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Gracie Abrams vuole meritare la fortuna che ha avuto

Figlia del regista J.J. Abrams, prodotta da Aaron Dessner, scelta da Taylor Swift per aprire il suo tour. La nuova stellina della canzone americana vuole portare le sue confessioni pop fuori dalla cameretta. Senza coinvolgere papà

Foto: Magdalena Wosinska per Rolling Stone US. Full Look Miu Miu

Quando la pandemia ha fermato il mondo, milioni di persone hanno cercato un modo di impegnare il tempo chiuse in casa. C’è chi ha iniziato a sfornare pane. Qualcuno s’è dato alla poesia. Altri hanno preso a modellare ceramiche. Gracie Adams, un venerdì mattina presto, si è sballata, si è tuffata nella discografia di Taylor Swift e ha sparato questo tweet: «I Know Places di Taylor Swift mi fa sentire come se qualcuno mi stesse braccando nelle fognature».

«Era parte di una dozzina di tweet in cui spiegavo cosa mi evocava la sua musica, in quel momento», dice Abrams ridendo (altri tweet diconoche la canzone migliore di Swift è Innocent, mentre Mine le fa venire una voglia matta di indossare una salopette).

Abrams, 23 anni, quest’estate avrà moltissime occasioni di vedere l’artista che l’ha ispirata e non lo farà da fan. Sarà lei ad aprire 30 date dell’Eras Tour in altrettanti stadi in tutti gli Stati Uniti. «Sarà come frequentare il master più divertente del mondo», dice. «Imparerò tantissimo, standomene nel mio angolino ad ascoltare e a vedere quello che fa lei».

In un certo senso, Abrams è una delle massime esperte di malinconia della Generazione Z, ma è anche una delle giovani artiste pop più interessanti del momento. Il suo esordio Good Riddance che uscirà il 24 febbraio mostra una grandissima padronanza nella scrittura di brani autobiografici. Non è certo l’unica popstar che, nella sua cameretta, scrive di delusioni amorose, ma riesce a trasmettere meglio della maggior parte dei suoi pari il senso di colpa e d’incertezza provocati da un amore giovanile finito male. I Miss You, I’m Sorry conta oltre 100 milioni di stream su Spotify ed è al contempo un addio a un amante e un litigio per non lasciarsi.

«La scrittura di Gracie mescola fragilità e introspezione in un modo in cui mi identifico molto», spiega Swift a Rolling Stone. «Mi fa pensare che forse lei ed io abbiamo iniziato a scrivere canzoni per le stesse ragioni, per cercare di dare un senso ai nostri sentimenti. I miei autori preferiti sono quelli che non mi fanno mai domandare perché hanno scritto una certa canzone, perché è ovvio che dovevano farlo, come fosse una confessione o una catarsi. A volte lei sembra sul punto di scoppiare in lacrime o a ridere, mentre canta, e noi tutti ce ne stiamo lì, seduti a terra in cerchio, ad ascoltare la storia che racconta».

In una giornata di gennaio calda, ma nuvolosa, Abrams ed io sediamo al tavolo di un ristorante di Hollywood che lei frequenta abitualmente. Mancano poche ore all’uscita del suo nuovo singolo, Where Do We Go Now?. Abrams è cresciuta a Los Angeles; la considera una «città del cinema» e la sua famiglia ne è parte integrante: suo papà è il filmmaker J.J. Abrams e sua mamma, Katie McGrath, è una produttrice e co-CEO della casa di produzione di JJ.

Ha cominciato a scrivere canzoni a 8 anni, nel momento in cui ha iniziato ad appassionarsi al giornalismo. Scrivere la faceva sentire al sicuro. Esibirsi davanti alle persone no. «Non ero il tipo di bambina che ascolta la musica in radio e finge di essere su un palco», dice Abrams. «Mai voluto stare su un palco».

Il primo tassello della carriera di Abrams è stato posto nel 2019, quando s’è presa una pausa dai corsi al Barnard College di New York per concentrarsi sulla musica. Ha firmato un contratto con la Interscope e, in autunno, ha pubblicato Mean It, che col suo modo di raccontare vulnerabile lasciava presagire ciò che sarebbe venuto in seguito.

Abrams dice di avere provato una sorta di sindrome dell’impostore quando ha firmato il contratto, essendo consapevole che la Interscope aveva nei suoi confronti un’aspettativa che non era sicura di potere soddisfare: suonare dal vivo. «Poi è arrivato il Covid e ho fatto dei concerti via Zoom… letteralmente nella mia stanza da letto, proprio come avevo già fatto su Instagram, con la differenza che vedevo le persone dentro dei quadratini», racconta Abrams riferendosi ai frammenti video che, da teenager, caricava su Instagram. «Per me quello è stato il punto di svolta di cui avevo bisogno».

Good Riddance ha preso forma dopo che Aaron Dessner dei National ha invitato Abrams nel suo Long Pond Studio. Quando Abrams ha cominciato ad assemblare l’album, era reduce da una recentissima rottura amorosa e i sentimenti espressi in Good Riddance sono vividi. Il pezzo d’apertura, Best, è stato il più difficile da scrivere. Il testo non ci va giù leggero e a ogni verso si fa più pungente, mentre Abrams ammette di non essere stata al proprio meglio, nel corso di una relazione. Dalla canzone deriva anche il titolo dell’album “che liberazione” in italiano, ndr): “Tu ci sei stato per tutto il tempo / Sei il peggiore dei miei crimini / Sei caduto malamente / Io ho pensato che liberazione”.

