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Gino Paoli, che rockstar

«Sembravo intimista e invece facevo le stesse cose dei rocker». A casa del padre dei cantautori per farci raccontare 60 anni di musica, i casini, il caratteraccio «contro le ipocrisie», la gente «che per l’80% è stupida», il successo «che non rivela le tue qualità migliori», gli incontri con Tenco, De André, Dalla, Zucchero. E la morte: «Quando arriverà non mi dispiacerà: questo mondo non mi piaceva e continua a non piacermi»

Foto: Franco Origlia/Getty Images

Cosa farò da grande afferma Gino Paoli nel titolo della sua autobiografia (Bompiani) scritta con Daniele Bresciani, e non se lo domanda perché ha sempre avuto le idee chiare. È ancora così alla soglia dei 90 anni, che compirà il prossimo 23 settembre. Un sacco di storie, pensieri e progetti di passato, presente e futuro ce le ha raccontate chiacchierando nella bella casa di Nervi, alle porte di Genova, dove ci ha ospitati tra una focaccia genovese e la vista del mare che non può mancare nel suo orizzonte.

Dicono non sia facile avere a che fare con l’autore del Cielo in una stanza e Sapore di sale, perché a una spiccata ispirazione verso la descrizione in musica dei sentimenti si aggiunge un carattere piuttosto refrattario a ipocrisie e compromessi. Non a caso, nel libro ricorda quella volta che cercò di investire in auto un paparazzo o quando entrò nella redazione di un giornale di gossip con una mazza da baseball minacciando di spaccare la testa a chi aveva scritto certi articoli. Per fortuna a compensare il suo lato più burbero c’è la moglie Paola Penzo, come lui stesso ammette: «È la mia proiezione gentile e carina». Così ci parlerà di tutto, partendo dall’autobiografia dove ha inserito più gli errori dei successi senza risparmiarsi nulla, come una vera rockstar: «Sembravo intimista e invece facevo le stesse cose dei rocker».

Dalla cronica pigrizia che non lo fa scendere in studio a registrare cinque canzoni inedite già pronte al famoso caratteraccio: «Se qualcuno ti dice che sono refioso (in genovese “scostante”, nda), significa che mi ha affrontato nello stesso modo». Dalle sigarette sostituite con quelle elettroniche che considera «delle porcate» a Giorgia Meloni che sullo slogan “dio, patria, famiglia”, colpevole di ogni guerra, «mi dovrebbe pagare il copyright». Poi la musica, che ha attraversato per 60 anni da protagonista e da talent scout: Tenco che «era più allegro» e quando lui si sparò gli disse: «Gino, queste cose non si fanno. E poi l’ha fatto lui». Ancora, i calci nel culo a De André per farlo esibire, la vendetta verso la giornalista che iniziò a perseguitare Bindi perché omosessuale, i pezzi scritti e non firmati per sostenere Little Tony o Zucchero, il problema con la droga di Califano, Mina con meno cuore della Vanoni e il suo erede Vasco Rossi. Fino alle generazioni di artisti che ci stiamo perdendo a causa di chi li seleziona («con questi filtri non sarebbe esistita la scuola genovese»). Persino sui Måneskin, che non ascolta ma di cui ha sentito fin troppo parlare, non ha dubbi: «Sono tre bei fighi e una bella figa, per quello funzionano».

Dice di cercare la bontà ma di trovare troppa cattiveria. Mentre lo sostiene, in tv passano le immagini dei bombardamenti a Gaza. Ricorda di essere cresciuto sotto le bombe della Seconda guerra mondiale: «Conferma che l’80% della gente è stupida». E anche per questo non ha timore della morte: «Quando arriverà non mi dispiacerà, questo mondo non mi piaceva e continua a non piacermi».

