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Giuliano Palma, confessioni di un melodista fanatico

L’inizio con cresta e Dr. Martens, l’epopea dello ska, il passaggio dai centri sociali a Sanremo, la «vena aurifera» che si è esaurita, la difficoltà di trovare un posto nel pop di oggi, la rottura e la possibile riconciliazione con Casino Royale e Bluebeaters. ‘Happy Christmas’, GP

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Se qualcuno negli ultimi tempi si è chiesto dove fosse finito Giuliano Palma dopo anni a surfare sull’onda lunga dello ska con Casino Royale e Bluebeaters, a spaccare le classifiche con rivisitazioni di classici (da Che cosa c’è a Messico e nuvole), contribuire all’esplosione dell’hip hop in Italia con Neffa (Aspettando il sole) o collaborare a tormentoni agli albori dei social (P.E.S. con i Club Dogo), la risposta ce la troviamo di fronte in un piovoso pomeriggio milanese negli uffici della sua etichetta. A 58 anni è un artista che ha ancora voglia di ballare e far ballare, ma quello che è cambiato è il mondo che lo circonda. E appare consapevole del panorama mutato, con tutte le difficoltà che comporta. Lontano dalle scene dal 2016, tornato con un singolo lo scorso giugno, Satellite, che non sembra aver ottenuto i riscontri sperati, riparte dalla ristampa con due pezzi in più dell’album di Natale Happy Christmas che, almeno, lo ha riconciliato con una festività che gli ha sempre provocato «una profonda malinconia». 

Poco avvezzo alle interviste, tra una domanda e l’altra si gira per incrociare lo sguardo dell’ufficio stampa come se avesse bisogno di certezze. Eppure, nonostante la lunga pausa, questo «melodista fanatico», come si è autodefinito, a un certo punto sembrava aver scoperto il segreto di come far muovere chiunque sulle note di qualsiasi canzone gli passasse tra le mani. Così, anche per fargli riacquisire dimestichezza con l’esposizione pubblica, abbiamo ripercorso insieme l’epopea dei Casino Royale, che «a gamba tesa» aprirono la strada a sonorità come lo ska, fino ad allora di nicchia, o l’impatto che ebbe il gruppo all-star dei Bluebeaters, che per quasi un decennio ha inanellato un sold out dopo l’altro. Nel mezzo due apici: le aperture agli U2 nel ’97 e le partecipazioni a Sanremo, dove ha reagito lasciando tutto e cercando altre vie per «reimpossessarmi del mio istinto».

Ci ha raccontato di essere passato attraverso il punk con «cresta rossa e Dr. Martens». Di cosa si prova a lavorare con il padre dei cantautori Gino Paoli (e Ornella Vanoni che ha scambiato l’one drop per una mazurca). Cosa significava nell’ambiente dei centri sociali sentirsi dare del «venduto» e guardarsi intorno oggi e vedere che «tutti ostentano qualsiasi cosa, basta che luccichi». Infatti, sulle polemiche legate ai testi violenti e sessisti dei giovani rapper e trapper ha un’idea molto netta: «Hanno poco spessore, sembrano un po’ dei Grinch». Come sui talent, che non guarda, perché «ormai il giudice lo fanno tutti tra cantanti, attori e forse mancano solo i maghi».

Ma perché era sparito? C’entra il Covid («perdere i concerti mi ha incupito»), una «vena aurifera che si esaurisce», un po’ di pigrizia perché dopo il lavoro preferisce «l’ozio creativo», oltre al fatto che«dovrei sbattermi di più». Tradotto: «Sono stacanovista in studio, ma il mio problema sono le pubbliche relazioni». La voglia di fare musica non gli è passata e, oltre al Natale, sembra essere pronto a riconciliarsi persino con i Casino Royale e Bluebeaters. Una reunion, lo provochiamo? E lui apre le porte: «Qualche tempo fa l’avrei escluso categoricamente, oggi invece non lo escludo». 

Per metterti a tuo agio, sapendo che non ami le interviste, ti rendo noto che sei responsabile di diverse serate indimenticabili della mia adolescenza quando nei primi anni 2000 venivi a esibirvi al Fillmore di Cortemaggiore, in provincia di Piacenza.
È un locale che ricordo sempre con grande piacere, in particolare per l’organizzatore Enrico Pighi e per la magia che aveva quel posto. Ci ho suonato spesso sia con Casinò Royale che con i Bluebeaters. Era un ex teatro con il palco in discesa e alla prima canzone rimanevi sempre un po’ stranito, poi ci si abituava. Ma era ottimo per la visuale del pubblico e con un’acustica perfetta. Mi hai sbloccato un altro ricordo, però non c’entra con la musica…

Visto che ci siamo, sono curioso.
Una volta eravamo a Londra per la pre produzione di un disco e siccome Pighi era amico di Gianluca Vialli, e noi malati di calcio, gli chiedemmo se poteva trovarci i biglietti per andare a vedere il Chelsea. Lui fece una chiamata a Gianluca e ce li trovò subito. Ricordo ancora il risultato: Chelsea-Sunderland 6-2. Enrico era un amico, ci ha sempre trattato benissimo.

