Hip hop, soul e impegno politico: Davide Shorty racconta 'fusion.' | Rolling Stone Italia
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Hip hop, soul e impegno politico: Davide Shorty racconta ‘fusion.’

Dopo Sanremo, il musicista torna con un disco in equilibrio tra generi diversi, che parla d’amore e anche di razzismo: «Siamo in emergenza, tutti gli artisti devono prendersi delle responsabilità»

Hip hop, soul e impegno politico: Davide Shorty racconta ‘fusion.’

Davide Shorty

Foto: Ambra Parola

Incontriamo Davide Shorty non in un’asettica finestra di Zoom, come ormai capita con quasi tutte le interviste in tempi di pandemia, ma – udite udite – in un vero live club, il Biko, cuore pulsante della scena funk, soul e jazz milanese. Purtroppo è vuoto, a parte una manciata di persone al lavoro sul progetto Gli Spettacolari, nato da un’idea dello staff del Biko e del collettivo Soul Circus: una serie di concerti filmati proprio in questa storica location per supportare artisti e locale fermi da più di un anno a causa della pandemia. Già solo il soundcheck è una gioia per le orecchie: Shorty e il suo tastierista, Claudio Guarcello, passano con una disinvoltura disarmante dai loro pezzi a standard jazz come In a Sentimental Mood o classici come I Wanna Rock With You di Michael Jackson, senza perdere un colpo e con una sintonia perfetta. E quando non sono impegnati a dare fondo al canzoniere della musica black mondiale si buttano in una lunga jam session piano, chitarra e voce che vorresti non finisse mai. Sul concerto non vi anticipiamo niente, se non che vale assolutamente la pena acquistare un biglietto (potete farlo a questo link, dove trovate anche tutte le altre session già realizzate).

D’altra parte, il talento di questo poliedrico artista palermitano trapiantato a Londra, apprezzato a livello internazionale e perennemente a cavallo tra jazz, soul e hip hop era cosa già ben nota. Dopo anni di gavetta e studio si è fatto conoscere dal grande pubblico nel 2015, classificandosi terzo a X Factor. Anziché inseguire il successo commerciale, ha proseguito un percorso di ricerca e di eccellenza che lo ha portato alla realizzazione di un album di debutto che è un gioiellino, Straniero (uscito nel 2017 per Macro Beats Records) e a due progetti discografici con il collettivo Funk Shui. Il destino lo ha poi condotto fino a Sanremo 2021 con il brano Regina, dove misteriosamente ha partecipato tra i giovani, nonostante un’esperienza più che decennale ad altissimi livelli. Speriamo che il suo secondo posto e i tre premi vinti – quello della sala stampa Lucio Dalla, il Premio Lunezia e il Premio Enzo Jannacci – siano sufficienti a convincere gli organizzatori a dargli il posto che meriterebbe tra i big, la prossima volta. Non siamo qui per parlare di questo, in realtà, ma del suo nuovo album, fusion. (in uscita per Totally Imported), che promette di essere una delle uscite più interessanti del 2021, sia nel suo genere che in assoluto. Ma è quasi d’obbligo ripartire proprio da lì.

Impossibile non chiedertelo: com’è stato partecipare a Sanremo tra i giovani pur essendo già un veterano, oltretutto nell’annata più “giovane” della storia della kermesse?
Non percepisco competizione nella musica, a parte in contesti molto specifici come le battle di freestyle: faccio la mia cosa e non sto a paragonarmi ad altri, neanche in una gara canora. Dietro Sanremo e manifestazioni simili ci sono ovviamente dinamiche legate ai numeri, una cosa con cui ormai ho fatto pace da un bel po’, anche se ci ho messo del tempo. So che ciascuno ha il proprio percorso, e so che farmi capire in Italia è un processo lungo, anche per una questione di generi e di cultura musicale del pubblico. La cosa importante, e di cui sono stato molto contento, era avere la possibilità di salire su quel palco a raccontare la mia storia. Inoltre quella di Ama Sanremo, dove sono stati selezionati gli artisti che sarebbero poi stati in gara, è stata un’esperienza bellissima, anche perché mi ha dato la possibilità di trascorrere due mesi a Roma: a causa della pandemia non potevo fare avanti e indietro da Londra, e durante la mia permanenza lì ho avuto modo di conoscere un sacco di persone nuove, di legare con gli altri concorrenti e di insegnare all’Accademia Romana di Musica.