Nel suo libro premette: “Il mondo della musica e dell’arte in genere è pieno di persone capaci di opere meravigliose che poi nella vita privata hanno un carattere di merda”. Quando chiesi un’intervista alla poetessa Patrizia Valduga mi rispose: “Voler incontrare uno scrittore che si ama è come amare il pâté e voler conoscere l’oca”. Per lei una delusione fu conoscere Chet Baker, come mai?
Amavo molto come suonava, ma quando l’ho conosciuto era arrogante e stupido. Lasciamo perdere, non solo lui. Però l’importante è l’opera. Anche se la persona è stronza quello che conta è ciò che sa fare. Meglio non affidarsi al proprio giudizio sulla persona. Ci sono alcuni che a prima vista mi piacciono e altri no. Io in questo sono tremendo.

Per ora tra noi è andata bene…
Tenga conto che quando una persona non mi piace mi alzo e vado via.

Visto che si è disteso sul divano lo prendo come un buon segno. Un altro aspetto che emerge dalla sua autobiografia è che non ha mai cercato il successo.
No, perché nella mia vita non ho mai cercato niente, sono sempre rimasto seduto sotto l’albero in attesa che cadesse il frutto. Sono pigro di costituzione. Fortunatamente sono in buona compagnia, Oscar Wilde o George Bernard Shaw hanno scritto degli elogi della lentezza. A me non ha limitato. Come quando mi dicevano che fumavo troppo.

Vedo che ora usa la sigaretta elettronica.
Mi tocca accontentarmi di queste porcate. Tempo fa eravamo rimasti io e Andrea Camilleri come grandi fumatori, e così un giorno l’ho chiamato per chiedergli cosa ne pensasse. E lui mi rispose: “Io sono arrivato a 80 anni e so di altri che non fumano che non ci sono arrivati”. Io sono quasi arrivato a 90, per cui quasi quasi consiglierei…

Gino Paoli oggi. Foto press

La moglie non gli fa concludere la frase e, amorevolmente, lo riprende: «Tira l’acqua al suo mulino». Intanto porta a tavola pasticcini e focaccia genovese, confermando la sua nota ospitalità. E il marito sottolinea: «Lei è la mia proiezione gentile e carina. Ci compensiamo».

Quando però il successo è arrivato come l’ha affrontato?
Sicuramente il successo non rivela le tue qualità migliori. Soprattutto quando arriva all’improvviso. Da un giorno all’altro tutti ti danno ragione, ed è chiaro che sballi un po’. Sei mesi, un anno, e poi di solito riesci a riprendere la guida della barca. Noi, io, Luigi (Tenco, nda) e Bruno (Lauzi, nda), che dicono erroneamente che avremmo inventato la scuola genovese, eravamo amici prima di fare questo lavoro e ci pigliavamo per il culo. Quindi se qualcuno si sentiva arrivato gli altri gli davano una pacca. Per cui era difficile sentirsi a lungo nello status di star. Sono stato molto aiutato da questa autoironia. Oggi invece anche chi non è nessuno se la tira, ma è perché non ha intorno chi gli dà una pacca.

Tra l’altro, nel suo racconto emerge un Luigi Tenco allegro e disincantato, molto distante dalla figura triste e introversa che gli è stata cucita addosso dopo la morte.
Luigi era più allegro di noi. Si inventava gli scherzi. Quando abbiamo visto insieme il film di James Dean Gioventù bruciata, abbiamo capito che essere un po’ ruvidi e corrucciati funzionava con le ragazze. Andavi in un locale, facevi l’intimista e loro ci cascavano subito. Questo deve aver influenzato chi non lo conosceva e poi lo ha dipinto come uno ombroso.

A un certo punto scrive: “Sono convinto che l’artista che dice ‘ho trovato’ sarebbe meglio che smettesse di fare quello che fa e che cambiasse mestiere perché il suo ciclo è finito”. Dovrebbero ricordarselo diversi suoi colleghi?
Chi cerca è sempre un artista, chi non cerca no. Credo fosse Georges Brassens a dire che per una canzone è necessario “mettere le tre sillabe che servono sulle tre note giuste”. Può essere bella o brutta, ma se funziona è un’alchimia. Io ho sempre espresso quello che sentivo, ma poi ci sono canzoni bellissime inascoltate e altre del menga che diventano successi mondiali.

