Giorgio Poi: «Meglio una cena che un concerto di merda» | Rolling Stone Italia
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Giorgio Poi: «Meglio una cena che un concerto di merda»

Non è mai stato uno che va a ballare e, come dice nel pezzo di apertura del suo nuovo album "Smog", non gli piace neanche viaggiare. L'unica cosa che gli riesce davvero bene è scrivere canzoni

Giorgio Poi: «Meglio una cena che un concerto di merda»

Giorgio Poi

Foto: Federico Torra

La data di oggi coincide con la festa delle donne ma anche con l’uscita di Smog, il “primo secondo disco” di Giorgio Poi, come l’ha definito lui stesso sul suo Instagram nel doveroso post che devi fare in questi casi.

Un disco che a detta dello stesso Giorgio non era scontato uscisse ma che, forte di quel piccolo capolavoro di scrittura e arrangiamento che è Fa Niente, ha dato alla possibilità al cantautore e chitarrista nato a Novara (ma con l’accento romano) di presentarsi all’appuntamento con un’opera ancora più strutturata, cesellata di suonini e synth che prima, banalmente, Giorgio non poteva portare sul palco, non avendo ancora un tastierista.

La sera prima del grande giorno, Giorgio è passato in redazione per scambiare quattro chiacchiere esattamente come due anni fa. Stavolta però con una chitarra dietro la schiena, molto più entusiasmo in corpo e una maggiore consapevolezza sulle cose che gli piacciono e quelle che proprio no.

Tu fumi?
Sì!

Ah, ecco, perché dalla copertina sembrava un po’ una critica a chi fuma e ti inquina la stanza, come lo smog.
In realtà era il titolo della copertina, cioè del disegno che ho fatto e poi è diventato la copertina. E anche il titolo del disco. Smog è una parola che mi piace semplicemente, come suona. Ha una fumosità che mi interessa molto.

Ci sono molti più pad e synth rispetto al vecchio disco: è per rendere meglio l’idea della fumosità?
È molto più semplice. Il primo disco è stato fatto per essere portato in giro in tre sul palco, non sapendo comunque come sarebbe stato accolto. Era un disco sostenibile in pochi, quindi qualche synth c’era ma era molto più discreto. Quindi si poteva fare anche senza, inventandosi qualche escamotage. Per questo disco ho deciso già da subito che avrei preso un tastierista per il tour, perciò mi sono sbizzarrito coi synth.

La copertina di Smog

Mi ha ricordato gli ultimi dischi dei Tame Impala, nel senso che dopo un disco molto anni Settanta è arrivato uno che si rifà agli Ottanta.
Sì, questa cosa lì è molto evidente. Non penso di aver scelto appositamente suoni anni Ottanta, per quanto sia inevitabile ricordarli un po’ quando ti metti a smanettare coi synth. In un certo senso è vero, ma ho cercato di utilizzare dei suoni il più neutri possibile. Ovvero, che non caratterizzassero troppo temporalmente i pezzi. Ci sono molti strati di synth, c’è magari un suono di synth che prevale, che è evidente e un po’ più prepotente. Questo secondo me rende il disco più difficilmente inseribile in un’epoca temporale precisa. Secondo me la cosa più anni ottanta sono i chorus, che è un effetto che veniva usato tantissimo all’epoca. Ma ormai è stato completamente recuperato da tutti, non credo che sia più tanto caratteristico di quel decennio.

L’avevi già fatto nell’altro disco e l’hai rifatto: la title track te la sei tenuta strumentale.
Mi piace perché non voglio che ci sia una canzone il cui tema diventi portante per il disco. Quindi, va bene se rimane strumentale perché non tratta un argomento letterale, ne tratta semmai uno musicale. Mi sembra più adatto a dare il titolo al disco. Questo ovviamente se si vuole fare una title track. Altrimenti si cerca un’altra cosa. Per il momento non mi è mai successo di chiamare il disco con un nome che non sia anche una canzone.

Nella strumentale di Smog però si sentono anche dei gabbiani. Da dove arrivano?
I gabbiani bene o male li ho sempre messi. Se ci fai caso, nei miei dischi ci sono sempre degli uccelli, spesso dei gabbiani. Prendo dei campioni qua e là. Ci sono anche delle cicale, che ho registrato sulla spiaggia. Sono all’inizio di Stella.

Adesso dove vivi?
Vivo a Bologna. È stata una scelta molto razionale. È una città che offre gran parte di ciò che può offrire una città, pur essendo di dimensioni molto ridotte. Si può girare a piedi ed è più semplice viverci. E poi hai il grande vantaggio di essere in una posizione abbastanza strategica: in due ore sono a Roma e in una sono a Milano. Per esempio, se si suona al nord io non devo partire col furgone da Roma ma mi caricano a Bologna, che è molto più comodo. Ha dei vantaggi notevoli, è comoda.

