal 1977 al 1982, fino a quando si rompe il patto tra i due membri fondatori, Steve Sylvester e Paul Chain: «Eravamo adolescenti ed eravamo andati troppo oltre», spiega Sylvester. «Spingendo talmente tanto l’acceleratore sull’eccesso ci siamo auto-distrutti». Un pugno di concerti epici, una manciata di pezzi crudi da brivido, un’infinità di leggende.

Intorno al 2003, Paul Chain ha abbandonato il proprio nome d’arte, tranciando tutti i legami con il passato oscuro e tornando a essere semplicemente Paolo Catena. Steve Sylvester, oltre 40 anni dopo, ha intenzione di tornare a essere Stefano Silvestri? «No, perché sono in pace con me stesso. Chi vuole cambiare radicalmente e ripudia il suo stesso nome vuol dire che ha conflitti interni di accettazione. Io non rinnego niente».

In realtà, c’è una cosa della propria adolescenza e dei primi anni dei Death SS di cui Sylvester si è pentito: il maltrattamento degli animali. Gatti, cani, colombe. Non vi roviniamo la sorpresa, leggete il libro, ma – parlando di eccessi – altro che Ozzy Osbourne. Il giovane Steve si beccò la mononucleosi: «L’ho voluto scrivere pubblicamente per espiare l’unica cosa che mi fa soffrire. Poi sono diventato animalista, vegano. Un processo che, come spiegherò nel prossimo libro, è legato alla mia crescita filosofica ed esoterica».

La magia del caos

Classe 1960, Steve Sylvester parla pacato al telefono da Firenze. Come tutti quanti noi, è confinato in casa per via del coronavirus e, no, non facciamo battute sui pipistrelli. Il suo ultimo album si chiama Rock & Roll Armageddon: «Speriamo finisca presto, ma l’avevo già detto e non è che occorresse un profeta. L’uomo deve provare empatia per la natura: se la calpestiamo, lei di conseguenza si ribella».

Prima il bisnonno taumaturgo, poi il mago di Orciano e una serie di nomi più o meno popolari dell’occultismo che hanno segnato il viaggio dei Death SS. Ci siamo fatti spiegare da Steve Sylvester in cosa consiste la “magia del caos” di cui parla nella propria autobiografia: «È una corrente filosofica che attinge da diverse teorie, discipline, religioni. Prende quel che è adatto al singolo individuo e ne fa un calderone personalizzato».

Steve Sylvester usa proprio il termine “calderone”. È insomma una sorta di credo cucito su misura: «Prendi tutto quello che ti risulta buono nelle esperienze esoteriche, senza essere fidelizzato a una sola corrente di pensiero cristiana, buddista, satanica o massonica. Scegli le cose migliori secondo te e scopri che anche tra quelle più diverse ci sono sempre dei tratti di unione. Questa è la Chaos Magick».

Una strada verso altre dimensioni che è stata battuta da alcune rockstar: John Lennon, Jimmy Page, Mick Jagger, solo per citarne alcuni. Un percorso verso mondi interiori e ultraterreni segnato da personaggi come l’occultista Aleister Crowley, lo sciamano Alejandro Jodorowsky o il fondatore della Chiesa di Satana Anton LaVey, tutti citati come influenze dal negromante Steve Sylvester.

“Do what thou wilt”, fa’ ciò che vuoi, insegna Crowley. «Non è che tutto quel che ha scritto è religione», spiega Sylvester, «ma era una persona molto furba e intelligente, che in età vittoriana ha rotto con le correnti esoteriche dell’epoca e modernizzato rigide strutture della massoneria. Non a caso Lennon e Page ne hanno colto lo spirito tramutandolo in forme musicali. Mi piace la sua irriverenza e la carica ironica, che non sempre viene colta».

Jodorowsky ha invece collaborato con Steve Sylvester per Panic, album dei Death SS tributo al suo teatro Panico degli anni ’70: «Ha messo nelle sue opere una grande carica visionaria. È un personaggio complesso, colto, che ha fatto diverse cose di rottura combinando filosofia, arte, sesso. Anche lui come Crowley è stato un precursore, non può che starmi simpatico».

