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Gli Interpol vogliono farti stare bene

La pandemia e un nuovo metodo di lavoro hanno cambiato i re di Dark Manhattan. Storia dell’album che uscirà nel 2022 e che contiene alcune canzoni «dallo spirito spudoratamente positivo»

Gli Interpol vogliono farti stare bene

Interpol

Foto: Atiba Jefferson/Red Light Management

Poco più d’un anno fa, Paul Banks degli Interpol era a casa, a Edimburgo. Seduto in poltrona vicino alla finestra, guardava le foglie cambiare colore mentre l’estate lasciava spazio all’autunno. Cantava a voce bassa per non disturbare i vicini, lavorava a nuove canzoni che oggi definisce «molto rilassate», «intime», «dallo spirito positivo».

Non è la descrizione che uno s’aspetta della musica degli Interpol, non almeno chi li seguiva all’inizio degli anni 2000. Erano all’epoca i re della Manhattan dark, tizi con l’espressione corrucciata e glamorous memorabile tanto quando i riff di Obstacle 1 o Evil. Del resto, ne è passato di tempo dal debutto Turn On the Bright Lights, la prossima estate saranno 20 anni. Anche le band crescono.

«È degno d’analisi psicanalitica il modo in cui un artista che solitamente scrive musica cupa si mette a fare qualcosa di diverso una volta che arriva la pandemia, che è poi il mio caso», dice oggi.

Il risultato di questa svolta creativa è il nuovo album degli Interpol, ancora senza titolo, che uscirà nel 2022 per l’etichetta Matador. Banks è su di giri mentre appare su Zoom collegato da uno studio «molto British» a Londra, dove il gruppo sta finendo il disco coi produttori Alan Moulder e Flood. «È sempre musica nostra, lo si capisce che siamo noi», aggiunge. «Ci sono il cuore e l’anima del gruppo, c’è il dna del nostro sound. Ma c’è una parte di me che continua a dire: quest’album dovrebbe essere super diverso da quelli del passato».

Il tour dell’album precedente, Marauder, è finito alla grande il 23 novembre 2019 con un concerto sold out di fronte a 40 mila fan al festival Vivo X El Rock di Lima, Perù. L’idea era prendersi una pausa per ricaricarsi e così i tre si sono separati e Banks è andato a Panama per fare surf e godersi il mare.

Quattro mesi dopo, il 12 marzo 2020, era in volo per la Scozia, dove vive la fidanzata, quando l’assistente di volo ha annunciato che Donald Trump aveva imposto un divieto di viaggio per 30 giorni verso l’Europa. Essendo nato in Inghilterra e avendo un passaporto del Regno Unito, Banks è riuscito a cavarsela nel casino di quei giorni, di quei mesi. «Ho passato il resto della pandemia a Edimburgo, uno scenario tipo L’isola di Gilligan. Lo dico in senso positivo, è stato anche romantico. Sono stato fortunato».

Intanto il chitarrista Daniel Kessler era in Spagna e il batterista Sam Fogarino ad Athens, Georgia. Entrati nella seconda fase di vita della band dopo l’abbandono nel 2010 del bassista e fondatore Carlos Dengler, i tre hanno cominciato a chiedersi che fare. Alla fine, hanno allacciato controvoglia una collaborazione a distanza. «È stata una sfida per una band alla vecchia come la nostra. Siamo abituati a trovarci in sala prove a tirare fuori i pezzi e vedere se funzionano lì», spiega Kessler. Il lockdown l’ha costretto a cambiare metodo di lavoro. Ha cominciato ad abbozzare canzoni da mandare sotto forma di file ai compagni. «Colpo di scena, mi ci sono adattato bene», spiega. «Del resto, che altro avrei potuto fare? Mi ha pure aiutato a tenere il cervello in moto, nonostante quel che stava accadendo là fuori».

Ispirato dalle idee che Kessler gli mandava, Banks s’è messo comodo su quella poltrona e ha ordinato su Amazon un Fender P-Bass. «L’ho preso color crema, una cosa nuova per me», dice sorridendo il musicista, noto per il colore degli strumenti scuro almeno quanto l’abbigliamento.