Oggi molti artisti giovani interpretano canzoni firmate anche da dieci persone. È solo una questione economica?
Il mercato musicale dipende da diverse persone: dal produttore, dal direttore artistico e dalla casa discografica. I filtri sono questi. Se noi, allora, fossimo stati giudicati da questi filtri non sarebbe mai esistita la scuola genovese. Nanni Ricordi cercava solo qualcosa di diverso, non meglio o peggio di quello che già c’era. Non è andata sempre bene, per alcuni aveva investito molto e non hanno funzionato. Ma questa ottica ha permesso di tirare fuori gente come noi. Come Gian Franco Reverberi, che si portava dietro Piero Ciampi dopo aver fatto il militare insieme, e divenne il direttore artistico della Ricordi. Lui si giustificava dicendo che si sentiva solo a Milano e ha chiamato un po’ di amici, ma aveva intuito certe tendenze.

Quindi visto che da anni, per emergere, i musicisti devono passare attraverso produttori, direttori artistici e case discografiche, ci stiamo perdendo generazioni di artisti?
Certo, sono convinto che ci siano in giro diversi talenti, e per questo motivo non emergono. Quando io li sentivo e li spingevo, come Lucio Dalla o Ornella Vanoni, poi arrivavano. Per riuscirci con Dalla, così basso e brutto come la fame, ci volevo solo io, perché ci vuole qualcuno che ha una sensibilità per capire il talento altrui. Se questa sensibilità deve passare da chissà quanti filtri, è più facile che rimanga a fare quello che fa per la strada.

I Måneskin sono passati da molti filtri, come li ha definiti, e sono arrivati a raccogliere un successo mondiale. Hanno delle qualità o li considera solo marketing?
Non potrei valutarli perché non ho mai sentito le loro canzoni. Ma so che quel che conta oggi è come uno si presenta. Non a caso siamo nell’epoca dell’apparenza. Se l’apparenza è quella giusta, che cantino qualsiasi cosa non frega niente a nessuno però arrivano. L’importante è impressionare. Il Festival di Sanremo sai da chi nasceva?

Dagli editori?
Esatto, proprio da loro. Che intendevano e sceglievano le canzoni che potessero essere di portata mondiale e le mandavano a Sanremo. Non erano le case discografiche che spedivano i dischi. Era un filtro con le palle. Se adesso fosse come allora, in quanti non ci arriverebbero?

A Parigi negli anni ’60. Foto: Mondadori via Getty Images

Visto che mi sembra un peccato non avere l’analisi così esperta di Gino Paoli sulla musica dei Måneskin, mi giro verso Paola e la invito a rimediare alla sua pigrizia: «Signora, se nei prossimi giorni, per caso, le scappasse su quel bel giradischi un album dei Måneskin, ci farebbe sapere cosa ne pensa suo marito?». Ma Paola ha un’opinione tutta sua e per nulla scontata: «Sì, anche perché penso che se un gruppo arriva ad avere un successo mondiale del genere, qualcosa deve avere. A me non arrivano, però hanno qualcosa in più rispetto a tanti altri. Nel mondo ascoltano Pausini, Ramazzotti o Ferro, che però è musica melodica, mentre loro fanno rock. A parte la bellezza di Damiano, tutte le mie amiche ne vanno pazze». È in quel momento che Paoli sobbalza sul divano: «Sei arrivata al punto chiave».

Cioè l’estetica?
Oggi se condisci col sesso qualsiasi cosa poi arriva. Persino nelle pubblicità. Loro sono tre bei fighi e una bella figa, e per quello funzionano. Posso anche sentirli, ma sono convinto che non siano eccezionali come sembrano perché giocano su un tasto facile come la sessualità.

