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Giorgieness: «A volte il cattivo della favola sei tu»

Ma anche gli altri sono 'Mostri', come dice il titolo dell'album dove mette in musica la fine dei suoi vent'anni. Rock, mercato, femminismo. «Avremo vinto quando in Italia ci sarà una Phoebe Bridgers»

Foto press

Voleva pubblicare almeno tre dischi prima dei trent’anni e ce l’ha fatta, come dice lei, per il rotto della cuffia. Prima che, il prossimo dicembre, i trenta arrivino a decretare la fine dei vent’anni di Giorgieness la cantautrice ha pubblicato il 28 ottobre Mostri, un album per certi versi più pop e per altri rivolto a una nicchia ancora più circoscritta rispetto al pubblico che da tempo segue Giorgia D’Eraclea.

L’artista valtellinese con base a Torino torna a reclamare il suo posto nell’alternative italiano. È capace di lavorare in profondità sui contenuti con ricchezza di linguaggio e con lo spirito grunge che la tiene lontana dall’ossessiva ricerca dell’originale e del bizzarro. Cresciuta tra punk band al femminile e chitarre acustiche, Giorgieness suona da quando aveva 15 anni, ma non si è mai affermata tra il grande pubblico e per imbattersi nella sua musica un po’ bisogna faticare. Mostri, a cui ha lavorato con un nuovo team, è per la cantautrice un po’ un nuovo inizio.

«È un modo per presentare quello che sono diventata. È un disco di cambiamento ma lo definirei una conseguenza naturale di quello che ho cercato di costruire fino ad oggi cercando sempre di non pensare troppo alle tendenze, ma a quello che volevo fare, seguendo questa grande ambizione di fare dischi che anche tra dieci anni abbiano un senso. Era quello che volevo fare già con il secondo album, ma evidentemente non ero ancora in grado di tradurlo in musica. Finalmente questo è il disco della verità: se mi guardo allo specchio e ascolto la mia musica finalmente le due cose combaciano».

Verità è sinonimo di autenticità. A volte nelle fasi di passaggio, quando ci sono cambi di etichetta, di produttori, di prospettive, ci si perde un po’. In Mostri invece si riesce a riconoscere la Giorgieness di La giusta distanza (2016) e Siamo tutti stanchi (2017) in ogni canzone. Cos’è per te, oggi, l’autenticità?
Io credo che sia un lavoro di ricerca su se stessi a 360 gradi, che non si limita alla musica. Si tratta di capire dove sei e cosa puoi fare con quello che hai, andare oltre l’ambizione di finire in una playlist, anche se mi rendo conto che ci sono dinamiche e logiche di mercato di cui non si può non tenere conto. Devi capire cosa vuoi comunicare e a quel punto avere il coraggio di farlo. Sono rimasta molto sorpresa che uno dei pezzi più ascoltati del disco sia stato Il giardino del torto, che per me è quasi prog e che credevo fosse un pezzo difficilissimo. Questo forse vuol dire che se riesci a essere sincera e a raccontare qualcosa di vero questo arriva. Sento che le persone che ascoltano la mia musica mi somigliano in qualche modo. Ho capito che per rimanere coerente con me stessa non devo per forza piacere a tutti.

Una band a cui sei da tempo vicina e con la quale hai collaborato, Le Endrigo, sta partecipando all’edizione 2021 di X Factor. In pochi nel mondo indie citerebbero i talent come esempio di coerenza. Tu ci andresti?
Onestamente non so più quali sono le regole del gioco e credo che uno debba fare quello che pensa sia giusto per il suo progetto. Le Endrigo sono una band che è stata sottovalutata per una vita e non capisco perché. Sono ragazzi che fanno quello che faccio io da anni e non vedo niente di sbagliato nella scelta di partecipare a X Factor. Ci abbiamo provato con le armi che ci sono state date, ma purtroppo non sempre è il talento a portarti dove vorresti, ma incontri e accadimenti che possono succedere o non succedere. A X Factor, tra l’altro, vanno anche progetti già avviati con dietro discografici e manager. Quindi se te la senti ben venga anche X Factor. Alla fine è una promozione pagata, è giusto giocarsela al meglio.

