I Biffy Clyro tornano in Italia «per farvi sentire come ci sentivamo noi a 16 anni ai concerti» | Rolling Stone Italia
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I Biffy Clyro tornano in Italia «per farvi sentire come ci sentivamo noi a 16 anni ai concerti»

Intervista a Simon Neil, in attesa del concerto del 14 settembre a Milano: l’importanza dei live in un mondo in cui «scrivere buona musica non è più sufficiente», la «fusione sentimentale» col pubblico, il ricordo di Taylor Hawkins

I Biffy Clyro tornano in Italia «per farvi sentire come ci sentivamo noi a 16 anni ai concerti»

Biffy Clyro

Foto: Kevin J. Thomson

È davvero strano pensare che i Biffy Clyro siano in giro da un ventennio. Un arco di tempo passato a costruire una fanbase ormai smisurata, fatta di un pubblico devoto e adorante che ha reso la band un vero e proprio culto. Qualcosa di sbalorditivo, se pensiamo che i primi passi mossi dal gruppo risalgono forse al periodo più drammatico per la discografia mondiale, quando lo streaming legale era qualcosa di inimmaginabile e potevi solo rassegnarti al fatto che una volta i concerti servissero a promuovere gli album, mentre da lì in avanti sarebbe andata in modo totalmente opposto.

A ben vedere, però, è stata forse questa la vera fortuna dei Clyro, quella di aver capito subito di doversi conquistare tutto on the road, forti del vecchio principio secondo cui puoi essere fantastico in studio, ma se poi dal vivo fai cagare la gente piano piano ti abbandona. Cosa succede però quando tutto quello che hai costruito con sudore e passione viene spazzato via dal giorno alla notte? La fine delle cose che davamo ormai per scontate portano con sé depressione o, al contrario, maggiore convinzione? I due album usciti in epoca Covid in qualche modo rispondono alla domanda, ma riportano la questione sui binari iniziali.

Abbiamo incontrato Simon Neil e abbiamo parlato con lui dell’imminente ritorno in Italia, il 14 settembre al Carroponte di Sesto San Giovanni (Milano), dopo una sbornia (non solo figurata) di emozioni e sentimenti che pensava facessero ormai parte di una vita passata.

Per una band come la vostra, che ha fondato gran parte della propria fortuna sugli spettacoli dal vivo, cos’hanno significato gli ultimi anni?
Come tutte le band apparse all’inizio del nuovo millennio, abbiamo compreso in fretta che scrivere buona musica non sarebbe stato sufficiente. Anzi, le prospettive di allora, nonostante le case discografiche investissero ancora molto nelle band in cui credevano, erano scoraggianti. Noi però eravamo cresciuti nel periodo musicalmente più florido per la vendita di album, ma soprattutto in quello che poteva davvero essere considerato il momento culturalmente più elevato in musica da almeno un ventennio. E tutto quello avevamo amato l’avevamo anche vissuto sotto un palco. Il mio più grande obiettivo, oggi come allora, è sempre stato quello di far sentire anche uno solo dei presenti come mi ero sentito io a 16 anni.

Se però negli anni ’60 e ’70 si pensava di poter cambiare con la musica se non il mondo, almeno la cultura del tempo, negli anni di cui parli la cosa si era spostata più a livello personale. Cerco di cambiare una persona e magari col tempo le cose si muoveranno.
Proprio così. La vera differenza con gli anni ’60 è stata quella. Non so se si tratti di livelli differenti di consapevolezza o ingenuità, però sì, la rivoluzione che prima si pensava potesse essere culturale è diventata personale perché evoluzione e rivoluzione sono concetti strettamente connessi. Se prima si invitava la società a compiere quella rivoluzione, negli anni ’90 la prospettiva si è spostata sul singolo. Non con un’accezione solipsistica, intendiamoci. È diventata una questione interiore e forse quello è l’unico modo affinché poi ne avvenga anche una di altro tipo. Che la musica non possa cambiare il mondo è ormai evidente, ma resta la forma d’arte più potente. Nessun’altra forma d’arte tocca così in profondità l’uomo. E questa è una cosa impossibile da sottovalutare.