Per Abrams, scrivere oò pezzo è stato come mettere il dito nella piaga. Ha spiegato che Good Riddance l’ha spinta a comportarsi in modo affidabile. «Non sono mai stata una partner troppo trasparente», dice, aggiungendo di avere avuto sempre difficoltà nei confronti diretti. «Desidero tantissimo arrivare a un punto della mia vita, ora che sto davvero diventando adulta, in cui sono più sincera con me stessa e non casco nella trappola del vittimismo, ma essere più sicura di me».

Chiedo ad Abrams come si sentiranno le persone di cui parlano le sue canzoni. Si ferma un attimo a pensarci e ammette che, in molte occasioni, ha pensato che avrebbe dovuto modificare un testo per via dell’argomento. «Scrivevo un brano e poi mi prendeva l’ansia, pensando che qualcuno sapesse che l’avevo scritto io», spiega. «È un problema pensare che potresti ferire una persona per via di qualcosa che hai scritto».

Dessner l’ha spronata a continuare a scrivere seguendo l’esempio di un’altra artista che ha inciso al Long Pond. «Aaron mi ha detto: “Vedi, tutti gli artisti che ammiri hanno avuto momenti in cui si sono chiesti: posso pubblicare questa roba?’”», dice Abrams. «Mi sono seduta e ho pensato a Taylor, che ha una grandissima esposizione, ma ha ancora il coraggio di dire ciò che vuole…». E i protagonisti delle canzoni? «Non posso sapere come reagiranno, ma voglio loro molto bene, per cui spero che magari lo capiscano», dice dopo averci riflettuto un attimo.

A Long Pond, Abrams è stata ospite di Dessner, sua moglie e i loro tre figli. Spesso lavorava 12 ore al giorno, prendendosi solo qualche pausa per stare coi bambini di Dessner. «I suoi figli mi hanno fatto pensare che magari, un giorno, potrei essere mamma, anche se onestamente è un pensiero che avevo sempre rifiutato», dice Abrams sorridendo. In particolare, le piacevano le passeggiate in mezzo alla natura con il mediano dei ragazzini, Robin, che è fissato con le lucertole.

Abrams ha terminato le registrazioni del suo album d’esordio il 7 settembre, il giorno del suo ventitreesimo compleanno: per l’occasione, i figli di Dessner hanno composto e suonato un pezzo appositamente per lei. «È il singolo di lancio», scherza Abrams.

Non le è sfuggito il dibattito online sul nepotismo, culminato con la copertina del New York Times di dicembre sui “nepo baby” (nell’articolo lei era indicata come una nepo baby emergente). Abrams non trova offensivo il termine e tiene a spiegare che ha compreso il senso del dibattito: «Ovviamente non possiamo sapere dove nasceremo e avere dei membri della famiglia che lavorano nell’industria cinematografica comporta un milione di vantaggi evidenti, ma ce ne sono ancora di più che non sono immediatamente percepibili», spiega. «Io so di lavorare sodo e ho sempre cercato di non coinvolgere in alcun modo i miei genitori nella mia carriera, ma ovviamente sarà diverso visto dall’esterno».

Quando Abrams è stata informata che avrebbe aperto i concerti di Swift, ha chiamato la mamma, che si è subito accorta di quanto la figlia fosse agitata dalla voce. Poi ha mandato un messaggio a Swift, che aveva conosciuto qualche anno prima tramite Dessner. «Le ho scritto: “Non ho parole, ma ti sarò grata per il resto della mia vita”».

Swift e Abrams si sono incontrate grazie all’amico comune Dessner, quando la superstar ha invitato Abrams a un party. «Mi ha messaggiato all’improvviso, un paio di natali fa. Tipo: “Ehi, è il mio compleanno”. E io: “Lo so”», dice Abrams. «Lei è una delle più brillanti, un’autrice e un’artista geniale, un angelo venuto dal cielo».

Mentre parliamo dei pensieri che le ispirava I Know Places di Swift, ci troviamo d’accordo sul fatto che Closer, il pezzo che chiude 1989, potrebbe essere il migliore dell’album. Abrams parla di Swift con ammirazione profonda, ravvivando la conversazione con piccoli aneddoti divertenti. «Sai che a quella canzone ha lavorato Imogen Heap?», mi chiede (e no, non lo sapevo). «Entrambi i loro nomi sono nella mia lista dei desideri per le collaborazioni, per cui quando ho saputo che avevano lavorato insieme mi sono detta: caaazzooo!».

Al ristorante, Abrams non ordina nulla e giocherella con il suo anello di Cartier mentre riflette sull’amore, Il re leone («Ho capito di voler fare l’artista quando ho sentito Simba», scherza) e il Long Pond. Sente l’agitazione, ma quella bella, del tipo che ti prende quando manca solo qualche ora all’uscita del tuo singolo e presto arriverà anche l’album d’esordio. «Questa settimana mi sono mangiata le unghie molto più del solito», ammette, aggiungendo che sta finalmente facendo pace con l’idea che un album che ha realizzato più per lei che per gli altri esisterà anche in altri luoghi, oltre che nel suo telefono e nel suo diario.

In questi giorni Abrams sta provando molto: nel giro di un paio di mesi inizierà il tour con Swift e poi promuoverà Good Riddance con un proprio giro di concerti. Il suo “pop da cameretta” ha appena fatto un bel salto in avanti.

«Sono più grata che mai per ciò che lo scrivere canzoni mi ha dato come persona, al di fuori della musica», spiega. «Sono cresciuta usandolo come uno strumento per metabolizzare ciò che mi accadeva, ma avere finito qualcosa mi ha fatto pensare che, in un certo senso, mi sono liberata del dolore e mi sono lasciata alle spalle quello che dovevo».

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Styling: Spencer Singer
Acconciatura: Bobby Elliot per The Wall Group
Make-up: Jose L. Duarte per The Only Agency

Da Rolling Stone US.

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