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Hozier, il 24enne che ha battuto gli U2 (nella loro Irlanda)

A 15 anni imparava a suonare da autodidatta, ieri sera era sul palco di X Factor come grande ospite straniero. Storia di un musicista baciato dallo streaming

Se il nome Hozier non vi dice niente, ascoltate la sua Take me to church: probabilmente l’avete già sentita (è il brano più virale di sempre su Spotify) e se non l’avete mai sentita ve ne innamorerete (non ha niente a che fare con le zuccherose hit radiofoniche a cui siamo abituati).

Irlandese, 24 anni, timbro malinconico e testi degni di un poeta, è diventato famoso grazie al passaparola e a una manciata di struggenti canzoni, raccolte prima in alcuni EP e poi in un album intitolato semplicemente Hozier, che da noi uscirà a gennaio e che altrove ha già battuto ogni record. Ieri gli abbiamo rubato una mezz’ora, poco prima che salisse sul palco come ospite d’onore di X Factor Italia.

Eri iscritto al primo anno di università a Dublino, ma hai mollato tutto per tentare di ottenere un contratto discografico…
Già. Avevo finalmente l’opportunità di registrare un demo, ma i giorni in cui avrei dovuto farlo coincidevano con un esame importante: se lo avessi saltato avrei perso un anno intero, e alla fine ho deciso di saltarlo. È stata una decisione difficile e un po’ incosciente, ma sentivo che la cosa più importante per me non era terminare gli studi, ma scrivere canzoni.

Le tue canzoni, in effetti, sembrano scritte da una persona molto più matura di te. Quando hai cominciato?
A 15 anni, mentre imparavo a suonare la chitarra da autodidatta. Di solito ho bisogno di essere solo e in un luogo tranquillo quando scrivo, ma i testi possono arrivare ovunque, in qualsiasi momento.

I brani raccolti nei tuoi precedenti EP erano molto malinconici, ma per l’album hai deciso di aggiungere anche qualche pezzo più gioioso. Come mai?
Sai com’è, a volte la tua etichetta pretende che nel disco ci sia anche qualche brano che non faccia venire voglia di farsi del male! Sia chiaro, le canzoni allegre mi piacciono, ma non è facile per me scriverle: quelle tristi mi riescono meglio. E le mie più famose, come Take me to church o Sedated, le avevo scritte per me stesso, non per sfondare in radio.

Eppure in radio hai sfondato, e anche in classifica: in Irlanda hai perfino battuto gli U2.
Non me lo aspettavo, anche perché il loro album è stato distribuito gratuitamente su iTunes: hanno regalato milioni di copie alla gente e quindi nelle charts erano avvantaggiati. Io, invece, partivo da zero. In ogni caso Bono e The Edge l’hanno presa bene e hanno detto cose molto belle su di me. Tutto è bene quel che finisce bene!

Gli artisti che criticano il sistema hanno ottime ragioni, ma per me Spotify è un potenziale immenso

Devi la tua fama a Spotify. Di recente, però, molti tuoi colleghi hanno criticato la musica in streaming, come Taylor Swift (che ha deciso di ritirarsi da Spotify) o Aloe Blacc (che ha criticato pubblicamente Pandora per i miseri compensi che elargisce). Tu come la pensi?
Gli artisti che criticano il sistema hanno ottime ragioni, ma per me e per molti altri musicisti emergenti Spotify è un potenziale immenso, uno strumento di inestimabile valore. È un’ottima piattaforma per mettere in comunicazione quelli che vogliono ascoltare nuova musica con quelli che producono nuova musica. Penso che comunque con il tempo i compensi aumenteranno: la discografia deve ancora capire come uscire dalla crisi in cui è entrata 15 anni fa.

Ti trovi in Italia per partecipare a una puntata di X Factor: cosa ne pensi dei talent show?
In passato mi è stata offerta più volte l’occasione di partecipare come concorrente, ma ho sempre rifiutato. La verità è che io volevo soprattutto scrivere canzoni, e non trovarmi ogni sera nell’occhio del ciclone. L’industria musicale è già un posto abbastanza difficile in cui farsi strada, nei talent è ancora più dura, la maggior parte dei concorrenti vengono respinti o rifiutati. Non giudico chi decide di tentare la sorte così, ma non fa per me.

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