Giovani ma determinati: abbiamo intervistato i Gengahr, i pupilli degli Alt-J | Rolling Stone Italia
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Giovani ma determinati: abbiamo intervistato
i Gengahr, i pupilli degli Alt-J

Due giorni fa è uscito "A Dream Outside", il primo album della giovane formazione inglese che tanto piace agli Alt-J, tanto da fargli aprire i concerti

Gengahr. Foto: Facebook

Gengahr. Foto: Facebook

Scopriamo dell’esistenza dei Gengahr (ovvero Felix, Danny, John e Hugh, circa vent’anni a cranio) qualche mese fa, leggendo alcune recensioni entusiastiche pubblicate nella natìa Inghilterra. Recensioni basate sulla loro grande resa dal vivo e su due/tre canzoni, perché non avevano ancora avuto il tempo di pubblicare neanche un album: erano infatti in tour con gli Alt-J come opening act – anche questo un fatto più unico che raro, perché non è usuale che una band così quotata si affidi a dei perfetti sconosciuti per scaldare il pubblico prima dei loro live.

Ed è proprio in un backstage del concerto degli Alt-J che li incontriamo per la prima volta: registriamo quest’intervista nei sotterranei del palazzetto, in un vecchio magazzino polveroso e abbandonato in cui ci rifugiamo per sfuggire al soundcheck dei loro più celebri colleghi. Giustamente, ci tengono che stavolta l’attenzione sia tutta per loro e per il loro atteso album di debutto A Dream Outside, in uscita il 15 di giugno.

Come vi siete conosciuti?
A scuola! Due di noi addirittura alle elementari, mentre gli altri si sono aggiunti alle medie. Iniziare a suonare insieme è stato un processo molto naturale, anche se lungo: prima di fondare i Gengahr ognuno di noi ha fatto parte di una lunga serie di band mai decollate, ma sapevamo che tra di noi c’è la giusta chimica, così ci abbiamo riprovato insieme.

Gengahr - She's A Witch

Ricordate ancora quando è scattata?
Probabilmente durante la lavorazione di She’s A Witch, uno dei primi pezzi che abbiamo scritto, inclusa anche in quest’album. È nata nelle nostre camerette: uno di noi ha registrato il primo provino, l’ha passato al secondo che ci ha aggiunto qualcosa, è arrivato al terzo e così via. Senza quella canzone, i Gengahr non esisterebbero. Ci ha fatto capire le nostre potenzialità.

Cosa significa Gengahr?
Nulla, in realtà. All’inizio avevamo scelto un altro nome completamente diverso, ma c’era già un artista che lo usava. Ci diede un ultimatum: o cambiavamo, o ci denunciava per plagio. Così ci siamo spremuti le meningi per due giorni e alla fine abbiamo tirato fuori Gengahr, solo perché ci suonava bene.

I critici sono unanimi: la vostra forza risiede nelle vostre chitarre. Cosa c’è di così rivoluzionario in quello che fate, secondo voi?
Usiamo un sacco di pedali, riempiamo all’inverosimile le nostre canzoni di suoni ed effetti. È soprattutto John ad essere ossessivo: gli piace inventare da zero il nostro sound. Essere etichettato in un genere musicale non gli interessa proprio, vuole creare qualcosa di completamente nuovo.

Per questo disco vi siete chiusi in una fattoria lontani da tutto e tutti, registrando per una media di 16 ore al giorno…
Quel tipo di isolamento ci è piaciuto: registrare a Londra ci distraeva, salire su un autobus e tornare a casa a fine giornata ci riportava troppo bruscamente alla realtà. La vita in quella fattoria, invece, ci ha mantenuto concentrati sull’obbiettivo finale. Comunque non registravamo davvero così tanto: perdevamo la maggior parte del tempo a collegare gli strumenti e fare i suoni, una cosa su cui siamo davvero molto pignoli. La gente pensa che per fare un disco basti arrivare in studio e strimpellare qualche riff, ma c’è una lunga preparazione: cablare, fare il soundcheck, microfonare gli strumenti nella maniera giusta…

Condividete l’ossessione per il suono perfetto con gli Alt-J. Come li avete conosciuti?
Siamo da sempre loro grandi fan e siamo stati fortunati, perché condividiamo lo stesso manager. Così li abbiamo invitati ad assistere a un nostro concerto: a quanto pare quella sera erano abbastanza ubriachi da apprezzare la nostra musica! Non abbiamo mai suonato da headliner finora, ma è bellissimo avere la possibilità di aprire i concerti per band del genere. È difficile, perché il pubblico arriva per vedere qualcun altro e tu sei in qualche modo un terzo incomodo, ma è anche una gran bella sfida. Non hai niente da perdere: sei obbligato a provare a conquistarli.

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