Ora manca solo l’ascolto. Ma non sarà che, dopo tanto rap e trap, c’era voglia del ritorno della musica suonata con gli strumenti?
Può essere una chiave di questa alchimia. Ma non bisogna dimenticare la promozione, quello che gli sta intorno. Io non li ho mai sentiti, ma ne ho sentito parlare eccome di loro. Sul suonare gli strumenti, una volta per iscriversi alla SIAE bisognava fare un esame, e quando sono andato io c’era con me Giampiero Boneschi, direttore d’orchestra e pianista eccezionale. Io sono passato e lui no. Sono sicuro che l’80% della gente è stupida, quindi devi soddisfare quella parte, mentre il 20% che ti manda a cagare non conta. E questo è anche il guaio delle elezioni…

La maggioranza non sempre decide per il meglio?
Visto che adesso conta solo l’apparenza, mi piacerebbe prendere uno come Lucio Dalla e farlo diventare un politico. Paola, tu avresti votato più uno come Lucio o uno come Rutelli? (la moglie stavolta non raccoglie la provocazione, nda)

In generale, le piace l’Italia di oggi?
No. Io sono agli sgoccioli, ho quasi 90 anni e arriverò presto alla morte. Ma quando arriverà non mi dispiacerà, perché questo mondo non mi piaceva e continua a non piacermi. La cattiveria che c’è in giro è insopportabile. Ho un ritratto di Tinin Mantegazza dove sotto ha scritto: “Viva la bontà”. Però su questo pianeta non la trovo, e sarebbe l’unica cosa che mi interessa. Se non la bontà, almeno la decenza. Ma non vedi? Siamo ancora gente che taglia la testa ai bambini, questo non mi sta bene. Un uomo non può fare queste cose. Il mio cane non le fa. Ho bisogno di bontà. Qui non c’è, speriamo ci sia nell’altro mondo.

Mentre in tv scorrono le immagini dei bombardamenti su Gaza, lei che sotto le bombe della Seconda guerra mondiale ci è cresciuto come vive questo ennesimo conflitto?
Mi conferma che gli uomini sono dei cretini. Nel libro ho fatto un azzardo dicendo che se in tutti i posti di potere nel mondo ci fossero le donne non ci sarebbero più guerre. Non per morale, ma per l’inutilità di questa pratica. Le immagini che ci arrivano da Gaza sono di una tristezza e di una cattiveria incommensurabili. Ma non mi piacciono neanche i commentatori che dicono “sono morti tra i civili anche dei bambini”. Ma quando gli americani hanno bombardato Recco, secondo te quanti bambini hanno ucciso?

Due pesi e due misure?
È l’ipocrisia uno dei mali più grossi di questa cazzo di epoca. I giornalisti giudicano con una facilità mostruosa. Parlano di ostaggi quando è Hamas a prendere gli israeliani e di prigionieri quando sono gli israeliani a prendere i palestinesi. O sono tutti prigionieri o sono tutti ostaggi, perché fanno queste differenze? In questa guerra hanno ragione entrambi, l’unica soluzione è arrivare a due Stati. Però mi impressiona che gli israeliani, usciti dai campi di concentramento, non sembrano aver imparato niente. Hanno bombardato il campo profughi di Jabalia che è pieno di persone inermi. Ma lasciatelo perdere, no?

Sembra che certi avvenimenti la scuotano ancora parecchio.
Sì, perché mi stupisco di come la politica ragioni come ragionano i tifosi delle squadre di calcio. Quindi la questione anche per la gente è tenere per uno o per l’altro. Io tifo Genoa e ci sono altri che tengono la Sampdoria, ma anche se lo scudetto lo vincono i blucerchiati, io che sono rossoblu, non vado a congratularmi? Ma certo che ci vado, altrimenti non finisce più questo accanimento degli uni contro gli altri. Io credo nel mio dio e tu in un altro, ma quanti dei ci sono? Fino a quando continueremo? Ma lo sai perché nascono le guerre?

Mi dica.
La guerra nasce per tre ragioni fondamentali: dio, patria e famiglia.

Mi ricorda lo slogan che ha portato al governo Giorgia Meloni.
Perché ha sentito me, io lo dico da molto prima di lei. Mi deve pagare il copyright!