Un passo indietro ai tuoi esordi. Forse non tutti sanno che hai iniziato con il punk.
Accidenti che balzo nel passato. Nei primi anni ’80 quando ho cominciato a suonare la chitarra con i Rappresaglia. Era il periodo delle sottoculture giovanili. Frequentavo i centri sociali, come il Virus di via Correggio, avevo la cresta rossa e portavo le Dr. Martens. In quel periodo non era ancora sopraggiunta la vocazione per il canto.

Quando è arrivata?
Dopo quella fase perché ho iniziato a frequentare in Piazza Sant’Eustorgio a Milano una cricca di amici che poi ha generato i Casino Royale. Quando abbiamo ascoltato i Clash per noi sono diventati dei santi, ci hanno fatto innamorare dello ska. Oppure band come Specials o Madness. Così ho cominciato a cantare scoprendo che quello ska era una reinterpretazione di quello giamaicano anni ’60. Ho recuperato un po’ di vinili da gente che faceva avanti e indietro da Londra e che qui erano introvabili e mi è scattato l’amore.

Sei stato spinto a cantare o lo hai deciso tu?
No no, altro che spinto, anzi. Gli altri quando ho cominciato pensavano la filtrassi con qualcosa, non credevano avessi una bella voce. Per fortuna mamma e papà, napoletani e che in casa cantavano sempre, mi hanno dotato di un orecchio mostruoso per la musica e se hai quello alla fine canti. Non ho studiato al conservatorio con mio grande rammarico.

Sei mai stato tentato di tornare a studiare?
Tante volte, solo che sono troppo pigro. Il mio chitarrista, che ha 15 anni meno di me, l’ha fatto. Per me forse è un po’ tardi. Gianni Morandi, quando arrivò ai 50 anni, decise di tornare a studiare contrabbasso. Chissà, anche se la vedo dura.

Poi con i Casino Royale in quasi un decennio, dalla fine degli ’80 alla fine dei ’90, la vostra ascesa ha rappresentato una sorta di epopea per certe sonorità in Italia con lo ska influenzato da crossover e hip hop. Senti di aver aperto la strada a tanti altri?
È vero, anche se ce lo hanno riconosciuto solo dopo dicendo che, se non ci fossimo sciolti, non sarebbero poi emersi tanti gruppi. Eravamo affamatissimi, quindi consumavamo tantissima musica giamaicana e tutte le sue contaminazioni, arrivando a farci influenzare dal crossover, come i Rage Against the Machine, e l’hip hop che in quel periodo era tanta roba.

Il primo impatto com’è stato in un Paese conservatore come l’Italia?
Intanto noi siamo entrati nella scena a gamba tesa, non a caso i fan dello ska più classico non ci hanno voluto bene da subito. Ma a quello che fruisce la musica e non la fa è difficile spiegare che a un certo punto, tu che la fai, ti stufi di sentire e suonare sempre le stesse cose e quindi vuoi mischiarle con altro. E il campionatore è stata una rivoluzione pazzesca.

Allora chi aveva un successo popolare, in certi ambienti, non era ben visto.
Ci davano dei venduti e ancora di più quando abbiamo firmato con una major.

Al tempo c’era ancora quel tipo di critica che ormai sembra scomparsa.
Altroché. Oggi tutti ostentano qualsiasi cosa, basta che luccichi. Noi arrivavamo dai centri sociali, per cui in quegli ambienti certe mosse non erano accolte bene. Ci volle un po’ a far digerire il tutto, ma poi ce l’abbiamo fatta.

