Gli ultimi samurai del rap, l’intervista ai Colle Der Formento | Rolling Stone Italia
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Gli ultimi samurai del rap, l’intervista ai Colle Der Formento

I Super MC romani sono tornati dopo undici anni con un disco autobiografico che non ha bisogno di dimostrare niente a nessuno. Rime come katane contro i nemici: dall'ignoranza pseudo-fascista fino al rapporto con il tempo e la morte

Gli ultimi samurai del rap, l’intervista ai Colle Der Formento

Foto di Daniele Peruzzi

«Se l’Hip-Hop è morto, rapperò al suo funerale», cantavano anni fa. Oggi per i pischelli i riferimenti sono altri ed è probabile che non sappiano manco cosa sia la scienza doppia H. Le parole cambiano, le rime e pure i tatuaggi. E per quanto invecchiare non piaccia a nessuno, la differenza sta tra chi lotta contro il tempo e chi lo subisce. Tra chi va avanti e chi rimpiange le golden age passate. A distanza di due lustri dall’album precedente, i Colle Der Fomento sono tornati ma, pur mantenendo quello spirito da battaglia, che è pure d’obbligo in un disco che si intitola Adversus – quando gli chiedo chi scrive bene, oggi, in Italia, loro rispondono «Baricco» – hanno accettato sfide più importanti del limitarsi a difendere il titolo di Super MC. Hanno affrontato argomenti intimi e personali, mai toccati prima, ed era l’unico antidoto per non appassire davvero e trasformarsi in nostalgici del boom bap che passano le loro giornate affogando nei ricordi e nei vestiti extralarge. Mettevi comodi: il core è vivo, la miccia è accesa, quando sarà il momento brillerà.

Undici anni sono tanti per fare un disco, no?
Masito: Non ci sono voluti undici anni. È il risultato di più fattori insieme. Noi siamo gli ultimi di una generazione, insieme a Kaos, Esa e pochi altri. A volte non sapevamo cosa ascoltare e ci mancava l’ispirazione, non potevamo confrontarci con gente della nostra età. Poi ci sono cose della vita – persone che se ne vanno, cambi di lavoro, traslochi, ecc – che ti portano via un sacco di tempo. Abbiamo aspettato i pezzi giusti, non volevamo fare un disco uguale ad Anima e Ghiaccio. Dovevamo trovare la direzione e, una volta trovata, in quattro anni abbiamo fatto tutto.

Anche quattro non sono pochi.
Danno: Abbiamo i nostri tempi, è vero. Abbiamo passato settimane e settimane ad ascoltare i beat proposti da Dj Craim. Parallelamente abbiamo ascoltato tantissima musica americana per studiare la direzione che stava prendendo l’Hip Hop, perché ok la scena di Chicago e di Atlanta, ok la trap e la drill, ma c’è c’è tutta una nuova scuola a New York altrettanto interessante; Roc Marciano, Westside Gunn, Conway the Machine, ecc. Quando abbiamo scritto il primo pezzo più introspettivo, Nostargia, abbiamo capito che quella era la chiave. Volevamo andare oltre gli slogan, oltre la fierezza, oltre il «suona più forte delle bombe». Non avevamo mai raccontato momenti così personali della nostra vita e volevamo trovare un modo poetico per farlo.

Questo è sicuramente il vostro disco più autobiografico.
Danno: Il Mempo, la maschera da samurai che vedi in copertina, non è un disegno grafico, ne abbiamo fatte realizzare delle copie per davvero. Nel retro del vinile una di queste è rotta in sei parti. E come se volesse dire che, da un certo punto dell’album in poi, questa maschera cade e vedi le persone che ci sono dietro: Massimo e Simone, non Masito e Danno. Parti da pezzi come Nostargia, Miglia e promesse, Musica e fumo – che è un tributo alla musica italiana con cui siamo cresciuti – e arrivi a Polvere, che in sostanza ti dice: puoi essere anche il capo del mondo, il più ricco di tutti, ma invecchi come gli altri e rischi di ammalarti come gli altri. «La rota gira ed è un cecchino che ammazza senza prende la mira», può capitare a chiunque. Ce ne siamo resi conto sulla nostra pelle e sulla pelle dei nostri cari. Dovevamo metterlo in musica.