Tornando al suo libro, a un certo punto spiega le ragioni che l’hanno portata a spararsi nel ’63, in pratica perché aveva tutto e non provava più niente. Ma il dettaglio impressionante è che Tenco, accorso in ospedale, le ripete: “Gino, questo non si fa”.
Mi trovavo in coma, non per il colpo di pistola ma perché avevo preso un sacco di pillole per farmi fuori, poi non facevano effetto e mi sono sparato. L’attesa era troppa, una rottura di palle. Quando mi hanno curato pensavano fossi in coma per la pattola, invece era per i farmaci. E quando mi sono svegliato, ricordo Luigi fuori dalla stanza che diceva “non si fa una cosa così, Gino, non dovevi farlo”. E poi l’ha fatto lui…

Nel ’67 aveva interrotto i rapporti dopo che l’aveva chiamata per avvisarla di essere a letto con Stefania Sandrelli, fino ad allora sua amante, ma non ha mai pensato che quel gesto di Tenco potesse essere persino un modo per emulare ciò che aveva fatto lei?
Lui era un po’ come il mio fratello più piccolo, aveva due anni in meno. In effetti il suo lo considero un gesto teatrale finito male. E mi sento molto colpevole perché non c’ero. Sono convinto che se fossi stato presente non sarebbe successo.

Come ricorda, in quell’epoca il Festival di Sanremo veniva vissuto in modo particolarmente ansiogeno da chi partecipava.
In modo tremendo. Pensa che una volta ero al night con altri, visto che c’era più solidarietà tra noi cantanti, e Piero Focaccia, che era sbronzo come me, mi disse: “Se domani non vinco mi ammazzo”. “Cosa cazzo dici Piero?”, gli ho risposto. Faceva il bagnino, era uno solido, eppure quell’atmosfera di Sanremo era pesantissima anche per uno come lui.

Poi nel ’68 la politica entra anche nella musica, e lei decide di farsi da parte per tre anni. Ne ha sofferto?
Politica deriva da polítēs, ciò che riguarda il cittadino. Non è possibile fare qualcosa che non sia politico. Lo sei sempre, anche senza dichiarare se sei comunista o fascista. Stando nella società ti devi occupare della tua presenza come cittadino. Ma non ho sofferto senza pubblicare nulla, alla fine ho continuato a suonare in giro.

A San Fruttuoso, in Liguria, nel 1999. Foto: Franco Origlia/Getty Images

Quello che sembra essersi inasprito negli anni a venire è il rapporto con la stampa. Racconta di aver provato a investire con l’auto un paparazzo e di essere entrato nella redazione di un giornale di gossip con una mazza da baseball minacciando i giornalisti di non scrivere più dei suoi figli.
Io sono come il camaleonte, se mi tratti bene io ti tratto bene, se mi affronti ti mando a cagare. Il rapporto con i giornalisti si guastò quando Nanni Ricordi, al mio primo Festival, mi costrinse a partecipare a una conferenza stampa dove cominciarono a farmi domande idiote e così gli dissi: “Se c’è qualcuno che ha una domanda intelligente rimango, altrimenti me ne vado”. Nessuno rispose e me ne andai. Non mi ha messo in buona luce con i giornalisti.

Però anche dopo, quando una giornalista le chiese “Cosa fa prima di cantare?”, lei rispose: “Io mi faccio una sega”.
Lei aveva bastonato Umberto Bindi, cominciando la persecuzione nei suoi confronti perché era omosessuale. Leggendo i suoi articoli già la odiavo. Arrivata a farmi quella domanda, le risposi in quel modo e lei la scrisse indignata. Poteva anche lasciar perdere.

L’aneddoto è stato raccontato recentemente da Adriano Aragozzini, che, oltre a direttore artistico di Sanremo, è stato anche suo segretario.
Ha lavorato con me per anni, è molto intelligente ma matto come una capra. L’ultima volta che ha diretto Sanremo mi chiama e ci vediamo in un bar. A un certo punto sale sul tavolo e da quella posizione cerca di convincermi che dovevo andare ospite. Non è uno stupido, anzi. Modugno, che lo aveva preso come personal manager, era contentissimo di lui. E anch’io.