Riesci a girare tranquillamente senza essere essere aggredito dai fan?
Certo che sì. Al limite qualcuno saluta, “Ciao Giorgio!”, ma finisce lì. Tutti molto educati.

Avevo già il sentore che non ti piace viaggiare quando nel vecchio disco cantavi “Tornare da New York con un cappotto nuovo, ma con la faccia vecchia di uno che non dorma quando viaggia. Ora l’hai detto chiaro e tondo. E con Non Mi Piace Viaggiare ci hai aperto il disco.
Non mi piace! Non ce la faccio, non c’è niente di romantico nel farlo. Forse il mio mezzo di trasporto preferito è il sottomarino. O il dirigibile. È che io viaggio tanto. Penso che se avessi un lavoro fisso e stessi tutti i giorni nello stesso posto, allora sì che viaggiare sarebbe un momento di rottura della routine. E a quel punto ti piace, perché è una cosa diversa. Per me la cosa diversa è stare a casa. A me piace stare a casa.

Foto: Federico Torra

“A Madonna su un divano”.
Esatto. Io sto veramente bene a casa. Forse è il posto dove sto meglio. Poi ovviamente mi diverto tantissimo quando vado in giro in tour, sono felicissimo, però allo stesso tempo 12 ore di aereo per andare a Los Angeles sono la morte cerebrale. Quella è proprio una cosa che non mi godo, non sento l’entusiasmo di essere sull’aereo. Nemmeno se sto andando a fare una cosa fighissima come un tour coi Phoenix. Quando sei sull’aereo non ti godi nemmeno i film e la musica. Sei lì seduto, scomodo, devi guardare un film su ‘sto schermetto così. Dai. Non mi fa piacere. Poi il cibo non mi piace, il cibo è una cosa importante.

Particolarmente?
Mi piace mangiare. Avendo vissuto 11 anni lontano dall’Italia, una volta tornato qui ho approfondito molto il discorso.

Alla fine la ragazza ne La Musica Italiana, che ha nostalgia del parmigiano, sei tu.
Sì, siamo io e Calcutta. Perché poi anche lui ha vissuto sei mesi a New York, quindi la conosce quella sensazione. Per cui, quando gli ho mandato la prima strofa e una prima idea di ritornello, lui ha sentito subito che la cosa gli apparteneva. Quella sensazione era anche sua. Poi non voglio fare neanche quello che dice che voglio stare a casa con mamma, perché appunto all’estero ci ho vissuto tanto. Bisogna farlo, bisogna andare all’estero, fuori, e capire che cosa c’è. Scopri tantissimi modi diversi di vedere le cose. Poi una volta lì, in un Paese straniero, tu fai una selezione delle cose che fanno meglio lì e di quelle che facciamo meglio noi. Solo lì ti rendi conto di aspetti ed elementi impercettibili della nostra cultura se hai sempre vissuto in Italia.

Tra cui la musica italiana.
Tra cui la nostra musica. Noi abbiamo un modo nostro di fare musica, melodie, di scrivere i testi. Ci sembra una cosa normale ma da lì, da fuori, non lo è. Questa cosa l’ho percepita ascoltando molta musica nostrana. Mi sono reso conto che abbiamo un nostro sapore, un nostro modo di scherzare, ci sono molti elementi che non sono riassumibili a parole.

E ora che sei qua ti capita mai di avere la nostalgia opposta di quando stavi a Londra?
Beh, certo. Ci sono delle cose di lì che mi mancano tantissimo.

Tipo?
Tipo il pub. Io amo il pub, mi piace tantissimo quella dimensione. È un luogo magico d’incontro. Le persone ci vanno anche da sole. L’ultima volta che sono andato a Londra, un mese fa, sono andato in un pub che conosco bene. È un locale molto local, cioè frequentato solo da persone del posto, zero turisti. C’era questo uomo religioso, forse un rabbino, aveva il cappello e i i tipici due riccioloni che cadevano sulle orecchie, quindi sicuramente un ebreo ortodosso. Era ubriaco marcio e parlava al telefono quasi bisbigliando ma prendendo a cazzotti il bancone. Era proprio paffuto, messo un po’ male. Non so che problemi avesse, però le persone dentro al pub non erano assolutamente preoccupate per la situazione. Anzi, chi andava al bancone a ordinare gli dava una pacca sulla spalla, gli diceva “Tutto apposto amico? Dai che passa tutto!”. La barista scherzava dicendo: “Eh, così mi rompi il bancone!” C’era molta compassione. Se invece vai in Italia e inizi a prendere a calci il bancone probabilmente ti allontanano. Invece in un pub vengono lì a chiederti come stai, si prendono cura di te anche se sei uno sconosciuto.