Foto di Daniele Peruzzi

Non avevate mai parlato della morte in un disco e Polvere ne è l’esempio migliore. Me la raccontate?
Danno: Masito ha scritto velocemente la sua parte, io ci ho messo molto di più. Mi sono dovuto confrontare con una strofa enorme: mi commuoveva, riuscivo a capire tutti i significati nascosti nel testo. Io ho inserito questa immagine che ci riporta agli F.D.C., ai nostri primi anni, «prima dell’odio e della scienza, prima del fomento e del veleno» quando eravamo in cameretta a scrivere rime con Giorgio e David (rispettivamente Grandi Numeri e Primo Brown, mancato nel 2015, NdR). Ci ho messo un anno a trovare le parole giuste.

Un altro aspetto che mi interessa sottolineare è che, per la prima volta, mostrate il vostro lato più debole e insicuro, in tal senso la figura del nemico assume un ruolo fondamentale. Perché è importante avere un avversario contro cui battersi?
Danno: Il titolo del disco, Adversus, lo puoi leggere in tre modi diversi. In un pezzo come Penso diverso il nemico è fuori e sono quelli con una mentalità che oggi definiresti pseudo-fascista, basata sull’ignoranza – che è un po’ il problema dei nostri tempi – ma anche intesa come la superficialità di chi punta tutto sull’apparire. Poi c’è un altro nemico che è il tempo, quello ti ammala, sia fisicamente che mentalmente – nel disco ci sono molti riferimenti alla depressione – e non ti permette di trovare la chiave giusta per stare bene con te stesso. E infine c’è un nemico interno, quello che ti costringe a rendere conto degli sbagli che hai fatto, ma anche quello che ti spinge a migliorare sempre. Io non ho più bisogno – e lo dico con nessuna spocchia – di confrontarmi con metriche nuove, negli anni ’90 lo facevo abbestia, ma non è più una cosa che mi interessa.

Il flow è sicuramente più calmo.
Masito: È più basico. Quando sei giovane tendi a complicare, quando cresci invece vuoi semplificare, asciughi. Troppe parole rubano spazio alla musica, abbiamo preferito lasciarla respirare.

Danno: Io nei ’90 ero fin troppo preso da questo continuo bisogno di sfida. Se uno faceva un incastro triplo io dovevo riuscire a farlo quadruplo. Oggi la trovo solo una competizione di forma, non molto di più. Ora la vera sfida per me sta nel trovare argomenti nuovi. Anche Nas lo diceva: se dopo vent’anni stai ancora al gioco dell’MC più forte degli altri vuol dire che hai sbagliato tutto.

«Noi siamo uguali ma è il giudizio a rendermi avversario» è una bella frase. Ne vogliamo parlare?

Danno: Quella è di Er Pinto, un poeta romano nostro amico. Gli ho chiesto di scrivere una poesia intitolata Storia di una lunga guerra, lui mi ha dato un testo molto lungo di cui ho usato solo alcune frasi. Quella che hai citato è molto bella e spiega che il nostro essere “contro” non è una questione di principio, da coltello tra i denti. Vuol dire: io e te siamo simili, vediamo le stesse cose, ma ho un giudizio – sulla vita, sulla musica, ecc – che mi distingue dagli altri. Questa mia particolarità, questa mia visione, è molto importante…

Masito: …anche perché noi vediamo la musica come una sorta di eredità. Vogliamo scrivere canzoni che valga la pena riascoltare dopo anni. Non ci interessa affrontare il quotidiano, per noi non ha più senso.

Anche perché se ce ne mettete altri undici per fare il prossimo diventa dura.
Danno: (ride) Ci fa piacere avere il “problema” della gente che, ancora oggi, continua a comprare il vinile di Anima e ghiaccio nonostante siano passati undici anni. Speriamo che anche per questo disco sia lo stesso.

Masito: Non abbiamo la pretesa di essere meglio, o più bravi degli altri, ma abbiamo un approccio nostro, molto attento. In un momento in cui pare non essercene bisogno, a noi piace ancora approfondire le cose. La stessa parola Hip Hop oggi ha perso valore, oggi tutti fanno trap, la cultura che c’era dietro è svanita, anche in America dove questa cultura è nata. Noi invece abbiamo ancora il cruccio di diventare più bravi a fare quello che facciamo, di alzare il livello anche solo di poco. E uno lo fa se ci tiene, oggi, domani, sempre.

Quanto ci mettete a scrivere un pezzo?
Danno: A volte un giorno, a volte tre anni.

Quando in Lettere dici «questo foglio è il mio bisonte bianco» ti riferisci anche a questo?