Nell’autobiografia non nasconde di avere una certa fascinazione per i matti.
Quasi tutti quelli che conosco e amo sono matti. Mi trovo molto più a mio agio con un matto che con chi è più ordinario. Un matto ti domanda: “A cosa serve un accappatoio?”. Tu gli rispondi: “Per fare la doccia”. Lui se lo mette e fa la doccia. Lucidissimo!

Non mancano neanche i racconti dei mille stravizi, tra donne, alcol e droghe.
Ci sono dentro tutti i miei errori. Avevo pregato la casa editrice di presentarlo come “un libro che non si deve leggere”. Anche perché non serve a niente.

Come mossa di marketing non sarebbe stata male.
Ma sai, io non ho mai avuto maschere. Di solito le hanno tutti. Io no. Sono quello che sono, che vive così ogni momento, e non è facile spiegarlo a chi è più normale.

Per quello ha mandato a quel paese un sacco di gente dal palco?
Sempre come reazione. Una volta ero a Crotone per un concerto per sostenere la gente che protestava contro l’insediamento di una base missilistica americana. Un gruppo che invece la voleva ha cominciato a farmi “buuu”, e così sono andato sul palco, mi sono girato di schiena e ho cantato solo per l’orchestra. Alla fine ho applaudito i musicisti e sono uscito.

Ultimamente è successo a Morgan a Selinunte di reagire a chi dal pubblico gli chiedeva con insistenza di cambiare il repertorio proposto. Ed è finita con insulti reciproci.
Tu sul palco sei sempre il vincente perché hai il microfono, altrimenti che salgano loro. Io una volta l’ho fatto. Era il periodo della contestazione, quando hanno messo in croce Francesco De Gregori, che ha rischiato parecchio. Nel milanese c’era uno che mi rompeva le palle dal pubblico, allora sono sono sceso e gli ho dato il microfono: “Tieni, vai avanti tu”. Ha cominciato a parlare, ma dopo pochi minuti si è alzato un omone, un operaio che ha urlato: “Senti, io lavoro tutta la settimana e vengo qui a sentire Gino Paoli. Te ne vuoi andare?”. La contestazione a me è finita così.

Se le nomino Piero Ciampi, cosa le viene in mente?
Che beveva un po’… Quando è arrivato a Genova è stato buttato fuori da casa di Reverberi, poi da casa mia da parte dell’ex moglie, infine da casa di Tenco dove l’hanno cacciato fuori i suoi genitori. Un giorno l’ho portato alla RCA per fargli avere un ingaggio e riesco a fargliene avere uno notevole in anticipo, solo che è stato un brutto scherzo. Usciamo con Piero con le tasche piene di soldi che mi fa: “Gino, glielo abbiamo buttato nel culo, eh?”.

Infatti poi quel disco non lo fece mai.
Sparì alla ricerca della moglie che gli era scappata in Inghilterra, ma senza sapere dove di preciso. Un’altra volta un amico che aveva un locale a Milano, dopo una settimana dove ho suonato io, mi chiese di fargli il nome di qualcuno al mio posto e portai Ciampi. In quel periodo beveva poco, solo che con quel poco era già sbronzo. La prima sera eravamo al bar del locale e sul palco si esibiva Silvan il mago. Non sono riuscito a trattenerlo, va su e dice: “Adesso mi rifai quel numero e se becco dove fai finta ti faccio un culo così. Però… però… se non lo becco… il culo me lo puoi fare tu”. Il pubblico di stucco.

Di Bruno Lauzi invece scrive: “Lui era liberale, e inevitabilmente i liberali scivolano verso il fascismo, mentre io e Luigi stavamo dall’altra parte”.
Ma non era Bruno a scivolare nel fascismo, erano i liberali che sono venuti dopo. Prima erano seri. Poi hanno cercato di infilarsi nei comunisti, nei socialisti e nei democristiani. Dappertutto.