Dai centri sociali ad aprire i concerti italiani del PopMart Tour degli U2 nel ’97.
Prima anche a Vasco nel ’90 a San Siro, noi e i Ladri di Biciclette. I suoi supporter non erano per niente facili, però ho ancora questa immagine negli occhi: in alto negli spalti un gruppo di nostri fan con uno striscione. Ma l’ho fatto anch’io di contestare chi apriva i concerti. Come quando vidi gli Ultravox dal vivo e fischiai i Messengers, insieme a larga parte del pubblico, per scoprire che dopo poco avrebbero suonato insieme a loro. Quanto sono stato cretino. Ma da fan sei intollerante, perché aspetti solo il tuo beniamino. Con gli U2 è stato fantastico…

Avete avuto qualche contatto con loro?
Quando stavamo suonando è passato sotto il palco Adam Clayton e ci ha fatto il segno che era ok e già per noi era il massimo. Invece prima di suonare non ci siamo incrociati, perché loro arrivavano col jet privato, ma Bono, da gran signore, nel camerino ci ha fatto trovare una lettera di ringraziamenti e una cassa di birra Guinness. Noi esaltatissimi: «Uè, la Guinness di Bono, scoliamocela tutta…». E pensare che se ne avessi tenuta una sarebbe da collezione.

È quello il momento migliore dei Casino Royale?
Sì, assolutamente.

Quindi è quando si arriva all’apice che è meglio lasciarsi?
Quell’apice ha colpito soprattutto me, perché avevo iniziato anche la collaborazione con Neffa e sui dischi con La Pina e volevo reimpossessarmi del mio istinto. L’ultimo album con i Casino Royale, CRX, è stato difficoltoso e cerebrale. Sono molto più legato a Sempre più vicini, anche se è un po’ più pop ma nell’accezione più nobile.

E com’è che nasce l’idea dell’all-star rappresentata dai Bluebeaters?
Sempre da una cricca di amici, un po’ di Milano, un po’ di Torino, con gli Africa Unite e i Fratelli di Soledad e doveva essere una one night band. Da una serata sono diventate due, poi tre, poi tantissime. Da un disco a due, tre e così via. Ci abbiamo preso gusto e non siamo più riusciti a tornare indietro.

In una vecchia intervista hai detto: «Mi ha preso un po’ la mano». E avete condiviso dischi e palchi per nove anni.
Mi ha preso un bel po’ la mano. Prima ero uscito con il mio primo disco solista Gran Premio, per cui i Bluebeaters dovevano essere come un film in costume e continuare altri album da solo. Pensavo sarebbero rimasti un esercizio di stile, con la ricerca musicale maniacale e dove tutto suonava come lo ska anni ’60. Invece ci è esploso in mano, con la complicità di Gino Paoli. A me piace stare sul palco, cantare e suonare e in quel caso non ci siamo fermati mai.

Quando ha chiamato Gino Paoli per partecipare a due cover come Domani e Che cosa c’è che cos’hai provato?
Io ero ancora permeato dall’ambiente della controcultura, quindi puoi immaginare quando ti chiama il padre dei cantautori. Non ci potevo credere. L’avevo accantonato fino ad allora, ma quando ci ho riflettuto ero già infarcito della sua musica fin da bambino, solo che poi l’avevo messa da parte nell’adolescenza. Che cosa c’è è una canzone armonicamente pazzesca.

La vostra versione l’ha resa impossibile da non ballare.
Un giorno mi chiama Iva Zanicchi per lamentarsi, simpaticamente, che Testarda io, dopo che l’abbiamo rifatta noi, dal vivo lei era costretta a riproporla con il nostro arrangiamento.

Com’è stato collaborare con Gino Paoli?
Ricordo che chiese a Ornella Vanoni di provare una versione, solo che lei non riusciva a entrare nell’one drop di batteria, dove il rullante e la grancassa battono solo nel terzo movimento su un ritmo di 4/4. La capiva al contrario e le sembrava una mazurca. Gino è simpaticissimo, e poter mettere le mani su un brano del genere è stato un grande onore.

A questo punto ci devi spiegare una cosa: come riesci a rendere tutto ballabile?
Forse perché mi piace ballare? (Scoppia a ridere) Credo sia grazie a un orecchio ben educato alla musica. Ricordo quando, verso la fine dell’esperienza con i Casino Royale, iniziò a circolare la passione per la drum and bass e la gente si faceva un sacco di pippe. Ma non era altro che l’evoluzione del dub con i bit velocizzati. Quando ascolto qualcosa lo risento subito con la mia melodia. Ho collaborato con bravissimi musicisti, però mi vanto di aver arrangiato sempre tutto io. Perché in fondo sono un po’ dispotico e voglio che ogni dettaglio sia esattamente come ce l’ho già in testa. Una canzone me la immagino già da ballare. Per questo quando sono sul palco non sto mai fermo un secondo.

Non ti sei fatto mancare neppure le partecipazioni a Sanremo, prima nel 2012 nel duetto con Nina Zilli e poi nel 2014 in gara. Anche quello è un altro momento spartiacque, visto che di lì a poco lascerai i Bluebeaters?
Eh sì. Come l’apertura agli U2 dei Casino Royale, anche Sanremo per me è stato un apice.