Banks s’è messo ad ascoltare le progressioni armoniche messe giù da Kessler e a cercare di scriverci sopra delle linee vocali, in tempo reale. «Era, tipo, un esperimento surrealista», ricorda. «In quel modo scrivi in grande libertà e allo stesso tempo ti confronti con le strutture messe giù da un altro. Per un cantante, significa affrontare l’ignoto, significa aprirsi un mondo di possibilità».

Foto: Kalpesh Lathigra

Quando in estate le condizioni lo hanno permesso, Banks, Kessler e Fogarino si sono rivisti in un paio di case sulle Catskills Mountains per scrivere assieme. «Che spasso», ricorda Banks, «e che posto confortevole. Sam è un gran cuoco, ha il tocco dello chef. È stato bello vederlo preparare ogni giorno i suoi piatti ricercati».

Banks s’è fatto ispirare da musiche non t’aspetti da uno come lui, come Pet Sounds o i Red Hot Chili Peppers – «John Frusciante è un cazzo di genio», dice palando di Blood Sugar Sex Magik e del disco solista del 1994 Niandra LaDes and Usually Just a T-Shirt. Negli ultimi dischi degli Interpol, aggiunge, «m’è presa la fissa dei riff di chitarra de-costruiti. Roba che nel giro di un paio di minuti posso insegnare a mia nipote che manco suona la chitarra. In questo disco che ne sono un paio davvero unici».

I tre si sono nuovamente incontrati in autunno a Londra con Moulder, che in passato s’è occupato dei mix di Interpol del 2010 e di El Pintor del 2014, e con Flood. In coppia e singolarmente, i due produttori sono responsabili di un bel mucchio di dischi rock tra il romantico e il dark degli ultimi 40 anni, dai Depeche Mode a PJ Harvey passando per Smashing Pumpkins e U2, un catalogo che comprende alcuni tra gli album preferiti dagli Interpol. «Le storie su Nick Cave sono fighissime», dice Banks. «Al posto di andare a studiare il nostro vecchio catalogo, a Flood piace sentire la musica che gli mandiamo per quella che è. Significa che questa musica è nuova di zecca, non è frutto del passato».

Quando ci parliamo, Banks sta dando gli ultimi ritocchi ai testi dell’album, un passaggio sempre delicato («arriva puntuale il momento in cui il disco è finito e tu ti ritrovi con zero testi e pensi: oh cazzo»). La nuova direzione presa dalla band lo galvanizza. «Ci sono alcune canzoni in particolare che hanno uno spirito spudoratamente positivo. L’idea è fare musica che faccia sentire bene».

Vent’anni dopo Turn On the Bright Lights, lui e Kessler provano un sentimento di gratitudine per il fatto che la band sia ancora in piedi. «Tutto quel che abbiamo fatto come trio lo ritengo necessario», dice Kessler. «Non lo facciamo perché va fatto e basta, ma perché sentiamo il bisogno di farlo. Ed è così sin dal principio. Non succede mica a tutti di sentirsi così, dopo vent’anni».

Kessler un po’ s’immalinconisce ripensando ai giorni in cui la band registrava l’album d’esordio di cui presto tutti a New York avrebbero cominciato a parlare. «C’è voluto un bel po’ prima di riuscire a firmare un contratto. Per i primi quattro anni sembrava che a nessuno fregasse di noi. Il mio sogno era fare un disco. Mai avuto pensieri più ambiziosi di quello. Non c’era nulla di scontato. Non potevo credere che finalmente lo stavamo facendo. Tutto quel che è venuto dopo è stato un regalo».

Una volta finito il nuovo album, gli Interpol contano di prepararsi per il primo concerto che faranno da due anni a questa parte. «Immagino che sarà speciale, che ci sarà un momento di condivisione fra pubblico e band», dice Kessler. «Ci sarà uno scambio profondo. Non vedo l’ora».

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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