Mentre di Franco Califano, in pochi ricordano che è stato lei a spingerlo a cantare.
Era un ragazzo molto intelligente, peccato per la coca… Si è scoperto che aveva quel vizio quando l’hanno portato in carcere perché era andato a fare una serata a Napoli in un locale che apparteneva alla malavita. Quando finì lo spettacolo, per pagarlo, gli dissero: “Invece dei soldi, visto che a te costerebbe di più, ti diamo un barattolo di cocaina”. Quando poi l’hanno beccato le forze dell’ordine lo hanno accusato di spaccio, solo che lui mica la spacciava. Come Walter Chiari, ne aveva sempre quantità mostruose.

È successo anche a Vasco Rossi, come ricorda nella serie Netflix Il supervissuto. In lui ha sempre visto il suo erede.
È l’interprete di un certo tipo di balordi o di ribelli, chiamali come vuoi, che sono gli stessi a cui mi rivolgevo io. Il mio inizio era contro, al punto di scrivere una canzone che non è organizzata come una canzone come Il cielo in una stanza. Mogol, figlio del direttore editoriale della Ricordi Mariano Rapetti, la presentava a tutti e gli dicevano che non era una canzone, finché Mina dopo averla ascoltata si è messa a piangere e l’ha cantata.

Mina si può considerare ancora oggi la più grande?
È la più grande esecutrice. Ha la qualità di riuscire a fare sua qualsiasi canzone che le dai, anche di poco conto. Le manca un po’ il cuore, la passione, come può avere Ornella Vanoni.

Con Ornella Vanoni nel 1965. Foto: Mondadori via Getty Images

Qui arriva il controcanto della moglie: «Però nel Cielo in una stanza ha messo anche il cuore». Sì, risponde Paoli, «ma perché la canzone si prestava a tirarlo fuori. Lei veniva da Tintarella di luna, e fino a quel momento non se lo immaginava nessuno che fosse adatta».

Sono famosi anche i suoi “no”. Come quello di entrare nel clan di Adriano Celentano.
“Scusa”, gli ho chiesto, “ma in questo clan c’è qualcuno che comanda?”. “Io”, mi ha risposto. “Allora no, grazie”. Voglio bene ad Adriano, abbiamo iniziato insieme. Mi piace perché è molto sincero. Però non avevo nessuna intenzione di farmi comandare, al massimo potevo essere io a comandare lui.

Mentre di Fabrizio De André segnala che soffriva di “timor panico”.
Se gli chiedevi di suonare si vergognava. Aveva il complesso di essere brutto, per la palpebra cadente che copriva con i capelli. Era una stupidaggine, glielo dicevo sempre. Allora beveva e andava fuori. La prima volta che doveva suonare dal vivo al Circolo della Stampa di Genova, per farlo uscire ho dovuto prenderlo a calci nel culo. Un’altra volta avevo un locale a Levanto e la Puny (Enrica Rignon, nda), la prima moglie, insisteva per farlo cantare. Arriva in motoscafo, stiamo tutto il tempo insieme, e quando è l’ora di salire sul palco si dilegua.

Nell’autobiografia confessa di avere un debole per un musicista di oggi. Si tratta di Tonino Carotone: “È un mondo difficile. E vita intensa. Felicità a momenti. E futuro incerto. Serve aggiungere altro?”.
Un pazzo geniale. In Spagna lo considerano un dio. Ha un bel cervello ed è un bel bevitore. Quando lavoravo a Madrid è venuto a trovarmi in moto ed era già sbronzo. Poi ha bevuto ancora ed è andato via sempre in moto. È ancora vivo, quindi è andato bene il viaggio di ritorno.

Altro artista che stima e che ha aiutato nei suoi inizi è Zucchero. Ma perché gli dice sempre che fa di tutto per imbruttirsi?
Lui è un bel ragazzo. Se lo metti sotto la doccia e gli tagli barba e capelli non è così come appare oggi.

Paola ricorda: «Gli hai scritto alcune delle prime canzoni, quelle che gli mancavano per affermarsi con la critica. E non le hai neanche firmate».