Danno: È un film dove Charles Bronson dà la caccia a questo bisonte, che è un po’ il suo “mostro finale”. Lo cerca per tutto il film, gli dicono pure che non esiste. Lui invece lo trova, lo punta con il fucile, ma non riesce a ucciderlo. È una metafora della ricerca della perfezione: lungi da dire che i nostri testi siano perfetti, ma dietro ad ogni nostra frase c’è molto lavoro. Una rima ti può anche portare a non dormire la notte o a fare altre stranezze, tipo girare per il salotto con lo sguardo da matto solo perché finalmente hai trovato le parole giuste.

Masito: È successo che una frase sia stata riscritta e riregistrata anche tre, quattro volte, per poi scartare il pezzo perché non ci sembrava abbastanza valido.

Foto di Daniele Peruzzi

Per molti oggi le rime non sono nemmeno più necessarie. Ve lo chiedo senza alcuna polemica, che effetto vi fa?
Masito: Oggi vige questo concetto: basta che funzioni. Se riesci a fare bottino, se fai i numeri, non importa come ci riesci, vuol dire che è andata bene. Non lo giudico, non lo vedo nemmeno come una minaccia o un intralcio, assolutamente, ma non è il nostro approccio. Poi, se riesco, butto sempre un orecchio a tutto quello che esce. E importante rimanere aggiornati e ascoltare più musica possibile.

Danno: Non penso nemmeno che quelli che oggi non chiudono le rime si definiscano dei Super MC. Sono cambiati i giochi: c’è meno attenzione alle rime, ci sono altre esigenze, si vogliono comunicare cose diverse. Se qualcuno ci riesce, bella pe’ lui.

Per chi sono le frecce avvelenate di Lettere?
Masito: È una metafora che mette insieme lo scrivere testi e lo scrivere sui muri. Nei graffiti ci può essere l’odio che porta un writer a coprire i pezzi di un altro. Noi invece cerchiamo di scrivere cose che restino in eterno.

Danno: «Chi sa leggere fra queste righe trova frecce avvelenate e appuntite» significa che abbiamo sempre scritto frasi che non fossero carezze, tutt’altro, dovevano far male. Lo abbiamo sempre detto: armiamo le nostre rime come Rammellzee armava i suoi graffiti, che era questa figura mitologica dell’Hip Hop, nei suoi pezzi disegnava le lettere con tante punte, come se fossero frecce. Era un modo per dire: i miei testi sono armati, ti possono anche ferire.

I vostri testi sono stracolmi di easter egg e riferimenti nascosti.

Danno: In Musica e fumo dico «questa mia faccia in prestito» citando Paolo Conte, in Nulla Virtus dico «zero pregi» e mi riferisco ad un ex writer che sta su Twitter, grande amico di ZeroCalcare e grandissimo critico politico. Potrei continuare all’infinito…

Masito: …ogni riga, ogni parola, è studiata per avere dei giochi o dei significati non facili da interpretare. Ogni rima deve avere un riferimento forte. Non sono testi così immediati.

Questo è poco ma è sicuro.
Masito: (ride) Oggi c’è un’attenzione molto bassa e si consuma tutto con grande velocità. Io invece ho compreso delle cose scritte da Dalla, Conte o Capossela molti anni dopo e continuo a riascoltare i brani decifrandoli pezzo per pezzo. Ci vuole pazienza con la musica, no?

E perché citare De Gregori o Conte in un pezzo rap?
Danno: Per lo stesso motivo per cui i Wu-Tang Clan campionavano i dischi soul, sono le nostre radici.

Masito: È il grande gioco delle parole. Ci sarà sempre qualcuno più bravo di te, in qualsiasi genere. A volte una cosa meglio di così non riesci a dirla, allora la citi, la usi come se fosse una formula matematica da inserire in un’equazione più grande. E poi la musica è una sola: più ascolti cose diverse e più ti fa bene.

Foto di Daniele Peruzzi

Torniamo indietro di venticinque anni. Cosa vi affascinava di questo mondo?
Danno: Tutto. A partire dal suono, che era completamente nuovo. Uno dei primi pezzi diventato famoso in Italia era il remix dei Coldcut di Paid in full, ed era un collage di mille cose diverse. Noi eravamo cresciuti in famiglie normali che ascoltavano De Gregori, Venditti, Dalla, quando ho visto per la prima volta Francesco Zappalà che scretchava è stata un’illuminazione. Mi piaceva la rabbia che i rapper riuscivano sputare nelle loro rime. E poi l’estetica: i capellini al contrario, il logo dei Public Enemy che era un’immagine fortissima, conquistava pure i metallari.