Perché è finita con i Casino Royale e con i Bluebeaters? Ha influito solo la tua voglia di cambiare o ci sono state anche altre motivazioni?
Sentivo il bisogno di esplorare nuovi territori e fare le cose a modo mio: gli artisti, si sa, sono sempre in evoluzione e anche io, nel mio percorso, non mi sono mai fermato. In entrambi i casi è stato un distacco naturale, ma di certo non facile. Ho condiviso, con i Casino Royale prima e coi Bluebeaters dopo, dei pezzi di strada non solo importanti, ma fondamentali anche per quello che è venuto e che sono diventato dopo e guardo a quelle esperienze con un po’ di nostalgia da un lato, ma anche tanto orgoglio dall’altro. E credo che il tempo passato dopo queste esperienze serva proprio a questo: a inquadrarle e capire il ruolo che, nonostante le divergenze che credo siano normali in un percorso, esse hanno avuto.

Come valuti la musica che Casino Royale e Bluebeaters hanno continuato a fare dopo che te ne sei andato?
Con i Casino Royale, già con CRX, sentivo che le nostre strade stavano prendendo percorsi differenti. Era come se sentissi che il mio tempo all’interno di quella esperienza fosse terminato. Del resto si tratta di una formazione estremamente “fluida”, i cui componenti sono stati diversi a seconda del momento storico e musicale che la band stava attraversando. Sono stato contento, comunque, di vederli ritornare dopo nove anni di silenzio. Nel frattempo io avevo continuato la mia carriera per altre vie e ho avuto modo di riappacificarmi con quella esperienza e anche, perché no, di apprezzare i loro lavori successivi.

E con i Bluebeaters?
Anche qui ho scelto di proseguire su un’altra strada, anche se i rapporti non si sono mai del tutto interrotti: questa estate ci siamo rincontrati con un paio di loro, Ferdi e Cato, e hanno suonato di nuovo in alcune mie date, è stato bello, sia musicalmente che a livello personale. Sono dei musicisti incredibili, tutti con una storia e una carriera importante. Devo dire che ho apprezzato alcune delle cose che hanno fatto negli ultimi anni, specie per quanto riguarda le collaborazioni con artisti della nuova scena, anche se io rimango affezionato alle cose fatte in passato e che portavano il nostro marchio di fabbrica.

Guardando indietro c’è qualcosa che non rifaresti?
Non credo, perché quello che ho fatto mi ha portato ad altre esperienze. Per cui non saprei valutare niente negativamente.

Però hai ammesso di essere dispotico. È una qualità per un frontman o a volte crea delle incomprensioni in una band?
Nei rapporti con alcuni musicisti c’è stata qualche incomprensione, solo che io gli ho sempre riposto questo: «Fatti un gruppo tuo». Oppure a chi mi criticava, i vari oltranzisti della musica, rispondevo: «Fallo tu». Se non ti piace cambia canale o non venire al concerto.

E a chi ti critica per aver avuto successo reinterpretando brani di altri?
Ho sempre ammesso di non avere facilità nella scrittura. Così, quando ho scritto mi sono affidato a delle collaborazioni con altri autori. Io sono un melodista fanatico e, con tutta la roba che c’è già in giro, non ho mai pensato fosse uno svantaggio non scrivere qualcosa di mio. In fondo con la passione mi ci sono costruito un lavoro e mi ha dato tantissimo.

Di cosa sei invece più fiero?
Di essere nato a Milano e con questa passione per la musica. La città mi ha dato accesso a possibilità che altrove erano precluse, soprattutto allora. Noi ascoltavamo tantissime nuove influenze dall’estero e poi le riadattavamo alla nostra sensibilità. Ho sempre avuto le antenne ben dritte per le novità. Ecco, se c’è qualcosa che avrei dovuto migliorare è sbattermi di più. Come con i social, faccio fatica a usarli. Mi rompo davvero le palle.

In che senso sbatterti di più?
Perché non cerco le occasioni, aspetto che accadono. Come certe decisioni avrei potuto prenderle un po’ prima. Sono uno stacanovista in studio, mentre fuori preferisco oziare.

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Sai che la domanda è d’obbligo: hai mai pensato a una reunion con Casino Royale e Bluebeaters?
È un periodo che le reunion vanno forte. Non sempre sono dettate da qualcosa di nobile e il denaro a volte le favorisce. Può anche accadere che, passati gli anni, tutta una serie di circostanze che ti hanno portato a dividerti vengano smussate. Pensa che quest’estate ho avuto due defezioni e sono venuti a suonare Ferdinando “Ferdi” Masi alla batteria, con il quale fondai i Casino Royale, e Gianluca “Cato” Senatore che suonava nei Bluebeaters.

