Gigi Tonet, il Brian Eno italiano che vive in Russia | Rolling Stone Italia
Orizzonti musicali perduti

Gigi Tonet, il Brian Eno italiano che vive in Russia

Cos’hanno in comune Battiato, Vasco, Celentano e Faust’O? Si sono avvalsi dell’aiuto e delle macchine di questo musicista di culto, un pioniere che poteva dire: «Franco, questa è una cagata pazzesca»

Gigi Tonet, il Brian Eno italiano che vive in Russia

Gigi Tonet

Foto per gentile concessione dell'artista

È fin troppo facile, per noi provincialotti dell’impero musicale, guardare all’estero come fosse la fucina della creazione tutta. È anche molto semplice vivere di luoghi comuni sulla musica elettronica, su analogico vs digitale, su chi ha inventato cosa. Bene, una persona che demolisce ogni preconcetto in questo senso è Luigi Tonet. C’è giustamente chi lo considera il nostro Brian Eno, ma probabilmente è molto di più, ovvero se stesso.

Pioniere dell’elettronica in Italia e innovatore tale da superare spesso i colleghi stranieri, ha partecipato mettendoci in nome o in gran segreto a gran parte dei dischi italiani in cui sentivate quel friccicore avanguardista (anche, insospettabile, in alcune prove di Mina o Gianni Bella), ma è dovuto emigrare in Russia nei primi anni 2000 per ottenere i giusti riconoscimenti. Da lì si è raccontato in videochat.

Mi dicevi che attualmente stai facendo da giurato in un popolare festival musicale di bambini prodigio in Russia…
Sì, sono stupendi, bambini dai 7 ai 15 anni che tra cantare e suonare sono favolosi. È un contest che fanno in tutta la Russia, sono nella giuria da un bel po’ di anni.

Come mai ti sei trasferito in Russia? E come ti trovi?
Sono rimasto non dico l’unico, ma uno dei pochi musicisti italiani rimasti a Mosca. Io dall’Italia sono scappato. Ho lavorato fino al 2000 e poi basta, non c’era più niente. Avevo una villa nell’hinterland milanese dove facevo le mie produzioni, ma gli studi veri e propri non c’erano più.

Hai subito la crisi dovuta alla diffusione del digitale e degli home studios. Come approccio nasci analogico.
Ho venduto non si sa quante macchine, se le avessi tenute ora sarei milionario (ride).

Da dove parte questa tua passione per i circuiti?
Ma guarda, come dico spesso ho avuto la fortuna di conoscere a Milano il maestro Fugazza che è stato probabilmente tra i primi se non il primo a insegnare elettronica al conservatorio. In Italia non c’era strumentazione. Anche lo Studio di fonologia della RAI in Corso Sempione a Milano aveva solamente gli oscilloscopi.

Quello che dici è interessante, perché in Italia si è creata una mitologia sugli Studi di fonologia.
Siccome io conoscevo Battiato dal 1970, ancora prima di Fetus e Pollution, eravamo intrippati di un sacco di cose. Lui ha preso il VCS3 in Inghilterra, io lavoravo già col Moog IIIc da Monzino, che era il distributore della Moog dove infatti ho conosciuto Robert Moog in persona. Poi mi sono comprato un modulare per praticità. Io e Battiato eravamo gli unici due ad avere determinate cose. Anzi, gli unici tre perché c’era anche Roberto Cacciapaglia, che poi si è perso per strada non capisco perché… Ho iniziato a intripparmi per questi strumenti anche parto da lontano, da quando avevo 6 anni ed ero in una scuola corale di musica in chiesa e mi ero appassionato di organo liturgico.

Gigi Tonet. Foto per gentile concessione dell’artista

L’organo a canne è la cosa più vicina al synth che esista, anzi forse è persino superiore…
Poi sono venuti gli organi elettrici, che all’inizio erano roba da ridere. Avevo un Gem, un organetto con quattro manopole e nonostante questo vanno di moda anche adesso, fanno vintage. Poi il Farfisa e finalmente l’Hammond, che è stato un punto di arrivo. Mi sono messo a seguire Keith Emerson con i Nice, poi i Moody Blues… Insomma ho iniziato un po’ per moda e un po’ per esigenza a usare l’Hammond nei complessi, poi il Clavinet che ho preso da Demetrio Stratos, me l’ha venduto a 70 mila lire (ride).

