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Giorgio Gaber, il mio papà normale

Dalia Gaberščik racconta la figura di suo padre, il Signor G, che oggi avrebbe compiuto 80 anni. E ci spiega perché chi lo ha visto a teatro ancora oggi impazzisce per lui

Foto Ennio Sterchele, 1972

Qui nacque nel 1939 Giorgio Gaber. Inventore del Teatro-Canzone. La sua opera accompagna vecchie e nuove generazioni sulla strada della libertà di pensiero e dell’onesta intellettuale”. Così è scritto sulla targa che dalla sera del 25 gennaio accoglierà tutti quelli che passeranno da via Londonio 28, in zona corso Sempione, a Milano. Qui era nato e ha vissuto i suoi primi anni Giorgio Gaber, che oggi avrebbe compiuto 80 anni.

Figlio di un impiegato e di una casalinga, immigrati a Milano dal Nord Est, ha cambiato per sempre la cultura in Italia, fondendo linguaggi e facendo incontrare la musica e il teatro come nessuno aveva fatto prima. Il jazz, poi la canzone italiana, assieme a Tenco, Jannacci e Celentano. Il suo percorso artistico, da lì, non si è più interrotto, arricchendosi sempre di nuove esperienze e di traiettorie originali. 

Gaber, e assieme a lui il suo alter ego, il Signor G, è scomparso la notte di capodanno del 2002, un anno e mezzo dopo aver pubblicato il suo ultimo album, La mia generazione ha perso, fotografia decisamente a fuoco di un Paese che stava cambiando, con traumi non da poco. Sono in molti ora a dire che la sua capacità di lettura e racconto della realtà, la sua profondità e ironia, sarebbero molto utili in questi tempi assurdi e feroci. Hanno ragione.

Di cosa ha rappresentato e cosa rappresenta oggi Giorgio Gaber parliamo con Dalia Gaberščik, figlia del Signor G. Vicepresidente della Fondazione Gaber, è rimasta nel mondo della musica, di cui è una figura chiave in Italia: è la fondatrice di Goigest, tra le principali società di comunicazione nell’ambito dello spettacolo del nostro Paese.

Che giornata è questa per te?

Molto strana. Pensavo che sarebbe stata una celebrazione personale, assieme ai miei e ai membri della Fondazione, che per me sono una seconda famiglia. Invece in queste ore ho ricevuto una dose di affetto enorme, spropositata. Che non può che fare piacere.

Nei giorni scorsi abbiamo celebrato i 20 anni senza De Andrè, ora il compleanno di Gaber: in entrambi i casi la commozione è stata tanta. L’Italia si sta “specializzando” in questo tipo di celebrazioni?

Al di là della grandezza dei personaggi, credo abbia a che fare con il forte vuoto che avvertiamo in questi anni. Ci ho riflettuto parecchio. Se penso all’attenzione mediatica che ha avuto di recente papà, a volte sono incredula. E penso che lui per primo ne sarebbe sorpreso, perché ne ha avuta molto più ora di quando era in vita. Vale, per rimanere a questi giorni, anche per Freddy Mercury. Credo che, in qualche misura, abbia a che fare con un sentimento forte delle generazioni precedenti, quella di Faber e papà e quella dei Queen, verso i “loro” artisti, un legame che oggi si fa maggiore fatica a costruire.

Foto di Ennio Sterchele, 1972

I 16enni di oggi che sentimento hanno verso una figura come quella di Gaber, che se ne andava quando loro nascevano?

Lorenzo, il mio figlio più grande, da tempo porta in giro nelle scuole una lezione-spettacolo su suo nonno. Ha fatto più di 200 repliche. All’inizio, racconta, c’è sempre un po’ diffidenza, temono di annoiarsi. Alla fine il loro diventa entusiasmo. Siamo abituati a codificare i giovani con stereotipi superficiali e un po’ scemi, invece le nuove generazioni, spesso, hanno una grande passione per ciò che c’era prima: studiano, si informano. Per me, ad esempio, non era così. Anche perché non ricordo, da ragazzina, di aver avuto riferimenti come sono oggi per giovani e meno giovani personaggi come Gaber o Jannacci.

