«Ho portato Lou Reed a mangiare le lasagne da mamma» | Rolling Stone Italia
Interviste Musica

«Ho portato Lou Reed a mangiare le lasagne da mamma»

Storia di Marc Urselli, ingegnere del suono italiano che lavora coi grandi: la fame vera durante la gavetta, Bono che litiga con Siri a casa di Julian Schnabel, le session con Jim Jarmusch e Lee Ranaldo

«Ho portato Lou Reed a mangiare le lasagne da mamma»

Lee Ranaldo, Jim Jarmusch, Marc Urselli, Balazs Pandi

Foto press

Essi esistono: si nascondo dietro le quinte, bevono litri di caffeina e passano giorni e notti intere dentro le proprie caverne (o studi di registrazione), per far sì che un disco abbia il miglior suono possibile. Se la figura dell’ingegnere del suono è fondamentale per gli addetti ai lavori, viene del tutto sottovalutata dal pubblico. Eppure, che l’ascoltatore se ne renda conto a livello conscio o meno, ciò che fa o disfa un album è proprio il sound.

Marc Urselli è uno specialista in materia, dallo studio casalingo costruito a 17 anni nello scantinato dei genitori a Grottaglie, in Puglia, al celebre EastSide di Manhattan di cui oggi è manager e capo ingegnere del suono, passando per sette nomination ai Grammy e tre vittorie. Spesso alla consolle anche degli Abbey Road Studios di Londra, Urselli negli anni ha registrato, mixato e prodotto una varietà di artisti sia della scena alternativa newyorkese (oltre 100 album con John Zorn), sia nomi come Foo Fighters, Lou Reed, Sting, Kesha, Buddy Guy e Nick Cave.

È un incontro fortuito con Jim Jarmusch a una fermata della metropolitana di New York a gettare il seme della loro futura collaborazione. «Mi sono avvicinato e gli ho ricordato che ci eravamo già conosciuti a un concerto di Nick Cave», spiega Urselli che, insieme al produttore e mentore Hal Willner (scomparso lo scorso anno in seguito a complicazioni dovute al Covid), ha registrato la versione di Cosmic Dancer di Nick Cave per AngelHeaded Hipster, il disco tributo a Marc Bolan e T.Rex. Con il regista di Daunbailò e Dead Man Urselli ha dunque dato vita a un inaspettato quartetto, completato da Lee Ranaldo dei Sonic Youth e dal batterista Balazs Pandi. L’11 giugno è uscito Churning of the Ocean, secondo e nuovo album firmato dai quattro artisti, prodotto da Urselli che suona anche il basso e synth. «Il mio consiglio, come per qualsiasi disco, è di ascoltarlo al buio, perché così ci si concentra solo sul suono, senza distrazioni. Il freddo e l’oscurità sono il fil rouge di questi album, come suggerisce anche la copertina dell’artista visuale italiana Sara D’Uva, ma non da intendersi in maniera macabra o dark».

Come nasce l’idea del quartetto?
L’idea mi è venuta durante un viaggio sulla Grande Muraglia Cinese, quando mi arrivò un messaggio dall’amico Balazs Pandi e nonostante il freddo infernale, tolsi i guanti per rispondergli. Balazs, che vive a Budapest, mi avvertiva che avrebbe passato qualche giorno a New York e siccome da tempo parlavamo di fare qualcosa insieme, mi sono messo a pensare. Un desiderio simile lo avevo anche con Jim Jarmusch e Lee Ranaldo e così ho messo insieme le cose e ho scritto immediatamente a entrambi che mi hanno dato subito una risposta positiva. Nell’arco di poche ore, dalla Grande Muraglia alla Grande Mela, abbiamo coordinato le date in cui tutti e quattro saremmo stati a New York e bloccato le date in gennaio. Ricordo la prima session: ciascuno parlava del freddo polare dei posti in cui eravamo stati: Lee era appena tornato dal Canada, Jim dall’Ohio, io dalla Cina e Balazs da Budapest. Il freddo è stato una sorta di catalizzatore per questo progetto.

Churning of the Ocean, in modo simile al vostro precedente album, evoca atmosfere notturne e pericolose con tutta la temerarietà dell’improvvisazione jazz. Come ci si prepara a incidere un album del genere?
Sembrerà strano o presuntuoso, ma la verità è che non ci si prepara affatto. Ogni registrazione è stata del tutto improvvisata, dal vivo, insieme e senza nessun tipo di sovraincisione. Ci siamo lasciati trasportare dalle onde sonore, un po’ come se fossero le onde dell’oceano. Invece di prepararci, ci siamo messi a nuotare e a usare le onde per galleggiare su melodie, idee e suoni. In quanto produttore, in fase di missaggio mi sono poi permesso di togliere qualche passaggio dove non eravamo perfettamente assieme, ma non ho aggiunto nulla.

