I Cani di Niccolò Contessa ora parlano d’amore | Rolling Stone Italia
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I Cani di Niccolò Contessa ora parlano d’amore

«Volevo fare un disco emotivo, ma senza melodrammi». Et voilà, è nato "Aurora"

"Aurora" è il terzo album de I Cani. Foto: Gianluca Moro

"Aurora" è il terzo album de I Cani. Foto: Gianluca Moro

Su Youtube, quanti milioni di migliaia di view fanno I Cani – al singolare, Niccolò Contessa? Sono accelerazionisti? Sono hipster? Sono sempre di Roma nord? Tranquilli, non abbiamo parlato di niente di tutto questo (cose che potete comunque trovare con facilità girando tra le bacheche di Facebook). Con quella che è, anche grazie ai social, una delle band italiane più “influenti”, abbiamo fatto la più classica delle interviste, partendo dall’uscita del nuovo album Aurora.

Non deve essere stato facile fare un disco che parla della fine di un amore per uno come te che, in qualche modo, il discorso amoroso ha sempre preferito decostruirlo…
In realtà Aurora non è esattamente un break up album.

Ci sono canzoni che parlano della rottura o che la evocano.
I pezzi di cui parli servono più a umanizzare certi aspetti che possono risultare freddi, come la questione cosmologica.

Già, è un disco space-cosmico – molto anni ’70 come riferimento – a partire proprio dal titolo dell’album. Ma la “cosmicità” sembra più funzionare come un colore, qualcosa che sta sullo sfondo, mentre trovo ci sia stato da parte tua un tentativo di spingersi verso la canzone d’amore.
Le canzoni d’amore non mi riuscivano, un tempo. In questo disco c’è forse meno immediatezza, meno aggressività adolescenziale, però credo di aver guadagnato in delicatezza.

C’è un lavoro di sottrazione nella costruzione dei beat, ma pure l’abbandono, nei testi, di una serie di riferimenti al contemporaneo: nomi di registi, personaggi, citazione di prodotti culturali e così via.
Quando è uscito Wes Anderson, scritto nel 2009 e pubblicato nel 2010, parlare di un personaggio contemporaneo mi era sembrato fresco e fico. Lo era rispetto alla canzone italiana, che aveva uno sguardo un po’ troppo generico e rivolto al passato, vintage. In questi ultimi cinque, sei anni, nel rap sono usciti un sacco di pezzi col nome di un personaggio nel titolo.

JCVD dei Club Dogo per Van Damme…
Rob Zombie di Noyz Narcos e Salmo, che mi piace pure.



In Baby soldato il linguaggio è più hip hop, più “contemporaneo” che nel resto del disco.
Baby soldato è ispirata a una persona vera, con un nome e cognome, ma mi sono allontanato dalla realtà fisica di quella persona. Un amico di Milano mi ha fatto notare che il marchio Louis Vuitton, che io cito nel brano, è un marchio per vecchi e che avrei dovuto citare qualcos’altro.

Ti ha fatto un’osservazione da rapper.
Ma a me non me ne fregava niente di parlare di moda, in quel punto del testo. Volevo raccontare solo il momento di sbandamento di una ragazza. Di tutta quella gara lì, a chi è più sul pezzo, a sapere cosa è di moda o meno. Per quanto sia un giochino a cui ho partecipato e che ho contribuito a popolarizzare.

Nei testi sembri parlare di te facendo bling bling delle debolezze e delle fragilità maschili.
Mi colpisce che usi questa parola, “maschile”, insomma che hai colto questo aspetto. Nei miei vecchi pezzi si sentiva che le canzoni erano scritte da un maschio. Stavolta invece ho voluto un po’ scardinare questa visione, in questo disco c’è molta femminilità. E forse questo è un modo di essere più sincronizzato con i tempi.

Lo spazio, il cosmo, l’aurora, le particelle: qual era la tua idea di disco?
Volevo fare un disco emotivo, senza sembrarlo. Anche i pezzi sentimentali dovevano restare freddi.

Era una tua necessità? Perché?
Non sono un tipo molto melodrammatico e mediterraneo, diciamo. Non amo le scene madri. Semmai, sono uno che si reprime. Perciò ho preferito dei suoni che mi restituissero questa idea di freddezza e repressione. Ho lavorato con un synth ibrido analogico digitale, che funzionava bene allo scopo di ricreare un mondo sonoro freddo, ma evocativo. Non ci sono stati ascolti che mi hanno particolarmente influenzato. Semmai, ho visto un documentario, Bitter Lake di Adam Curtis, sull’Afghanistan. E lì ho pensato: questa è l’estetica che voglio ricreare. Questo è il 2015. All’inizio di Bitter Lake, poi, c’è questo pezzo di Burial, Come Down to Us, un pezzo lunghissimo. Ecco, volevo intercettare quel vuoto, quelle atmosfere pulite e con molto riverbero.