Ma dai…
Sì, perché ero amico degli Area, sono ancora oggi amico di Paolo Tofani, anche se non l’ho più visto da quando mi sono trasferito. E niente, usavo l’Hammond e il Clavinet della Honer, poi sono arrivati il piano elettrico Fender e i synth. Dovevi avere quegli strumenti per forza se volevi fare il tastierista. E non sto parlando del Minimoog, perché ha tre stupidate, è come fosse una specie di Farfisone, è uno strumento limitato. Parlo di sintetizzatori enormi, quelli con nove oscillatori che ti permettevano di fare esperimenti di altro genere.

Non era tutto preimpostato come ora…
No. Tornando al discorso sullo Studio di fonologia, Battiato è andato a scuola con Stockhausen per imparare da lui come prendere per il culo la gente.

Non ci credo!
Me l’ha detto lui, è vero. Quando lavoravamo insieme ero l’unico ad avanzare dubbi. Arrivava Battiato e Alberto Radius diceva «che bello, che genio». Io ero l’unico che diceva: «Franco, è una cagata pazzesca».

Incredibile.
Ti racconto questa. Succede che Billy Cobham arriva da Zurigo a Milano, a casa mia. Franco aveva filtrato la TR 808, che per me è una ciofeca di batteria che non suonava già niente, col VCS 3. E io continuavo a dire «guarda che non suona questa roba qui», e la stessa cosa gliela diceva Titti Denna, il fonico. Allora alla fine ha deciso di aggiungerci la batteria vera. Aveva chiamato Flaviano Cuffari…

Ma di che disco stiamo parlando?
Non ricordo bene se La voce del padrone o L’arca di Noè, noi ufficialmente ne abbiamo fatti insieme due, ma alla fine per una cosa o per l’altra io ero in mezzo anche ad altri, non accreditato: sono praticamente in tutti quelli fatti nello studio di Radius… Cuffari non era disponibile e allora ha preso Alfredo Golino. Avrebbe preso volentieri Cobham, ma costava una cifra esagerata, per rifare un rullante. Alla fine Golino si è incazzato e gli ha detto «te lo faccio io, ma voglio un milione di lire».

Hai altri aneddoti del periodo negli studi Radius?
Mi ricordo Giusto Pio, che si metteva la matita tipo salumiere sulle orecchie, perché appena gli veniva un’idea scriveva tutto sul pentagramma, ma poi si scordava dove aveva messo la matita e non la trovava. Ci siamo divertiti un casino. Oppure quando abbiamo registrato i cori dei Madrigalisti di Milano, li abbiamo stipati nei 30 metri quadri che effettivamente era la misura totale dello studio Radius.

In quei 30 metri quadri sono usciti dei capolavori, soprattutto quei due di Battiato in cui tu sei protagonista.
Sì, L’arca di Noè e Orizzonti perduti

Soprattutto Orizzonti perduti che è uno dei miei dischi della vita in cui tu sei il factotum, uno dei pochissimi dischi completamente sintetici, come se la macchina aliena guardasse dall’alto la vita degli uomini.
È stato voluto minimale, ma Battiato è sempre stato un “elettronico”. Ma anche Battisti, con cui non ho mai lavorato, era un altro intrippato dell’elettronica, mi ricordo che con Radius gli dicevamo «ma sai che noi usiamo ‘sto Microcomposer?» e lui era curiosissimo.

Nell’Arca di Noè tu suoni anche il Fairlight? Era una delle prime volte che compariva in un disco italiano.
Guarda che il Fairlight era una ciofeca. C’era Pellegrini, il tastierista, che aspettava un Fairlight ma non gli era ancora arrivato e noi stavamo già lavorando sul disco. Fortunatamente lo avevo e già lo usavo.