Jim Jarmusch non è il primo nome che viene in mente quando si parla di musica: che tipo è lui?
È una persona squisita: dolce, disponibile, molto gentile e molto educato. È grande amante del jazz ed è venuto in studio a trovarmi mentre facevo dischi jazz con Bill Frisell o blues con Irma Thomas, di cui lui è un grande amante. Ogni tanto ci becchiamo per un caffè in una pasticceria francese a pochi isolati dall’EastSide Studio, che è vicino casa sua, per parlare di musica e progetti futuri: ce ne sono vari in cantiere. Ma lui tiene le due cose separate, intendo musica e cinema. Ha anche una grande passione per le chitarre e abbiamo scoperto che entrambi siamo possessori di due chitarre costruite dal liutaio newyorkese Rick Kelly: strumenti fantastici, realizzati con legni di stabili di New York City collezionati quando vengono demoliti o restaurati; ad esempio la mia è fatta con il legno del famoso Chelsea Hotel.

Da dove nasce la tua passione per i suoni?
Come credo quasi tutti i fonici, anche io sono stato prima un musicista: ho suonato in vari gruppi da quando ho 14 anni e il mio migliore amico d’infanzia è Vince Pastano, chitarrista, arrangiatore e produttore di Vasco Rossi, nonché turnista con Luca Carboni, e fondatore e produttore dei Malacarna. Con Vince ci conosciamo da quando avevamo 10 anni, siamo cresciuti a un isolato l’uno dall’altro, abbiamo messo su un gruppo insieme e suonato in vari progetti. Io ero quello che voleva sempre registrare le prove e quindi iniziai a comprare qualche attrezzatura di base, finché a 17 anni ho deciso di farlo più seriamente e ho costruito uno studio nello scantinato di casa dei miei genitori. Vince è stato il mio primo cliente insieme al suo gruppo di allora.

Hai lavorato insieme a Lou Reed per sette anni sia in veste di fonico in studio che live. Musicista geniale e imprescindibile ma anche imprendibile, nel senso che per il pubblico resta un personaggio misterioso. Qual è il ricordo più intenso che hai di lui fuori dallo studio?
Lou è stato una grande inspirazione per me, siamo diventati amici e capitava di uscire insieme a cena o a vedere qualche concerto a New York, dunque di storie e ricordi ce ne sono parecchi. Ma se dovessi citare il più bello al di fuori dello studio, penso a quella volta in cui lo portai a mangiare lasagne a casa dei miei genitori in Puglia senza dire loro chi sarebbe venuto a cena. Eravamo in tour con Laurie Anderson, grande artista e moglie di Lou, e avevamo una data al festival Time Zones a Bari, quindi ho affittato un pulmino dall’aeroporto e il giorno prima del concerto ho portato tutti dai miei a Grottaglie. Avevo detto a mia madre che Lou non mangiava glutine, così lei gli ha preparato una fettina di carne e insalata e per tutti gli altri, lasagne. Una volta seduti a tavola, Lou provò un boccone di lasagne dal piatto di Laurie e ricordo bene la sua faccia da birichino e il sorriso colpevole quando allontanò la fettina e avvicinò il piatto di Laurie per continuare a rubarle le lasagne.

Anni fa ero fotografa per una band durante un festival a Bordeaux e ricordo che in backstage non potevamo avere un bicchiere di vino in mano perché Lou, che suonava headliner, non voleva vederne. Così siamo finiti a bere un vino spaziale nascondendolo dentro tazze per caffè. Con gli amici era più tollerante?
Ricordo quel periodo. Credo che tutte le persone che hanno scelto la sobrietà non vogliano vedere vino perché potrebbe essere una tentazione forte all’inizio, ed è giusto che chi è intorno li rispetti. Agli inizi del mio rapporto con Lou, lui beveva ancora vino, ricordo che ordinava sempre un bianco di Gavi, anche se non l’ho mai visto esagerare, quindi non sapevo neppure avesse problemi di alcol. Ma a un certo punto decise di smettere di bere e quella regola esisteva sia per il backstage che per il tour bus. Io non bevo, quindi per me andava benissimo, ma credo che dopo un paio d’anni la situazione si rilassò, perché ricordo varie cene dove io e lui eravamo gli unici a non bere.

Marc Urselli. Foto: Trine Thybo

Com’è stato invece lavorare con gli U2?
Molto emozionante e molto stressante poiché la prima volta che ho lavorato con loro, è stato in uno studio a New Orleans che piuttosto sembrava una specie di salotto. Ho dovuto passare la mattina a rimuovere i divani e le poltrone del proprietario per fare spazio alla strumentazione, sotto gli occhi della security degli U2 che controllava tutto. Sapevo che una volta arrivata la band dovevo essere super pronto a tutto, perché loro si siedono e suonano, e come tutta la gente famosa, sono abituati a non dovere aspettare e ad avere tutto perfettamente funzionante. Infatti, così è stato, e dopo tre ore avevamo la registrazione del brano già terminata (Bang a Gong in AngelHeaded Hipster: The Songs of Marc Bolan & T-Rex, nda). La seconda volta che ho lavorato con loro è stato insieme a Elton John in Francia dove la situazione era molto più rilassata. Dopo avere finito piano e voce con Elton, siamo andati tutti a casa di Bono a pranzare insieme, c’era aria di festa per la bella session.

