I Black Lips sono la dimostrazione che il rock’n’roll non è morto | Rolling Stone Italia
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I Black Lips sono la dimostrazione che il rock’n’roll non è morto

Sdentati, sballati e osceni, hanno scritto il nuovo album ‘Sing In a World That Is Falling Apart’ in una tenda. Sono politicamente scorretti, ma non si spogliano più sul palco: «I tempi sono cambiati, ora ti mandano dritto in prigione»

I Black Lips sono la dimostrazione che il rock’n’roll non è morto

Il nuovo album dei Black Lips è 'Sing In a World That Is Falling Apart'

Foto: Dani Pujalte

Sdentati, caotici, inclini a fare gesti osceni sul palco: da vent’anni a questa parte, i Black Lips esistono per smentire chiunque osi dire che il rock’n’roll è morto. Quando incontro la band di Atlanta in un caffè di Hollywood, a Jared Swilley (voce e chitarra), hanno appena iniettato in vena una dose massiccia di vitamine per riprendersi dagli stravizi del tour. «Funziona, mi sento tutto pompato!» dice. Siamo qui per parlare di Sing In a World That Is Falling Apart, il loro nono, spassoso album: hook accattivanti e chitarre twangy per un’idea moderna di country music che incontra punk e rock psichedelico. Li sentiamo cantare di prostituzione maschile e rodei per carcerati, spesso in coro perché come spiega Jared «non c’è un Pavarotti tra noi, ci aiutiamo come in uno sport di squadra».

Se i Black Lips sono una band a cinque teste, e altrettanti frontmen, negli anni hanno subito diversi cambiamenti nella line up con la recente addizione della sassofonista Zumi Rosow, l’icona di moda che non ti aspetti. Gender neutral e senza un dente incisivo (come Jared, solo che lei se l’è limato finché non è caduto), Gucci le ha addirittura dedicato la borsetta Zumi. Spiega la sassofonista: «Alessandro Michele ha visto in me un differente senso di bellezza che serve a cambiare la percezione della gente».

Sing In a World That Is Falling Apart: il titolo mi fa pensare alla band del Titanic che continua a suonare mentre la nave affonda… 
Swilley: Noi lo percepiamo come un album ottimista, positivo, non pensiamo veramente che stia andando tutto a rotoli. In ogni momento storico si pensa una cosa del genere ma poi il mondo se la cava sempre.

Come nascono le nuove canzoni?
Alexander Cole: In genere scriviamo in studio, ma stavolta si è fatto diversamente: abbiamo montato una tenda dentro l’appartamento di un amico e l’abbiamo chiamata Song City. La regola era che non si poteva uscire finché non completavi una canzone, con il testo e tutto, una persona alla volta. Non volevamo perdere tempo e in questo modo non potevi raccontarti stronzate. A dirla così sembra un pigiama party, ma l’abbiamo presa molto seriamente: un album dura per sempre, anche quando te ne sei andato da questo mondo.

Siete tutti autori?
Swilley: Ciascuno di noi è in grado di scrivere, così c’è meno pressione sul singolo. Eppure questo è un album dal suono molto coeso; ci piace la democrazia ma solo quando funziona.

Foto: Yana Yatsuk

Dove avete registrato?
Cole: Qui a Los Angeles, al Valentine Studios, un luogo storico dove hanno inciso anche i Beach Boys, Bing Crosby, Franz Zappa… È un posto fantastico, ma negli anni ’70 l’hanno chiuso per un sacco di tempo. Siamo riusciti a utilizzarlo grazie a un amico che ha contattato la famiglia che lo gestiva e ha chiesto se si poteva rimettere in funzione. Non avevano toccato nulla lì dentro, era tutto preservato dai tempi. Per noi è stato come trovare il Santo Graal. Per questo l’album ha un sound così bello. Abbiamo anche potuto sfruttare strumenti usati in pezzi epici.

Un esempio?
Oakley Munson: L’organo di Just Dropped In (To See in What Condition My Condition Was In).  E poi c’era una bella energia, è stato come entrare in una macchina del tempo. 

Sembrate una band creativamente molto libera, sia quando vi producete da soli come in questo caso, che quando lavorate con star come Sean Lennon o Mark Ronson…
Swilley: Anche se ci dessero degli ordini, non saremmo in grado di eseguirli. Ho un problema con le regole, una malattia clinicamente diagnosticata come: “disturbo della sfida oppositiva”. Ma quando abbiamo lavorato con Sean o Mark eravamo felici di lasciarli fare perché ci fidavamo di loro.

Fate ancora cose come vomitare o spogliarvi sul palco?
Cole: Oggi non si può più, i tempi sono cambiati, ti mandano dritti in prigione!

Eppure apprezzo il vostro profilo Instagram così poco politicamente corretto…
Cole: Quella di oggi è una cultura stramba da navigare. Di certo la mania del PC non fa bene all’arte, è una forma di censura. Ma siamo andati nei casini un paio di volte quando hanno preso delle nostre frasi e le hanno portate fuori dal contesto, dunque ora ci stiamo più attenti.
Munson: Pazzesco se si pensa agli abusi subiti ai tempi della scuola per essere stati punk-rock, i modi orrendi con cui ci hanno chiamati solo perché avevamo capelli stupidi e vestiti strani. Ora invece basta dire una piccola cosa per finire nei casini. 
Zumi Rosow: Noi siamo semplicemente pro-non-essere-stronzi.

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