Niente di male, insomma?
L’unica cosa che in questo momento mi sta dando molto fastidio è questa corsa al rock’n’roll e alle chitarre, quando in Italia abbiamo almeno da vent’anni delle eccellenze musicali che fanno rock e lo fanno anche in modo più innovativo e personale. Non ho assolutamente niente contro i Måneskin, che secondo me sono dei fighi e stanno facendo quello che a 15 anni volevamo fare tutti in sala prove solo che loro l’hanno fatto davvero. In questo caso parlo proprio delle dinamiche che vedono le band andare verso quello che funziona in un dato momento, sfruttando il ritorno di scena delle chitarre o i temi della comunità LGBTQI+. C’è gente che da una vita versa lacrime e sangue in sala prove e non gli è mai stata data una possibilità dicendole che c’erano troppe chitarre. Non gridiamo quindi all’innovazione, perché non si tratta di questo. Non è un’apertura reale, è un trend che non è detto che prosegua l’anno prossimo.

Stessa idea sul Festival di Sanremo?
No, ecco, Saremo è sicuramente tra i miei sogni. Vedermi rotolare per le scale.

Quali sono le “prime volte” di questo disco?
Intanto è cambiato il team. Poi ho lavorato in modo molto più disteso e questa è una cosa che mi fa piacere perché il momento in studio di registrazione è sempre stato molto conflittuale per me. Invece questa volta abbiamo lavorato senza grandi litigi e senza grandi problemi. Come per i precedenti dischi nasce tutto dalla prima pre produzione dei brani, che faccio a casa. Mi metto al pc e cerco di fare la cosa più vicina al pezzo che ho in mente prima di consegnalo ai produttori. In questo caso il primo era Davide Napoleone che procedeva con la produzione lavorando alle parti più musicali. A quel punto entrava in gioco Ramiro Levy dei Selton con i suoi contributi. Abbiamo avuto la grande fortuna di ascoltare più o meno la stessa musica e loro conoscevano i miei punti di riferimento: non c’era neanche bisogno di spiegarglieli. Alla fine del processo Ramiro ed io andavamo in studio a finalizzare il pezzo con Marco Olivi. Per la parte grafica invece ho lavorato con questo collettivo di ragazze che si chiamano Le Scapigliate, artiste di vario tipo che hanno base qui a Torino e oltre a essere bravissime artiste sono anche carissime amiche.

Che tipo di progetto avete sviluppato?
Abbiamo pensato di continuare sulla scia della citazione cinematografica come è stato per quasi tutte le copertine dei singoli. Questa volta, per la copertina del disco, parlando di mostri interiori non potevo non pensare ad Harmony Korine e a Gummo. La cover di Mostri, realizzata vicino a Porta Nuova a Torino, è una citazione di una scena del film in cui un personaggio è su un cavalcavia con queste orecchie da coniglio. I passamontagna, fatti da Chiara Giordano, ricordano le spring breakers, quindi un altro film di Harmony Korine, oltre che le Pussy Riot. Abbiamo fatto queste scelte anche perché nel corso nel brainstorming che abbiamo condiviso per realizzare il progetto ci siamo chieste come potevamo parlare di femminismo in modo iconico, con un linguaggio figurativo, con una sorta di manifesto.

A proposito di femminismo, l’ultima volta che ci siamo sentite il tema era la presenza, sempre troppo scarsa, delle donne nei festival musicali. Ne è uscito un articolo che ti ha esposta a una shitstorm d’insulti sui social poco degna di un paese civile.
Quello che è successo l’altra volta è stato molto indicativo di quanto sia importante parlarne. Ho passato una giornata terribile, poi ho deciso che avrei smesso di leggere i commenti delle persone. Nonostante i commenti negativi però l’articolo e quello che ho detto sono arrivati a un sacco di gente. Per me la battaglia è principalmente non stare zitte, continuare a parlare di questo tema a costo di esporsi agli insulti. Come in altri ambiti anche nella musica bisogna avere il coraggio, non solo io ma anche chi è più esposto, di raccontare i problemi, le dinamiche più brutte, raccontare magari che finché non c’è stato un uomo di potere a sostenerti non ce l’hai fatta, ma magari eri già brava e talentuosa prima. Vorrei che si parlasse di più anche tra di noi e che tra vent’anni nessuna cantautrice – o pochissime rispetto a quelle che oggi fanno fatica – debba avere difficoltà nel farsi ascoltare. È frustrante. Anche a me nel tempo piacerebbe avere delle donne nella band, lavorare con delle produttrici donne o anche fare dei featuring con delle donne. Non è facile perché la paura di esporsi c’è sempre, non solo per te ma anche per le persone che lavorano con te. Forse la mia battaglia è proprio continuare ad affermare che esistiamo. Quando anche in Italia ci sarà una Phoebe Bridgers avremo vinto.

