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Hayley Williams, c’è vita (e ci sono i Paramore) dopo la depressione

Il 2023 è stato un anno d’oro per la band. Dietro a questa storia di successo ci sono litigi, cambi di formazione, ansia, paura di affrontare il mondo. La nostra intervista

Foto: Christopher Polk/Penske Media via Getty Images

La sera prima che uscisse This Is Why, i Paramore hanno condiviso un elenco delle cose che avevano per la testa mentre lavoravano all’album: agorafobia, claustrofobia, American Psycho. A un certo punto scrivevano: «Ci sfugge ancora la differenza tra egoismo e autoconservazione».

«Realizzare This Is Why non è stata un’esperienza piacevole per nessuno di noi», spiega Hayley Williams. C’entra la preoccupazione per la pandemia, ma anche la sensazione di incertezza che negli ultimi 20 anni ha braccato i Paramore. This Is Why, che segue il disco del cambiamento radicale After Laughter del 2017, è anche il primo album della band ad avere la stessa formazione di quello precedente: Williams con Zac Farro e Taylor York. Quando i Paramore hanno ricevuto una candidatura come migliori nuovi artisti ai Grammy del 2008, York non era ancora nel gruppo. Quando nel 2015 hanno portato a casa il premio per la miglior canzone rock con Ain’t It Fun, Farro non c’era a causa di un litigio furioso avvenuto cinque anni prima.

«Siamo cresciuti assieme, conosciamo i nostri lati peggiori e ci vogliamo ancora bene», dice Williams. «Voglio dire, guardate tutti i casini che abbiamo passato. Ci siamo sciolti un milione di volte. E con Zac ci siamo ritrovati. Tutto ciò mi dà la spinta per continuare. Mi emoziona pensare che arrivare fin qui era un tempo inimmaginabile. Che cazzo può ancora succedere nei prossimi 20 anni? Non lo sappiamo».

This Is Why pone tante domande, spesso quelle a cui non si può dare risposta. Durante la lavorazione del disco hai imparato qualcosa sul tuo conto che ti ha sorpresa?
Che sono capace di sopportare un sacco di disagi. Io sono sempre alla ricerca di certezze, in parte è dovuto a vicende famigliari. Crescendo ho avuto tanto amore, ma la situazione della mia famiglia era disastrosa. Quindi crescendo, e soprattutto dopo il successo dei Paramore, mi sono detta: creerò uno spazio tutto per me, dove sentirmi a casa, al sicuro. Non deve essere chissà cosa, ma deve farmi sentire a mio agio e protetta: la serenità è uno dei miei valori fondamentali. Sono sempre lì che mi domando: qual è la via più sicura? E questo non sempre mi ha aiutata. Anzi, mi ha impedito di crescere.

In che misura This Is Why è il prodotto delle riflessioni nate dopo After Laughter?
Avevo perso il contatto con me stessa, mi ero proprio lasciata andare. Non ero più entusiasta della vita e questo perché ero ferita, sentivo del dolore dentro. Sono stata onesta nello scrivere quel disco, non avevo nulla da perdere. Ma non ero del tutto consapevole di ciò di cui parlavo, ad esempio non sapevo nulla della depressione. Non sapevo un cazzo del disturbo post traumatico da stress: credevo fosse qualcosa di cui soffrivi al ritorno da una guerra. Quando abbiamo finito il disco, ho iniziato a sentirmi a mio agio a parlare di ciò che potevo avere: la depressione.

Poi la depressione mi è stata effettivamente diagnosticata e ho cercato di prendermi cura di me stessa. Si dice che rabbia e depressione siano strettamente collegate perché la seconda scatena la prima verso te stessa. Credo che nel disco ci sia un po’ di quella rabbia mescolata alla consapevolezza di quanto sia frustrante svegliarsi depressi ogni giorno: depressione per le scelte fatte, depressione per la condizione in cui versa il mondo, depressione per le relazioni e i legami che non ci sono più o perché non si ha più un obiettivo. Sono cose belle pesanti che non puoi controllare. Quindi aver capito quel che avevo e affrontarlo mi ha portato a cantare in This Is Why di angoscia, ansia, preoccupazione.