Il titolo dell’album è in un certo senso legato proprio ad Ama Sanremo, e non è privo di ironia. Vuoi spiegarlo a chi non avesse seguito tutta la vicenda?
Certo! Innanzitutto è importante fare una precisazione da pillicuso, come diciamo in Sicilia, e sottolineare che il titolo è fusion. tutto minuscolo e si pronuncia “fusion, punto”. Come a dire che non c’è bisogno di spiegarlo, che non me ne vergogno. È una critica che mi era stata mossa in diretta tv da uno dei giudici di Ama Sanremo (Morgan, nda): “Tu sei fusion”. Non si capiva se lo dicesse in senso letterale o metaforico, perché la fusion è un genere musicale, ma non c’entra con me: a farla è gente come i Return to Forever, Al Jarreau, gli Yellow Jacket, io faccio hip hop-soul che è un’altra cosa. Diciamo che nello stesso discorso venivano nominati sia Miles Davis che Marcella Bella, per cui immagino fosse in senso metaforico e con un’accezione negativa… (ride)

In effetti non tutti i giudici di Ama Sanremo sono stati particolarmente teneri con te…
Uno di loro mi ha detto che il testo di Regina era tra il naïf e lo psicologico. Mi ha consigliato di leggere qualche libro per migliorare la mia scrittura… (ride; il giudice in questione era Piero Pelù, nda) Per fortuna poi, quando sono entrato in gara, ho vinto il premio Lunezia per il valore musical-letterario. Che tra l’altro aveva vinto anche lui in un’annata precedente, quindi ora siamo colleghi!

Foto: Ambra Parola

Ti sei fatto un’idea del perché di tutta questa difficoltà nel farti comprendere non solo dal grande pubblico, ma anche da una parte degli addetti ai lavori?
In Italia la complessità è un problema, dal punto di vista discografico e del mercato, perciò se ti dicono che hai tante influenze diverse, spesso non la intendono come una lode. Io però non posso essere nient’altro che questo, fin dalla nascita: la Sicilia è un calderone di tantissime culture diverse e di contrapposizioni, basti pensare all’architettura arabo-normanna, che sembra quasi un paradosso! Io adoro il jazz, l’hip hop, il soul, il cantautorato italiano di Tenco e De André, e nella mia musica cerco di unire tutto ciò che mi piace. Perciò sì, in questo senso sono fusion. E non lo percepisco come un insulto.

In effetti anche la tracklist dà l’impressione che nell’album possa succedere davvero di tutto: apri con Monocromo, un brano rap, e chiudi con una traccia sperimentale ed estremamente evocativa cantata in dialetto, Abbannìa, con Alessio Bondì e Roy Paci.
Quei due brani sono proprio i poli opposti. Monocromo l’ho scritto in un momento di urgenza espressiva: avevo una cartella di beat di Dario Bass, ne ho messo in loop uno e ho scritto di getto la prima strofa, mentre la seconda mi è uscita una mattina a New York, dopo essere salito sul palco del Blue Note con Robert Glasper, un’esperienza da pelle d’oca, che non riesco ancora a descrivere a parole. Abbannìa, invece, è un pezzo da sette minuti, che spezza il cuore. È nato nello studio dove siamo andati a registrare il disco, una specie di paradiso terrestre vicino al Lago Maggiore dove facevamo musica 24 ore su 24. Mi ero appena svegliato, i ragazzi jammavano e io ero ancora mezzo addormentato. Avevo in mente la scena di un naufragio in mezzo al mare, una cosa per niente piacevole, insomma. Stavo malissimo. Per sfogarmi ho cominciato a scrivere in dialetto, ma senza pensare che sarebbe diventata una canzone, inizialmente. Poi a un certo punto mi sono riscosso dal torpore e l’abbiamo registrata, one take. È tutto improvvisato, in presa diretta: abbiamo aggiunto solo il contributo di Roy e Alessio.

