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Gli ultimi giorni di Mark Lanegan

Li racconta Aldo Struyf, suo amico e membro della sua band. L'ha visto pochi giorni prima della morte. «Non pensava di dover morire, ma era indebolito da Covid. Aveva 57 anni e il fisico di un ottantenne»

Foto: Sylvain Lefevre/Getty Images

Aldo Struyf è stato uno dei migliori amici di Mark Lanegan, nonché membro della Mark Lanegan Band da Bubblegum in poi. I due si erano conosciuti quando il polistrumentista di Anversa suonava nei Millionaire, che facevano da supporter ai Queens of the Stone Age. I due avevano legato subito, accomunati dagli stessi gusti musicali eclettici e da quel click che scatta a volte tra le persone senza neppure sapere perché. Fatto sta che, quando il cantante ha abbandonato il tour dei Queens, Struyf l’ha ospitato a casa sua per aiutarlo a disintossicarsi.

Struyf è anche uno degli ultimi ad averlo visto vivo. Qualche giorno prima del 22 febbraio, Mark era stato da lui per provare i nuovi pezzi nello studio di registrazione di Anversa. Malgrado fosse ancora convalescente a causa di una grave forma di Covid che l’aveva tenuto sospeso per settimane tra la vita e la morte (l’intera vicenda è raccontata nel suo ultimo libro Devil in a Coma) si sentiva forte, ottimista, con lo sguardo volto in avanti.

Da quasi due anni Lanegan si era trasferito con la moglie Shelley Brien a Killarney, una cittadina nell’Irlanda sud-occidentale dalla bellezza mozzafiato. Amava vivere in Europa dove abitavano i suoi musicisti e la maggior parte dei suoi fan. Pareva averla scampata ancora una volta e aveva ricominciato a cantare. Il fiato era più corto, i passi ancora più lenti, ma la vita continuava a fluire. Poi, nella mattina di quel martedì, tutto si è fermato inaspettatamente per sempre. Cosa è successo ce lo racconta Aldo Struyf.

Mark sembrava essersi ripreso dal Covid. Che cosa è successo?
Aveva superato la malattia, la sua scomparsa è stato un fulmine a ciel sereno. Era stato da me fino a qualche giorno prima di quel 22 febbraio. Non dico che fosse in splendida forma, ma se l’era sentita di volare dall’Irlanda al Belgio ed eravamo persino stati nella nostra sala prove a lavorare ai pezzi del prossimo album dei Black Phoebe (il gruppo che aveva con la moglie Shelley Brien, del quale è già uscito un EP, nda) e a provare i brani per il prossimo disco della Mark Lanegan Band. Siccome è più famoso in Europa che negli Stati Uniti e la maggior parte dei suoi musicisti sono europei, ha tenuto ad Anversa il suo quartier generale. Mark era più debole del solito, aveva ancora qualche problema nei movimenti a causa degli strascichi della malattia, ma era disciplinato nel fare gli esercizi di riabilitazione e dunque stava facendo enormi progressi. La voce era un po’ più flebile e aveva meno fiato, ma anche quel problema pareva poter rientrare con il tempo.

Quindi?
È tornato a Killarney e aveva tanti progetti. Aveva in cantiere anche un tour con Joe Cardamone come Dark Mark & Skeleton Joe e stava scrivendo il suo prossimo libro. La moglie quel martedì mattina si è alzata e l’ha trovato riverso senza vita sul pavimento della cucina. A quanto pare ha avuto un malore, non si sa se sia stata un’ischemia o se gli sia ceduto il cuore. Può darsi che l’aver preso l’aereo non abbia fatto bene alla sua circolazione già compromessa. Aveva 57 anni, ma il suo corpo era quello di un ottantenne. Si sentiva un sopravvissuto.