Certo che ritrovarsi così a lungo da soli e poi ripartire con un festival come Reading non dev’essere stato facile.
Il ritrovarsi completamente soli dopo tutto quel tempo vissuto in giro per il mondo ha creato inevitabilmente sentimenti contrastanti. Potevi pensare a un po’ di riposo, a un modo per recuperare energie, ma allo stesso tempo quel pensiero ti risultava sgradevole, perché intorno a noi stava avvenendo una sorta di apocalisse. Sei rimasto di più con la tua famiglia, ma di fatto la mia famiglia erano diventati i Biffy Clyro, quindi vivevo tutto come una continua contraddizione. In pratica abbiamo ricominciato a suonare in festival enormi, una cosa che se da un lato mi esaltava, dall’altro mi paralizzava completamente. Non ho dormito tre notti prima del concerto e ho bevuto senza sosta, fino a poco prima di salire sul palco. Poi ho pensato che in qualche modo chi stava di fronte a me doveva sentirsi nello stesso modo e questo ha fatto sì che la magia si ricreasse all’istante. La fusione sentimentale tra noi e il pubblico è sempre stata la nostra arma migliore.

L’effetto di cui parli può essere paradossalmente maggiore in Paesi in cui il vostro pubblico non raggiunge i numeri del Regno Unito.
Assolutamente sì. Anche per questo l’idea di ripartire così forte da un lato mi bloccava. È stupendo avere di fronte a sé tutta quella gente, ma quando le location si rimpiccioliscono, quando riesci a sentire persino gli odori di chi ti circonda, lì davvero mi sembra di tornare il sedicenne di cui parlavo prima. Anche perché in quelle occasioni tutto finisce per ricondursi all’essenza della musica. Riesci a ridere, a piangere insieme al tuo pubblico, puoi distinguerne i cambiamenti emotivi ed essersene travolto. Tutto è più semplice, dalle questioni tecniche a quelle tra noi musicisti, hai pienamente in mano la situazione e sai che chi è lì lo è solo per te. Poi è chiaro che vedere 100 mila persone che si agitano dà sensazioni altrettanto forti, ma rischi di perdere il contatto con te stesso e con la tua musica.

In questo senso, sono stati molti a scrivere di certe cose. Da Waters con The Wall al Cobain di In Bloom. Hai mai avvertito qualcosa del genere?
No. Ho provato a capire quello di cui parlavano. Soprattutto Cobain, che ho sempre sentito inevitabilmente più vicino a me e alla mia crescita umana e artistica. Ho compreso tutta l’amarezza di una persona che aveva vissuto gran parte della propria vita come un disadattato, rifiutato da chi aveva intorno e che poi, di colpo, si è trovato di fronte anche quelle persone che lo detestavano. Ho davvero immaginato il suo stato d’animo nel vedere le facce di chi l’aveva emarginato cantare Smells Like Teen Spirit. Così come ho pensato spesso al disco dei Pink Floyd e ai loro show. Per noi è stato tutto completamente diverso. Se vieni a vederci non vuoi assistere a uno spettacolo pirotecnico, vuoi solo vedere i Biffy Clyro. L’aspetto scenico dei Pink Floyd ha in qualche modo finito per attirare gente che della loro musica poteva anche fregarsene, proprio come successo nell’occasione che poi scatenò la furia di Waters. Il nostro pubblico è cresciuto insieme a noi, non ha iniziato a seguirci per una hit o per le scenografie degli show. Semmai perché qualcuno a loro vicino gliel’aveva consigliato. Non c’erano i presupposti per cui venisse a crearsi quel tipo di tensione.

Sì e credo che anche il vostro rapporto con il pubblico italiano sia la migliore delle conferme di quello che dici.
La nostra storia con il vostro pubblico è qualcosa di incredibile. Se escludi i nostri luoghi d’origine, nessun altro Paese ha sposato la causa nello stesso modo. E non si tratta delle solite cose, per altro verissime, che dicono sempre dell’Italia. È proprio una questione di sensibilità. Non è un caso che molti gruppi prima di noi abbiamo riscontrato un tale consenso, simile a quello dei posti da cui venivano, nel vostro Paese. Significa che avete la capacità o un’empatia tale da cogliere cose in anticipo. Per questo, ogni volta che mi chiedete che cosa dovete aspettarvi dal nostro prossimo concerto in Italia, io rispondo che sono io che non so mai cosa aspettarmi da voi.

Avete suonato a lungo in apertura dei Foo Fighters. Pensavo avreste partecipato al concerto-tributo a Taylor Hawkins.
Sarebbe stupendo partecipare e se Dave ci chiamasse annulleremmo qualsiasi impegno per esserci. Sono ancora sconvolto dalla sua scomparsa. Non era solo il batterista più talentuoso della sua generazione, era un uomo splendido. Aveva una capacità di farti sentire a tuo agio che non ho mai trovato in nessuno. Amava quello che faceva, amava la storia del rock fino alla follia. Sarà una sorta di Freddie Mercury Tribute, in un momento storico in cui una cosa del genere sembra far parte di un’epoca irraggiungibile. Per un fan dei Queen come lui non penso possa esserci paragone migliore.

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