Ancora meno degno di un Paese civile è stato in questi giorni l’iter del ddl Zan, la legge contro l’omotransfobia con ogni probabilità ormai definitivamente affossata, dopo il passaggio al Senato del 27 ottobre, con tanto di inni di giubilo ed esultanza.
È vergognoso che dobbiamo ancora scendere in piazza per i diritti civili. Avevo le lacrime agli occhi dalla rabbia non solo per il fatto che il ddl sia stato affossato, ma anche per la modalità, quella gioia e quell’arroganza agghiacciante. In sostanza stai esultando del fatto che delle persone non possono vivere la loro vita come vogliono. Quello che si sta chiedendo è semplicemente la libertà di vivere la propria vita, senza dar fastidio a nessuno peraltro, e la cosa che mi dà più fastidio è la strumentalizzazione dei bambini, chiamati in causa sempre e solo quando conviene. Poi ci sono queste teorie allucinanti per cui ai bambini viene imposto di essere gay o di essere fluidi. Non capisco e non credo che capirò mai perché un’altra persona debba avere paura della libertà di qualcun altro. Per le persone arroganti e ignoranti è inammissibile non poter odiare ad alta voce perché l’unico modo che hanno per manifestare una qualche supremazia è sapere che loro sono quelli giusti. Sono disgustata e sono in ascolto e pronta a continuare questa battaglia con i canali e i modi che ho, anche semplicemente amplificando la voce di altre persone.

Non sono questi però i mostri di cui parli nel disco…
Ci sono lati di noi che sono brutti e non c’è niente da fare, tutti abbiamo qualcosa che ci fa vergognare ma se non riesci ad accettarlo vivi davvero male. Già il secondo album lavorava molto su questo ma racchiudeva tutto il percorso per arrivarci. Il brano Umana parlava proprio di questo. In Mostri forse ho raccontato cosa succede quando te ne rendi conto e ricominci a vivere. Non so se sono i trent’anni alle porte ma mi sento proprio all’inizio di una nuova fase. Ci sono delle cose che non puoi cambiare, ci sono volte in cui il cattivo della favola sei tu e puoi solo fare in modo che non succeda più. La tua vita non può finire lì, non ti puoi arroccare nelle cose brutte, bisogna anche avere il coraggio di essere felici. Bisogna capire che la tristezza e la felicità sono entrambe momenti. Si tengono stretti e si va avanti.

“Questa è la mia tristezza, il mio blues”, canta Nada nel suo più recente album d’inediti È un momento difficile, tesoro. In una vecchia intervista dicevi che se dovessi pensare a te tra diversi anni lei sarebbe l’unico nome che ti verrebbe in mente.
Intanto mi piacerebbe moltissimo collaborare con lei, anche subito, ma anche proprio attaccarle i cavi sul palco. E poi confermo quello che ho detto. Non apprezzo solo la sua musica in sé, nonostante ci siano canzoni fondamentali per me nella sua discografia, ma apprezzo soprattutto lei sul palco. Quando è lassù potrebbe avere 15 anni come 209, è una cosa a parte. Non ha più un’età, non ha più un corpo, è soltanto quello che sta facendo e la potenza di quello che trasmette. In più mi piace un sacco il suo percorso, ha fatto al contrario rispetto a un’artista indipendente, partendo con Ma che freddo fa e un sacco di esposizione e negli anni, invece, ha continuato a circondarsi di giovani e questa cosa credo che sia indicativa del fatto di voler continuare a fare musica in maniera originale. Nada rimane in Italia il mio riferimento.

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