Foto: Lindsey Byrnes

Per la prima volta la formazione dei Paramore non è cambiata tra un album e l’altro. Avete fatto cinque dischi negli ultimi 20 anni: riuscite ancora a sorprendervi a vicenda?
Oh mio Dio, sì. In qualche modo, a 30 anni, abbiamo ancora la capacità di comportarci come a 11, 12 e 13, quando ci siamo conosciuti. Ci capita ancora di bisticciare in studio, a volte ci imbarazza proporre un’idea agli altri, ma ci miglioriamo a vicenda. Zac ha pubblicato il nuovo disco degli Half Noise, è un autore sorprendente, scrive melodie di cui sono invidiosa e a volte mi dico: porca miseria, perché non ci ho pensato io? Taylor scrive cose e ce le propone, ma io ho sempre paura di non capire come cazzo potrei cantarci sopra. Non mi mettono solo alla prova, mi insegnano anche molto e impariamo tutti gli uni dagli altri. Mi sento sempre in bilico fra la stessa sensazione di sfida e soggezione che provavo da bambina, quando li ho conosciuti, e il sentirmi motivata da loro, perché credono in me e ci fidiamo l’uno dell’altro.

Siete stati candidati ai Grammy del 2008 e nel 2015 avete vinto per la miglior canzone rock. Che significato hanno oggi questi riconoscimenti?
L’unica volta che non ci siamo presentati è stata quando abbiamo vinto: è buffo. Ma non importa. Non ho nessuna remora nel dire che ora vorremmo vincere per Zac. Alla fine non è per questa roba che ci si chiude in studio a sbattere la testa contro il muro per cercare di fare della grande arte, giusto? Però Zac non ha mai vissuto questa esperienza con noi. Zac è stato il primo amico appassionato di musica che ho avuto, coi CD masterizzati dei nostri gruppi preferiti. Abbiamo imparato insieme a stare in una band, abbiamo imparato a essere amici. Abbiamo conosciuto Taylor quello stesso anno, era il 2002. Dopo tutto quello che abbiamo passato, quando Zac è rientrato nella band dopo sei anni di assenza ha significato anche ritrovare noi stessi. Ci è stata restituita una parte della nostra infanzia, quella cosa che ci ha reso ciò che eravamo. E quando siamo insieme abbiamo dei superpoteri. Sappiamo bene che non ha alcuna importanza se non vinci, rimani comunque te stesso e sei in grado di fare grande arte indipendentemente dalle pacche sulle spalle che ricevi. Ma, cazzo, vogliamo vivere questa esperienza oggi, con Zac, che è preziosissimo per la band dal punto di vista creativo e come persona. Questa è la verità. Non è sempre bello dire «vogliamo vincere», ma ci piacerebbe.

I Paramore sono considerati un gruppo rock, ma il vostro suono è fluido. Cosa ricordi di aver provato quando avete vinto il premio per la miglior canzone rock con Ain’t It Fun, che contiene elementi pop e gospel?
Ero in Europa quando ho saputo che eravamo stati candidati: non potevo crederci, fino a quel momento avevo cercato di non pensare per niente alle nomination. E poi, quando abbiamo vinto, non ci siamo andati. Ho ricevuto un messaggio da Taylor Swift e Taylor York nel giro di 30 secondi. Lei mi ha scritto tutto in maiuscolo qualcosa tipo: «Sono entusiasta per voi!». Ero scioccata. Lui invece mi ha anche chiamato ed era in lacrime, perché non riusciva a crederci: stava guardando il pre-show e ha sentito il nostro nome. Io manco sapevo che esistesse il pre-show. Eravamo scioccati perché all’epoca non eravamo un gruppo inseribile nella categoria rock e infatti ci hanno criticati e molto, ma per me ha significato tantissimo sentirmi dire: sei la prima artista donna a vincere in questa categoria dopo Alanis (Morissette, nel 1999). Ero onorata e orgogliosa.