Puoi raccontarci qualche aneddoto divertente su Bono?
Forse è stata quella volta in cui ci siamo tutti ritrovati a casa del regista e pittore Julian Schnabel proprio poche settimane dopo la morte di Lou Reed: lui e Bono erano molto amici. Fu una specie di festa per celebrare la vita di Lou in cui tutti gli ospiti hanno raccontato un aneddoto o suonato una canzone, e se non ricordo male, Bono e The Edge fecero una versione chitarra e voce di Satellite of Love. Ero in salotto al fianco di Bono e mentre qualcuno raccontava il proprio ricordo, Bono si appoggiò al muro e così facendo deve aver premuto contro la parete il bottone dello smartphone che teneva nella tasca posteriore, facendo partire a tutto volume Siri che diceva: «Sorry, I didn’t get that…». Bono subito fece una battuta per sdrammatizzare e scusarsi per l’interruzione e risero tutti, che poi era quello che avrebbe voluto Lou.

Oggi basta un computer portatile per trasformare una qualsiasi stanza in uno studio di registrazione e incidere un album da Grammy Award – penso a Billie Eilish. La tecnologia ci ha resi più liberi o le difficoltà nel creare un album di successo restano le stesse di sempre?
È vero che la tecnologia è andata avanti tantissimo e si possono realizzare album come quelli di Billie Eilish in una stanza da letto, ma questo non vale per tutti i dischi. Senza nulla togliere al lavoro di Eilish, in casa si può fare un disco tutto programmato a cui poi aggiungi una voce, ma se vuoi registrare un gruppo, un’orchestra, o anche solo una batteria, uno studio vero suonerà sempre meglio, perché non bastano microfoni e schede audio per ottenere un grande sound. L’acustica di un posto è importantissima, come lo sono i pre-amplificatori dove vengono collegati quei microfoni, e tante altre piccole variabili che contribuiscono al suono di un disco. Ma soprattutto, è importante la performance e l’unione di spirito che avviene fra musicisti quando questi suonano insieme.

Se vogliamo che il futuro sia tutto fatto di dischi programmati in the box, allora possiamo sentirci liberi di abbracciare la tecnologia, ma se vogliamo continuare ad ascoltare vere performance di veri gruppi, di umani e non macchine, bisogna in maniera più assoluta preservare gli studi che abbiamo e usarli per fare dischi dove la gente suona insieme. Il mio album con Jarmusch, Ranaldo e Pandi non sarebbe mai stato possibile se non ci fosse stato uno studio come EastSide Sound che ci ha permesso di incontrarci ed esprimerci in maniera rilassata, con strumentazione e attrezzatura super professionale in un posto con un acustica fantastica.

Penso al tuo volo solo andata Grottaglie-New York, mosso da un sogno: quanto è stato difficile farsi valere?
Tantissimo. Era il 31 ottobre del 1999 quando presi quel volo Brindisi-Roma-New York. Avevo 22 anni e non ero mai neanche stato su un aereo. Avevo giusto visitato qualche città europea, quindi atterrare in una metropoli come New York, e per lo più il giorno di Halloween, fu un vero culture shock di dimensioni straordinarie. Ma è anche stata la migliore scelta che abbia mai effettuato nella mia vita. Farsi valere è stato durissimo. Non volevo pesare economicamente sui miei genitori, quindi ho radunato tutti i miei risparmi e mi sono preso una stanza in una casa con altre persone a un’ora da New York: era un semi-interrato sporco che si allagava ogni volta che pioveva. Ho dormito su un materasso ad aria perché non potevo permettermi un letto e quando pioveva, il materasso galleggiava. Ho fatto la fame. Mangiavo solo pasta a casa o hamburger e patatine al fast food, non uscivo mai a vedere un concerto o un museo. Stavo in studio tutto il giorno, turni dalle 12 o 18 ore, in pratica non facevo altro. Questo ogni giorno per due anni, senza percepire alcuna paga, al fine di farmi valere e notare dai proprietari dello studio. Dopo un paio d’anni ho fatto la mia prima session con Luther Vandross e da li è partito tutto, lentamente. Adesso sono l’ingegnere del suono e manager di quello stesso studio dove ho iniziato come assistente-stagista.

New York City è una città che ispira e una città che trasforma. In che modo ti ha cambiato sia dal punto di vista personale che quello lavorativo?
In ogni modo. È proprio vero che l’ispirazione e la trasformazione che questa città offre a livello personale e interiore, sono profonde e durature. Non credo che dopo 20 e passa anni a New York potrei mai tornare in Italia, e neanche andare a vivere altrove. New York ti mette le famose manette d’oro perché una volta che ci hai vissuto, pensi a tutte le altre città e nessuna regge il paragone. New York è fantastica, la gente è intelligente e ambiziosa: tutti hanno un sogno e tutti lo inseguono. Nessuno sta ad aspettare la mano del Signore o dello Stato. La gente ha voglia di fare e fa. Nessuno sta fermo. È piena di cultura e di arte, si parlano 800 lingue e tutti convivono pacificamente, indipendentemente da credi religiosi, colore della pelle o provenienza geografica. È un posto che riconosce il duro lavoro e lo premia. È il posto giusto per chi vuole farsi valere e non ha paura di fare sacrifici.