Chi sono i tuoi riferimenti musicali in Italia?
Pop_X, direi.


Lui però, a differenza de I Cani, utilizza molto l’ironia.
In effetti siamo molto diversi. Per me lui è un esempio di creatività assoluta, più che altro, e una fonte d’ispirazione. È uno che ha diecimila idee al giorno. E magari se le sabota pure. In questi mesi, quando mi accorgevo che stavo per scadere in qualche scelta troppo convenzionale, mi sono spesso chiesto: e Pop_X, che cosa farebbe ora?

Ultimamente hai lavorato anche alla produzione del disco di Calcutta.
Calcutta è uno con cui ho passato molto tempo. I nostri due cicli mestruali, per usare un’espressione forte, si sono molto sincronizzati.

Su Mainstream, l’album di Calcutta, c’è stato molto dibattito, soprattutto sulle figure retoriche che compongono le canzoni, tipo: “Ho fatto una svastica in centro a Bologna, ma era solo per litigare”.
Credo che sia molto simile a me, da questo punto di vista. Io non sono uno stratega che pensa: “Ora voglio comunicare questo messaggio politico”. Quando invece ci si lascia andare, in modo più automatico, magari ti escono cose ideologicamente più povere, però sincere. Conta comunicare, non l’approvazione dello scrittore italiano impegnato. E comunque, sia nel caso delle mie canzoni che in quelle di Calcutta, viene fuori una visione del mondo che non è poi così apolitica.

In Aurora le droghe non sembrano più un modo di evadere la realtà, ma una specie di medicinale: le prendi per passare la serata.
È una cosa di cui mi sono accorto guardandomi in giro. Il sesso, la droga, sono argomenti sempre un po’ delicati. Io non conosco il tossico che si è rovinato la vita. Conosco persone che ne fanno un uso più o meno inquietante, tutto sommato recuperabili. È un fatto di cui prendo atto, non allegrissimo. Un aspetto della vita.

Qualche giorno fa ho incontrato gli Afterhours mentre stavano preparando il nuovo disco. Loro si lamentano del fatto che nella nuova scena musicale italiana c’è troppo individualismo. Che ne pensi?
È vero. È una cosa che esiste, ma non solo nella musica. Prendi il mondo del lavoro. Nessuno è iscritto al sindacato, in moltissimi non hanno un contratto vero e proprio o lavorano con partita IVA. Le occasioni di aggregazione tantomeno esistono. Questa generazione è diversa da quella degli Afterhours.

Niente più Sui giovani d’oggi ci scatarro su (canzone degli Afterhours del 1997, ndr)?

Ecco, oggi questo linguaggio, così come il rock, non ha più forza di comunicazione. Io ho cercato di fare un disco rinunciando al rock, senza il rumore che fa tanto macho e i capelli lunghi. Se poi ho fatto un disco che fa schifo agli Afterhours, sono contento: missione compiuta. Quando negli anni ’60 venivano fuori i rocker veri, non gli Afterhours, la generazione precedente, quella dei loro genitori si sentiva provocata da una musica senza valori. E oggi, invece, una certa vecchia musica, come quella degli Afterhours, sembra portatrice di valori mentre altra musica viene percepita come individualista, bieca, fredda. Fa parte del gioco.

Ci tieni a essere provocatorio?
Se non lo fossi, credo che non mi cagherebbe nessuno. Se facessi qualcosa di già digerito, come il rock o il grunge con le chitarre distorte, non credo che andrei molto lontano.

Non ti è venuto in mente di far uscire questo disco con il tuo nome, Niccolò Contessa?
No, per carità, sarebbe di una tristezza infinita. Quando i gruppi cambiano nome, è un momento che associo proprio alla fine, all’esaurimento delle idee.

Non ho mai capito il plurale de I Cani, visto che stai da solo.
Manco io. Forse perché mi piacciono i gruppi, non i solisti. Da piccolo tra i miei idoli c’erano i Nirvana, gli Smashing Pumpkins, i Sonic Youth.

Questo articolo è pubblicato in versione integrale su Rolling Stone di febbraio.
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Venerdì 6 maggio alle 21 i Cani si esibiranno negli studi di Radio2 per il loro primo concerto radiofonico nell’esclusiva Sala B di via Asiago con Pier Ferrantini e Carolina Di Domenico. È possibile seguire lo streaming sul sito ufficiale di Radio2.

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