Quindi si può dire che il periodo è propizio?
Qualche tempo fa l’avrei escluso categoricamente, oggi invece non lo escludo.

Mi pare già tanto. Tu che hai vissuto gli anni dell’esplosione dell’hip hop, cosa ne pensi delle polemiche sui testi ritenuti sessisti e violenti dei rapper e trapper?
I testi in passato non erano più teneri, oggi però, sarà che sto invecchiando, mi sembra che stiano degenerando. In questo senso: mi pare che ci sia poco spessore e tanta comunicazione. I social sono stati una svolta magnifica, puoi produrre in camera tua a Singapore e farti ascoltare in Canada, ma forse bisognerebbe sapersi dare un limite.

Rispetto al passato manca qualche filtro prima che la musica arrivi sul mercato?
Esattamente! Non può valere tutto. Il problema è che anche nei talk invitano a parlare di certi temi dei minus habens. La tv dovrebbe sentirsi più responsabile dei messaggi che diffonde.

Dopo P.E.S. coi Club Dogo, hai avuto qualche proposta di collaborazione da qualche rapper più giovane?
Qualcosa con i rapper sì, con i trapper no visto che non gli servono più i cantanti. Ho collaborato con Murubutu e mi è piaciuto molto, mi ha stupito per la qualità. Il mainstream invece predilige questo maledetto Auto-Tune e non se ne può davvero più. Questi ragazzi non sanno più cos’è un cantato naturale. Mi stupisce che nessuno sia stufo di questa situazione. Un conto è quando l’Auto-Tune è appena accennato, se invece è così potente non si può sentire. Infatti non hanno più bisogno dei cantanti. Che figata quando l’ha usato Cher con Believe, ma lei sapeva cantare. Oggi mi sembrano un po’ tutti dei Grinch.

Qualcun altro con cui ti piacerebbe collaborare?
Willie Peyote, perché ha una band e ha delle sonorità nelle quali mi ritrovo. Io dove non ci sono gli strumenti faccio fatica.

Sei critico anche verso i talent musicali?
In Inghilterra X Factor non esiste più. Una volta sono stato ospite al Daily, ma devo confessare che non l’avevo mai visto prima e non l’ho più visto dopo. Non per essere snob, preferisco guardare cinema e sport. Mi ha appassionato la prima edizione del Grande fratello e poi basta, perché applicato alla musica non mi ha mai interessato. A un certo punto mi è sembrato che ci fosse più la gara per fare il giudice che per partecipare al concorso. Adesso il giudice lo fanno un po’ tutti tra cantanti, attori e forse mancano solo i maghi. Manuel Agnelli, che conosco dagli esordi, mi sembra abbia fatto un figurone. Come Boosta ad Amici di Maria De Filippi. A Morgan voglio benissimo, solo che intorno a lui mi pare ci sia stata poca competenza musicale. Ecco, come dicevo prima il mio problema sono le pubbliche relazioni. Ogni tanto chi lavora con me cerca di spronarmi a uscire e partecipare a qualche cena o evento per stringere rapporti, peccato che non sia portato.

Dopo tanti anni di successi ti sei preso una bella pausa. Dal 2016 sei tornato lo scorso giugno con il singolo Satellite e ora con la ristampa dell’album natalizio Happy Christmas. È stata solo pigrizia, il bisogno di staccare o ha influito anche altro?
A volte può capitare che la vena aurifera si esaurisca. Aggiungi che non ho mai cercato per forza le situazioni e stavolta è passato un po’ di tempo. Ho continuato a fare le date estive live che poi si sono interrotte con il Covid e per uno come me, che campa con i concerti, è stato devastante. Una situazione che mi aveva un po’ incupito, non c’è dubbio.

Adesso con questo album natalizio è tornato il sereno?
Ma sai che a me il Natale ha sempre portato una grossa tristezza? Mi fa provare una profonda malinconia. Per esempio a me piace molto quando piove e non riesco a spiegare agli altri cosa mi pervade. Certo quando c’è il sole a Milano è un po’ meno piacevole che a Ibiza.

E allora perché un album natalizio?
Così mi sono riconciliato con il Natale. Ma soprattutto ci sono delle canzoni americane che sono bellissime. La differenza con altri album in circolazione è che questo porta un po’ di allegria con pezzi come Rocking around the christmas tree e Jingle bell rock che fanno scatenare e due brani nuovi che sono stati aggiunti, Have yourself a Merry Little Christmas e Santa Baby. Insomma, quest’anno grazie alla musica farò fatica a deprimermi con il Natale.

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