Masito: L’estetica era una componente fondamentale, dovevi distinguerti, se quella scarpa ce l’avevano tutti, tu te ne facevi un’altra, e dovevano essere sempre nuove, sempre appariscenti. In più a me piaceva l’idea che fosse una cosa per pochi…

Kaos cantava «l’amore per l’Hip Hop era il legame che teneva unite le persone, in quindici eravamo una nazione». Oggi gli MC sono i nuovi calciatori, vent’anni fa il rap non era sicuramente così cool. Siete d’accordo?
Danno: Assolutamente. Non era di moda, anzi, la gente ti prendeva in giro. Eri quello strano della scuola, con il cappello all’indietro eravamo in tre, ma tra noi tre c’era un’unione mai vista. Fermavi una persona sul bus o per strada solo perché aveva addosso una determinata maglietta, imparavi a riconoscere le tag sugli zaini, che poi collegavi ai writer del tuo quartiere o ai nomi che leggevi sui dischi. Mettevi insieme i pezzi.

C’è stato un pezzo che ha dato il via a tutto?
Danno: Sfida il buio di Dee Mo. Quando l’ho sentita sono rimasto fulminato. Era tutto fuso alla perfezione, c’era una super base, c’erano assonanze, giochi di sillabe e contro-sillabe, era molto lontano dal rap semplice-semplice di Jovanotti. Aveva un testo che, pur prendendo ispirazione dal punk hc, era una cazzo di bomba. Pensa a un ragazzino di 17 anni che sente un verso come «L’ombra non processa se stessa», che era una frase degli anni ’70, e voleva dire: nel mondo troverai sempre delle ingiustizie, lo Stato – l’ombra – non si processerà mai da solo, sarai tu che dovrai agire se vuoi che le cose cambino. Era più di una canzone, era una scuola di vita.

Le nuove generazioni – chi più, chi meno – hanno molto rispetto per le golden age passate del rap italiano, ma i loro riferimenti, oggi, sono altri. Vi rattrista?
Masito: È normale, hanno l’età che hanno. Se poi cresci e ti interessa, magari approfondirai anche chi è venuto prima di te. Alla fine è il tuo mondo, più ne sai e meglio è…

Danno: …esatto. Non puoi pretendere che un ragazzino oggi si senta coinvolto dalla storia degli anni ’80 o dei ’90. Magari ne esistono, come esiste il ventenne che si appassiona al jazz e se lo studia, ma è anche giusto che oggi i riferimenti siano altri. La cosa importante è capire che questo genere musicale è grado di raccontare storie fantastiche, da quella di Grand Wizard Theodore che inventa lo scratch perché la mamma gli rompeva i coglioni e allora lui ferma il piatto e con un gesto fa la rivoluzione della musica, a quella dei De La Soul che hanno mandato in crisi tutti i neri con i catenoni d’oro dicendo: noi siamo africani e siamo orgogliosi della nostra storia. Ti aiuta a comprendere l’importanza di Eminem e perché dopo Eminem il southern ha preso piede, perché dal southern si è arrivati alla crunk e dalla crunk si è arrivati alla trap. Puoi anche non sapere queste cose, le canzoni le apprezzerai lo stesso, ma più ne sai e meglio è. No?

«Sto nella trincea ad aspettare il mio nemico quando arriverà, con una carica al posto del cuore, quando sarà il momento brillerà». È una delle mie rime preferite del disco, me la raccontate?
Danno: Storia di una lunga guerra è una metafora dell’attesa che c’è stata per questo disco, ma non solo. È una frase legata a Eppure sono qui, il brano successivo, dove diciamo «eppure sono qui come se fosse facile perdere». Quando cominci non hai niente da perdere, nei ’90 salivamo sul palco ubriachi, con il vino, bestemmiando. Raccoglievamo anche consensi ma non ce ne fregava più di tanto. Ora, dopo 25 anni di carriera e quaranta e passa di vita, nei hai parecchie di cose da perdere, a maggior ragione se ci tieni davvero. Potevamo fare un album di boom bap, avremmo fatto felici un sacco di nostalgici, eppure siamo andati avanti. Quelle due frasi insieme spiegano tutto: io ci sto mettendo il cuore, ma tra un po’ il cuore mi esplode. Annienterà il mio nemico, forse annienterà anche me.

Nel ’96 dicevate «sempre vero, non ti sento non ti vedo e non t’inculo, sto tranquillo perché il conto tornerà, so sicuro». Il conto è tornato?
Masito: No, è facile che non torni (ride). Ma se stamo ancora qua, non è certo per far tornare i conti. Nella vista ci sono cose più importanti.

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