E infine LaVey: «Rappresenta il satanismo acido americano. Mi piace per quello che ha fatto a livello iconografico, la rappresentazione teatrale del satanismo con un senso di libertà che riprende alcune formule di Crowley. Non c’è un dio, ma al centro dell’universo c’è l’uomo. Preso con le molle, anche lui è stato un personaggio di rottura». Steve Sylvester parla di Crowley, Jodorowsky, LaVey, ma sembra descrivere se stesso.

Bare e suore

“Let the Sabbath begin”, che il sabba cominci, canta in una delle sue canzoni che apre i concerti. La musica e gli spettacoli live dei Death SS sono un accattivante calderone: heavy metal classico e virate industrial, bare scoperchiate e suore denudate, geometrie esoteriche, recite in latino, un freak show tra boia incappucciati e piogge di sangue. Una festa di Halloween senza fine.

Ogni tanto Steve Sylvester bestemmia, ma il demonio e non dio o Gesù Cristo: «L’ho mutuato dai fumetti sexy horror degli anni ’70. Come Dylan Dog dice “Giuda ballerino”, io dico “Porco Satana”, come Zora la vampira. Sono un personaggio che si diverte: molti miei atteggiamenti ed esternazioni sono volti in questo senso, c’è sempre un’irriverenza goliardica in quel che faccio, molta ironia». Quindi “porco Satana” non è una qualche bizzarra invocazione al contrario? «No, è vi dirò qualcosa di ancora più estremo», risponde Steve Sylvester. «Io non credo neanche nel demonio. Perché non è tutto bianco o tutto nero con contrapposizioni tipo Dio/Satana oppure Bene/Male. Ma c’è una forma di energia dentro di noi che viviamo e plasmiamo di volta in volta».

A un certo punto della propria autobiografia, tira in ballo Mick Jagger. Anche il cantante dei Rolling Stones si sarebbe sottoposto a un rito simile a quel patto magico stipulato da Sylvester grazie al mago di Orciano. Ce lo spiega così: «Non sono certo i classici patti con il diavolo che si vedono nei film dell’orrore. Ma esistono dei rituali che ti aiutano a progredire verso altri stati di conoscenza con l’apertura dei chakra».

E se nel libro gioca con i diversi esiti delle rispettive carriere – lui culto underground, Jagger rockstar – a noi spiega il viaggio interiore, tornando alla chiave di lettura di tutta la sua storia: «È un lavoro personalizzato, devi avere un mentore per passare al livello successivo. Si dice porti anche benefici a livello fisico: alcuni personaggi famosi sembrano più giovani della loro età. Ma bisogna capire dove finisce la realtà e inizia la leggenda».

Ampli a 11

Nel libro Il negromante del rock ci sono due contributi pop: i Manetti Bros, con cui Steve Sylvester ha collaborato per l’episodio “666” della serie L’ispettore Coliandro, e Carlo Lucarelli, esperto di misteri di ogni sorta e amante della musica dark. Un’ulteriore prova dell’influenza dei Death SS sulle sottoculture giovanili e annesso, inevitabile sconfinamento nelle pagine dei quotidiani tra costume e cronaca. «Per noi è stato tutto spontaneo», spiega Steve Sylvester: «Non ci eravamo posti il problema di creare qualcosa di nuovo. Ma molti ci hanno citati come fonte di ispirazione, un riconoscimento che non mi sarei mai aspettato: dal cantante dei Ghost che ha pubblicamente espresso la sua devozione per i Death SS ai Mahyem, anche se abbiamo poco a che spartire con i gruppi black metal».

Presente l’amplificatore che va a 11 del film Spinal Tap? Con Steve Sylvester è un po’ così. Da 6-6-6 a 7-7-7, e ogni tanto sembra davvero di dare i numeri. «Sarebbe lungo spiegarne la magia», dice Steve, «ma certi segni del destino sono legati alla triplice sequenza di un numero. Nel prossimo libro spiegherò il 4-4-4». Attenzione: è un numero che dai Death SS arriva a Jay-Z, il cui ultimo album si chiama proprio 4:44.

Alla fine, più che i sette sigilli dell’Apocalisse e la partita a scacchi con la morte, a noi viene in mente la pagina sette-sette-sette di Televideo con i sottotitoli per non udenti. Risposta con risata per niente satanica di Steve Sylvester: «Già, ma c’è sempre una spiegazione: chi non riesce a sentire la musica con le orecchie, può sempre ascoltarla in altro modo, per esempio con gli extra-sensi».

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