Un gesto di generosità.
Ho sulla coscienza diverse firme che non ho rivendicato. Per Tenco, per Zucchero, per Little Tony. Tutti pezzi che ho scritto e non ho firmato. Non avevo bisogno di firmarle. Quando vedrai la mia ragazza di Little Tony, con la quale è andato per la prima volta a Sanremo, la firmò un certo Rossi perché la RCA mi aveva detto che non potevo firmarla, non era nel mio stile, e quindi secondo loro sarebbe stato un danno di immagine. Poi quando ho riscosso diverse canzoni a nome mio, ho scoperto che questo Rossi era venuto a mancare e la moglie se la passava male, allora l’ho firmata anch’io per farle avere qualcosa.

Insomma, oltre all’apparenza da burbero Gino Paoli è buono.
Molto buono. Anche perché esserlo a volte non ti costa quasi nulla.

L’intervista sta per volgere al termine, ma il gatto Gunther, fino a quel momento dormiente al fianco del padrone, mi si avvicina e inizia a farmi le fusa. Non ho un gran rapporto con i gatti, ammetto, ma Paoli mi interroga: «Ne hai mai avuto uno?». No, rispondo. «Allora non è vero, perché se non ti piacciono non vengono. Ti piacciono i gatti ma ancora non lo sapevi. L’amore è nell’aria… che canzone era?».

Quella del Re leone?
Ecco, sì. La Disney mi aveva chiesto di farla dopo La bella e la bestia. L’ho dovuta riscrivere almeno cinque, sei volte perché non si poteva dire questo o non si poteva dire quello. Mi sono intestardito, vuoi vedere che ci riesco? Ce l’ho fatta, e dopo mi hanno chiesto la stessa cosa per Il re leone e li ho mandati a cagare. Mi freghi una volta ma due no.

Ho letto che ha delle canzoni inedite e manca solo un passaggio in studio. Quando vedranno la luce?
Sono cinque canzoni e lei (la moglie, nda) mi pressa per andare giù in studio a lavorare. Ho avuto una labirintite da non stare in piedi e poi il Covid con due mesi difficili, e non ho ripreso ad andare in studio. È un anno che non faccio più niente, però adesso vorrei finirle.

Invece l’esibizione live del 26 novembre con Ornella Vanoni annunciata a Che tempo che fa è qualcosa di concreto?
Non so, tu ne sai qualcosa? (Paola chiarisce: «Hanno ipotizzato quella data, solo che lui ha già un altro impegno», nda). Anche perché io la tv se posso non la faccio. Non mi piace quasi mai partecipare a cose così scadenti. Se prendessi certi personaggi e li portassi al Circolo dei ferrovieri di Sampierdarena li butterebbero fuori a calci. Sono di un livello talmente basso che vanno sotto lo zero. Così la faccio solo se c’è un amico come Fabio Fazio, che conosco da tantissimi anni. Lui ha persino fatto la tesi di laurea su di me. È andata bene perché mi mette a mio agio.

È il momento di assaggiare la focaccia genovese, tanto unta quanto squisita e anche il padrone di casa confessa: «All’estero quello che mi manca di più sono la focaccia e il caffè». Nel mentre, scorgo in un cassetto aperto del tavolino un coltellino che sembra quello raccontato nell’autobiografia che usava la moglie, ai tempi ancora una spasimante, per allontanare le altre fan. Ma non è lo stesso: «Quello era un mullet, ti faccio vedere la mia collezione». Apre un altro cassetto stracolmo di coltelli di ogni misura e genere. Così Paola precisa: «Lo usavo quando era un playboy per farmi largo fra le groupie».

Di un cantautore non si direbbe, invece lei ha avuto una vita da rockstar.
Eh sì, sembravo intimista e invece facevo le stesse cose dei rocker!

E sono arrivato fino a qui senza che mi abbia mandato a quel paese.
Se qualcuno ti dice che sono refioso (in genovese “scostante”, nda), significa che mi ha affrontato nello stesso modo. Non c’è un cazzo da fare…

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