A proposito di naufragio, ci sono dei brani che magari qualcuno non si aspetterebbe da un disco come il tuo, come Tuttoporto, in cui critichi ferocemente chi vorrebbe bloccare il salvataggio dei migranti in mare. Con tanto di evidentissimo riferimento alla Lega e alle parole spesso pronunciate dal suo leader…
Non a caso a livello di numeri è uno dei pezzi meno ascoltati, tra quelli usciti finora: l’impegno non sempre paga. Ma io ho una piattaforma e voglio usarla per parlare delle cose che mi stanno a cuore: ritengo che ci sia un’emergenza e che viviamo in una società sistemicamente razzista, perciò dobbiamo prenderci le nostre responsabilità. Il nome della mia città, Palermo deriva dall’espressione greca Panormos, che vuol dire proprio “Tutto porto”; mi è venuto spontaneo chiudere la rima con “Tu apri la mente, brutto porco”. A un certo punto mio papà, ascoltando la canzone prima che uscisse, si è preoccupato. “Ma non è che ti prendi una querela? Perché non dici che che va tutto storto, anziché dire che è un brutto porco?” (ride). Non è la prima e non sarà l’ultima volta che mi esporrò su temi che mi stanno a cuore, comunque. Da persona bianca, che è nata con un privilegio che non si è mai guadagnata e ne trae beneficio ogni giorno, è giusto parlare di queste cose e di mettere all’indice chi dice cose che non vanno bene.

E a proposito di questo in un altro brano, Non respiro, hai parlato di George Floyd, l’ormai celeberrimo (suo malgrado) cittadino nero e disarmato ucciso per mano di un poliziotto a Minneapolis.
Anche quello è uno dei meno ascoltati del disco, finora. Detesto quando la gente mi dice “Sei un artista, pensa a cantare e non parlare di cose che non ti competono”: succede molto spesso. Un giorno ho condiviso un post sui social e per usare un linguaggio inclusivo ho usato gli asterischi finali, anziché la desinenza maschile o femminile. Un mio fan mi ha scritto “Ecco, anche tu con questa storia dell’asterisco: mi spiace che ti sia bruciato anche tu”. Con queste persone cerco di parlarci, perché mi interessa capire da dove parte questo abbruttimento. Ma non sempre funziona.

Parlando invece di collaborazioni, ce n’è una particolarmente inaspettata: quella per Non si mangia una canzone, con il trombonista Gianluca Petrella e con dj Gruff, ex Sangue Misto e genio dell’hip hop italiano notoriamente molto difficile da coinvolgere. Come sei riuscito a convincerlo?
È stato inaspettato anche per me, un vero allineamento di pianeti! La sintonia con Gruff è nata grazie a un amico comune, l’attore Corrado Fortuna. È stato lui a parlargli di me, e un bel giorno mi sono ritrovato un suo messaggio su Whatsapp. Poco dopo parlavamo al telefono, e da lì è nato tutto. Per me è stato un onore immenso, io sono cresciuto con l’hip hop italiano e dischi come SXM o La Rapadopa sono la Bibbia. Nel frattempo avevo conosciuto Gianluca Petrella, che da tempo collaborava già con Gruff, e provare a coinvolgerli sullo stesso brano mi sembrava la cosa più giusta e bella da fare. E così è stato. Tutto bellissimo, davvero.

Ci sono parecchi featuring nell’album, molti dei quali sconosciuti al grande pubblico, come Sans Soucis o David Blank. Ce li presenti?
Sans Soucis è la mia cantante italiana preferita, al momento. Ha un dono immenso, una voce dalle sfumature particolarissime e una penna pazzesca. È originaria di Modena, sua mamma è congolese e suo papà italiano. Anche lei vive a Londra, perciò ho avuto modo di frequentarla parecchio e di passare del tempo in studio con lei: è una grande produttrice, ed essendo io un nerd del beatmaking mi lascia sempre a bocca aperta! Quando si parla della cosiddetta black excellence, vorrei che la gente sapesse che esiste anche nella musica italiana, e che lei rientra in questa categoria a tutti gli effetti. E sempre a proposito di black excellence, anche David Blank ne fa parte a pieno diritto: è un cantante incredibile, che alterna una potenza vocale mostruosa a sfumature delicatissime. Per me incarna la libertà dell’essere fedele a se stesso sempre. Se lo conosci di persona ti dà l’impressione di essere il fratellino minore di tutti noi, ma sul palco si trasforma, diventa una roccia. E in effetti è quasi un supereroe, perché in Italia essere un uomo nero e queer è doppiamente complicato. Entrambi stanno per uscire con i loro primi EP, tra l’altro: quello di Sans Soucis si intitola On Time for Her, e quello di David Blank Exhale.

Ultimissima domanda prima di lasciarti suonare: come ci si sente a risalire sul palco per un concerto, anche se solo virtuale?
Non sembra, ma sono terrorizzato. Ho aspettato talmente tanto questo momento che in questi giorni non sono riuscito a chiudere occhio!

(Spoiler: il risultato è stato straordinario)

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