E nel mondo della musica e della cultura Gaber è stato “capito” del tutto secondo te? O, paradossalmente, è più facile farlo per gli studenti?

Secondo me c’è un’enorme distinzione tra chi lo ha visto e sentito, soprattutto a teatro, e chi “ne ha sentito parlare”. Questi spesso si limitano a La libertà, Destra-Sinistra, o, quando si spingono in là con l’approfondimento, Non insegnate ai bambini. Per quelli di un’altra generazione, invece, lui è soprattutto Barbera e champagne, Torpedo blu e Porta Romana. Ovviamente va più che bene, anche perché tutti parlano comunque bene di lui. Ma chi è stato ai suoi spettacoli ha un altro tipo di visione, spesso impazzisce per Gaber.

Ci dici le tre canzoni della tua vita.

Goganga da bambina mi piaceva per via della pernacchia. Amo Non insegnate ai bambini, perché è stata scritta dopo la nascita dei miei figli e quindi in qualche modo mi riguarda direttamente. E poi Qualcuno era comunista, che è la sintesi massima del teatro canzone: in sei minuti racchiude risate, pensieri, musica e commozione. Era davvero un grande godimento sentirla a teatro.

Tutti ti chiedono cosa penserebbe dell’Italia oggi. Lo faccio anche io.

Diciamo che negli ultimi anni era molto più interessato alle nevrosi del sistema-uomo, che alla piccola bagarre politica quotidiana. Vero è anche che fino a due anni fa Destra-Sinistra, un pezzo del 1994, era molto attuale. Ora lo scenario è del tutto cambiato, per cui immagino la cosa lo interesserebbe, e probabilmente sarebbe divertito da una contrapposizione spesso didascalica sui vari argomenti. Oppure, forse, si occuperebbe di immigrazione, visto che il tema dell'”altro” era già stato al centro di Sogno in due tempi. Ci tengo a dire che da questo punto di vista lui non si è mai tirato indietro: ci sono dei pezzi di teatro canzone che indicano più che chiaramente come vedeva il mondo. Ma, in generale, faccio fatica a immaginare cosa ne penserebbe di questo enorme casino in cui siamo finiti.

Oggi avrebbe Instagram secondo te?

Su questo ho le idee più chiare. Lui ha volutamente abbandonato la tv, il successo più popolare – e tanti soldi – per l’unico mezzo che riconosceva: il teatro, che per lui è stata una folgorazione, la passione di una vita. Gli sembrava di parlare ogni sera con ogni singola persona che stava seduta di fronte a lui, e questo era molto emozionante per lui. Per nessuna cifra o motivo avrebbe rinunciato a questo tipo di comunicazione. Quindi penso che i mezzi digitali gli starebbero un po’ stretti da questo punto di vista.

Riesci ancora a vederlo “fisicamente” accanto a te?

Purtroppo tutti abbiamo davanti a noi le immagini degli ultimi momenti con i nostri cari, a fronte magari di 50 anni assieme. La nostra mente fa questo giochino perverso. Un po’ come se lavorassimo di backup, e ti rimanesse solo l’ultimo salvataggio. Io ho un’enorme fortuna: foto, filmati e dischi me lo fanno ricordare in tutti i momenti della sua vita. Ho visto di recente uno speciale di Rai Storia con le immagini di papà da ragazzino, poi dal vivo al Lirico – che, a lui dedicato, speriamo riapra presto – e in tanti altri momenti. Poi, se mi concentro, mi tornano alla mente anche gli ultimi momenti, quando non stava bene. Ma per me papà non è solo quello, e ritengo sia una grandissima fortuna.

Riascolti le sue canzoni?

Poco, perché le conosco davvero tutte a memoria.

Cosa augureresti di prendere da lui ai musicisti con cui lavori?

Papà amava definirsi “persona normale”. Quest’epoca ha sfornato tanti artisti – ma non quelli con cui lavoro io (ride) – che hanno un po’ perso la testa, quindi gli augurerei un po’ di “normalità”. Quello sì.

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