Aldo Struyf e Mark Lanegan. Foto: Alex Vanhee

Com’era nata la vostra amicizia?
Ero in tour con i Millionaire circa vent’anni fa ed eravamo il gruppo supporter dei Queens of the Stone Age, con i quali Mark al tempo cantava. Nel backstage abbiamo iniziato a parlare di musica e abbiamo scoperto di avere molto in comune. Come me era un eclettico, cresciuto nell’era del punk e della new wave inglese – i suoi preferiti erano i Damned – i cui gusti spaziavano dal black metal all’elettronica, vedi le collaborazioni con i Cult of Luna e i Soulsavers. Non poneva limiti alla sua esplorazione sonora. I cliché del sopravvissuto del grunge e del crooner maledetto gli andavano stretti. Malgrado le sue ombre, era una persona aperta e delicata, con un gran senso dell’ironia. Amava circondarsi da persone gentili, che possedessero una certa dolcezza come Alain Johannes, Duke Garwood e, a sua detta, io, rispettosi dei suoi sbalzi d’umore, dei suoi silenzi e dell’eterna lotta contro i suoi demoni. Quando era in Belgio poteva accedere ai migliori hotel di lusso, ma lui preferiva venire nel mio piccolo appartamento, dove si sentiva a casa.

Si dice che proprio nei primi anni 2000 lo hai aiutato in uno di quei periodi in cui era ricaduto nella tossicodipendenza.
Era un mio amico. L’avrei fatto in ogni caso. Un altro che gli stava vicino nei brutti momenti in cui cercava di disintossicarsi senza andare in rehab era Sean Wheeler, di Palm Springs. Mark ha sempre sostenuto la sua band, avevano in cantiere un breve tour. Sean era il suo indivisibile compare di basket, sport che Mark amava molto.

Perché aveva deciso di trasferirsi in quella cittadina irlandese?
Aveva scelto di lasciare gli Stati Uniti perché non sopportava l’atmosfera divisiva che Trump aveva creato nel Paese. Voleva andare in Portogallo, di cui amava il clima, ma poi è scoppiata la pandemia e i voli da Los Angeles a Lisbona erano bloccati. Il suo amico Donal Logue, un attore canadese di origine irlandese, aveva una casa nella contea di Kerry e gliel’ha messa a disposizione. Così, nella tarda estate del 2020 si è trasferito con la moglie a Killarney. Si è innamorato del posto magnifico e del calore delle persone, e ha deciso di restare. Inoltre, in Irlanda si parlava inglese, e ciò rendeva tutto più semplice.

C’è stata una cerimonia funebre?
Sono tornato da pochi giorni dall’Irlanda, dove abbiamo fatto un funerale molto intimo, con dieci amici europei. Mark è stato cremato. La moglie tornerà a Los Angeles con le ceneri e a Palm Springs si terrà un’altra funzione funebre con i suoi amici americani. Shelley Brien resterà a Los Angeles, cercando di finire i progetti che il marito aveva in cantiere, compreso l’album con i Black Phoebe in cui suono anch’io.

Secondo te Mark se lo sentiva di dover morire?
Non credo proprio. Come ho detto la sua salute stava migliorando e aveva tanti progetti per il futuro. Tuttavia, flirtava con la morte. Non era religioso, se la menava se nominava Gesù nelle canzoni, ma possedeva una sorta di profonda spiritualità, un certo bisogno di trascendenza che derivava dalla sua continua caduta nell’abisso. Molti anni fa, durante uno dei suoi incidenti con le sostanze, il cuore gli si era fermato per qualche secondo e aveva avuto un’esperienza di pre-morte: la percezione di una grande luce e di una infinita pace. Mi disse: «Maledizione Aldo, non sono religioso ma adesso penso che ci sia davvero qualcosa di più grande». Sembra strano a dirsi, ma quel mattino del 22 febbraio mi sono svegliato di soprassalto con una strana sensazione, come se lui mi stesse parlando. Non credo troppo nelle teorie metafisiche, ma penso che le persone che si vogliono bene siano in qualche modo legate.

La sua generazione di rocker conta pochi superstiti: Jerry Cantrell, Dylan Carlson degli Earth…
Mark amava molto Dylan. In occasione di una delle date italiane del nostro tour qualche anno fa, mi pare fosse Bologna, organizzammo un loro incontro il 25 novembre, per il compleanno di Lanegan: non c’era persona più felice di lui.

Che cosa resta?
Tutto. La sua musica e il suo spirito non moriranno mai.

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