Foto: Zachary Gray

Gli album usciti due o tre anni fa sono stati etichettati come dischi della pandemia, ma i temi che trattavano sono entrati nella nostra vita quotidiana. Isolamento, ansia, mancanza di empatia sono la nuova normalità. Mentre ci stavate lavorando, hai pensato a come This Is Why stesse riflettendo ciò che accadeva nel mondo?
Realizzare This Is Why non è stata un’esperienza piacevole per nessuno di noi. Già c’era l’ansia di tornare a creare qualcosa tutti insieme, dopo un po’ di tempo. Uscivamo spesso insieme, ma non lavoravamo a nulla. Zac stava lavorando agli HalfNoise e io ho partecipato a un paio di progetti, uno con Taylor in cui ha suonato anche Zac. Dire «ok, andiamo a fare i Paramore» mi ha fatto salire l’ansia. Il mondo faceva ancora paura e non c’era più alcuna certezza. Ho provato ansia a stare di nuovo insieme a persone che non facevano parte della mia bolla. E mi spaventava sapere che, una volta terminato il disco, sarei nuovamente andata là fuori, in giro per il mondo. Non per il Covid, che ho preso quando abbiamo ricominciato ad andare in tour, ma più che altro per via di quello che era accaduto nella mia testa. Una parte di me si era abituata a vedere solo le persone che conosco direttamente e che fanno parte di un certo contesto, la famiglia, la band. In tour, invece, avrei dovuto frequentare gente di ogni tipo che probabilmente non la pensava al mio stesso modo, anche politicamente. Non sapevo come mi sarei sentita, come sarebbe stato, né se sarebbe piaciuta questa versione di me e/o dei Paramore. Tutti nella band abbiamo provato quell’ansia. È stato spaventoso ma, come ho già detto, credo che essere in grado di affrontare qualsiasi tipo di disagio ti insegni molte cose. Ti fa crescere. Ne sono sicurissima.

Verso la fine del tour hai contratto un’infezione polmonare e hai cercato di resistere il più possibile prima di annullare dei concerti per poterti curare. Che tipo di conflitto è scoppiato tra la tua mente e il tuo corpo?
È stato devastante. Essere in tour è pesante per il fisico e per la mente, ma quelle due ore che trascorri con le persone che sono lì, allo show, sono un’esperienza unica. Quando il mondo sembra crollare, toccare con mano la gioia delle persone ogni sera è un dono. Sai, è facile dimenticare che esiste quel tipo di gioia, se si sta solo online o si guardano i notiziari. È stato curativo e credo che, probabilmente, mi abbia fatto continuare per più concerti di quanto avrei dovuto, compreso l’ultimo prima di sospendere il tour. Mi sentivo malissimo, ma uscivo sul palco coi ragazzi durante l’intro e appena vedevo le persone davanti, alcune le riconoscevo al volo, pensavo: va bene, ce la farò. Ma tossivo e faticavo a parlare. Strano come si riesca a ignorare tutto questo: l’esperienza che si vive sul palcoscenico è la più travolgente dal punto di vista fisico che abbia mai sperimentato, ma allo stesso tempo è extracorporea, un’esperienza dell’anima che non si può replicare in altri modi.

Alla fine sei riuscita a capire la differenza tra egoismo e autoconservazione?
Ci sto ancora provando e ne ho parlato di recente con Zac e Taylor. A metà di questo tour, abbiamo iniziato a scalpitare per incidere musica nuova e siamo pronti a tornare in studio. Ma abbiamo ancora un sacco di concerti: faremo l’Eras Tour con Taylor Swift la prossima estate, abbiamo il tour in Nuova Zelanda e Australia, ci sono un paio di date all’inizio del 2024. Ma c’è qualcosa che finalmente stiamo comprendendo a proposito della band e dell’esistenza stessa. In passato molti insegnamenti sono rimasti in superficie, come quando cerchi di spalmarti la crema e ti rimane sulla pelle. Ora però stiamo assorbendo tante cose che prima non avremmo metabolizzato. Sono entusiasta all’idea di potere andare avanti imparando cose nuove e migliorandomi. Sono pronta, lo sento. Mi dico sempre: devo essere presente, bisogna essere qui. Accadono cose straordinarie ogni giorno, magari con la band, magari si tratta semplicemente di farsi una bella passeggiata col cane, capisci? Ho bisogno di essere qui, adesso.

Da Rolling Stone US.

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