Altra cosa che mi manca molto: sei a una festa in Inghilterra, una festa in casa, e non conosci nessuno. Magari parli pure malino l’inglese. Oh, nessuno ti lascerà mai da solo. Tutti vorranno sapere chi sei, cosa fai, parlare con te. Ci si mischiava, stavi tutta la sera a parlare con perfetti sconosciuti. Poi magari, il giorno dopo, la persona che ti aveva parlato tutta la sera manco ti riconosce, manco ti saluta. Non ha diffidenza iniziale ma magari alla lunga sì. L’italiano forse è l’opposto. Sulle prime ti guarda con sospetto, poi alla seconda, terza volta che ti vede sei un amico. Sarebbe bellissimo trovare in Italia un posto come il pub inglese.

Tu componi sempre con la chitarra, giusto?
Sì.

E Calcutta sempre con la tastiera?
Lui credo che componga con entrambe. Chitarra e tastiera.

Ti spiego perché te lo chiedo: lo strumento condiziona molto lo stile delle canzoni che scrivi?
Sicuramente, lo strumento ti fa scrivere in un certo modo. Non sono molto pratico di pianoforte, ci metterei troppo tempo. Però suono un po’ tutti gli strumenti, dalla batteria al sax. Quindi ho una visione abbastanza generale. Ma è la chitarra che conosco bene. Scrivo con quella perché l’ho esplorata in lungo e in largo.

Hai mai sentito dire da qualcuno “Calcutta e Giorgio Poi, Madonna che tristezza”?
No, è la voce di qualcuno a cui non piace la musica italiana. È un virgolettato. Ci stava, faceva un po’ ridere. E se la contestualizzi non è neanche troppo una roba per ridere. È una canzone che parla di una persona che trova la nostra musica triste e quella di Battisti una merda. Esistono anche quelle persone. In un certo senso c’è una malinconia in quello che scrivo io e quello che scrive Edoardo. È una canzone che parla di eccessiva esterofilia, di gente che come me diceva tante cose prima di partire. Ma che poi una volta all’estero si è dovuta ricredere.

Altra cosa che ti volevo chiedere: nella mia filter bubble ho letto qualche critica isolata a Vinavil e la sua presunta “manovra commerciale”. Non so se sia così o meno, ma come mai a un rapper che nomina marche di scarpe ogni due rime nessuno dice niente, mentre a te che fai un genere diverso sì?
Il bello è che non c’è proprio nessuna operazione commerciale! Manco quando nomino EasyJet. Anche perché se ci fosse, diventerebbe un’imposizione sulla mia arte. Ok, se uno mi dà ‘na felpa e mi dice “Oh, mettiti ‘sta felpa e scrivi due hashtag” allora non me ne frega niente. Se però mi dici di mettere il nome del tuo brand, è troppo forzato. Vinavil è una colla, la canzone vuole parlare di questa persona che ha il cuore che si scioglie quando fa caldo. Il nome Vinavil ci stava bene con la metrica, così l’ho messo.

A questo punto forse due soldini dalla Vinavil te li potevi far dare secondo me. Nessuna vergogna.
Forse sì. Anche perché le canzoni sono un linguaggio corrente e i brand sono anche loro parte di questo linguaggio. È inutile dire “la colla bianca liquida che eccetera”. Si chiama Vinavil.

Solo per gioco è quasi un inno “vaschiano”, hai mire espansionistiche da arena o stadio?
In realtà no. È già molto difficile scrivere una canzone che ti soddisfi, se poi ti metti anche dei paletti su dove vuoi andare o dove sia meglio cantarla allora è praticamente impossibile. Semplicemente, uno scrive la migliore canzone che gli viene in quel momento. Una canzone deve emozionarti e soprattutto deve piacerti anche il giorno dopo. E il giorno dopo ancora. Non ci sono poi tanti pensieri quando uno scrive. Anche se ci fosse un sistema preciso, sarebbe troppo semplice.

Se sei uno da casa, ho quasi paura a chiederti come festeggerai l’uscita del disco.
Una bella cena, che può durare anche a lungo. Meglio quella che un concerto di merda. Sono sempre stato così, anche a 18 anni. Ma poi non è che uno se è giovane deve andare a ballare. A me ballare fa cagare, non mi piace. Mi piace vedere i bei concerti. Però dev’essere un bel concerto, perché sennò mi rompo il cazzo comunque. Voglio vedere un gran concerto, come quelli dei Phoenix.

Però forse sono importanti anche i concerti di merda. Per farti apprezzare ancora di più quelli belli come i Phoenix?
Dici? Mah, io quelli di merda me li evito volentieri.

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