Quindi in pratica hai salvato l’album?
Sì perché avevo già una bella libreria che poi ho dato pure a Vangelis. Avevo l’Emulator I, che era un mammozzone di ferro incredibile. Però suonava e non frusciava come una bestia come faceva il Fairlight. Dovevi proprio ripulire il suono del Fairlight, altroché Dolby, e mancava di memoria. Invece con l’Emulator ho fatto anche dei begli archi.

Franco Battiato - Voglio vederti danzare

Tu non sei uno di quelli che dice che sono meglio le macchine “vere”? Oggi c’è questa tendenza a dire che l’emulazione digitale suona artefatta e tutti a comperarsi roba da antiquariato…
Ma no, senti: col computer oggi riesci a riprodurre un’orchestra, e poi dev’esserci un’evoluzione dai. Tipo Roberto Cacciapaglia non l’ ho più seguito, sembra sia tornato indietro invece di andare avanti. È tornato al pianoforte, diciamo. Noi eravamo amici e vicini di casa a Milano, a parte vederci sempre per la storia di Battiato, con la passione per l’ufologia e il contattismo…

Immaginavo che Franco fosse appassionato di quella roba, visti i temi della “trilogia spaziale”.
Anche Toto Cutugno lo era, soprattutto la moglie.

Tu sei anche un alfiere della new wave italiana, hai lavorato con Faust’O….
Ah sì, certo! Poi è andato a Verona e non l’ho più seguito. Faceva il punk. Almeno come testi, eh, ma era bravissimo.

A proposito di proto punk, Vasco lo senti ancora?
No, ma ci ho fatto Bollicine. Non mi ricordo con chi ho lavorato in quell’occasione, forse con Fio Zanotti…

Hai anche collaborato con un allora amico di Vasco, ovvero Zucchero, nel suo primo disco black tra l’ altro.
Che dirti di Zucchero? Conoscevo Adelmo prima che diventasse famoso. Veniva in ufficio da Gianni Faré a San Giuliano Milanese all’Ariston e passavamo i pomeriggi insieme. Portava le sue partiture chiedendo a Faré di dargli una mano e un parere. C’è da dire che scriveva musica e s’impegnava, ma i brani non finivano mai, duravano anche 10 minuti. Era un pacioccone, bravo, buono, educato e gentile, sopratutto determinato. E infatti è diventato quello che sappiamo.

Un altro tuo legame col punk sono i Krisma…
Maurizio e io eravamo amici già da anni, prima della sua svolta. Stava a Londra e mi telefonava: «dai vieni qui». Io avevo un casino di lavori da fare e raggiungerlo era un’incognita. Divideva un appartamento con Hans Zimmer che aveva appena finito di lavorare coi Buggles e l’aveva preso per l’arrangiamento di Many Kisses. Lavorava presso il Memo di Londra col fratello di Vangelis. Era una proposta di trasferimento interessante, ma avevo un casino di lavoro da fare: alla fine è venuto lui in Italia con Zimmer.

E come è andata?
Ci troviamo con Hans Zimmer. Lui possedeva il Microcomposer e il System 700 che però non ha potuto portare in Italia per problemi con la dogana. Siccome ero l’unico in Italia ad avere determinate macchine, Maurizio gli diceva: «Ma guarda che io c’ho Gigi Tonet, siamo amici e lui ha la stessa roba che hai tu». Zimmer pensava che in Italia fosse tutto pizza e mandolino, e invece… (ride). Era un timidone. Per farla breve gli ho prestato io gli strumenti.

Hai lavorato anche con gente poco conosciuta come i Tirelli, alfieri dell’elettro pop funk…
Oh sì, i fratelli Tirelli. Il loro papà, altro appassionato di ufologia, era il mio insegnante di geografia al Feltrinelli. Poi lui aveva lo Studio Minerva a Milano e aveva cinque o sei lauree. Uno dei due Tirelli è morto, io ero molto amico di Gianni.

Un gruppo più popolare con cui hai lavorato è il Banco, nel disco Buone notizie.
Con Vittorio e Gianni eravamo pappa e ciccia. Ho lavorato al Mulino se non sbaglio, eravamo amici già quando avevamo le nostre rispettive band, poi ho lavorato con Premoli perché lui si è messo a fare le pubblicità.

A proposito, hai lavorato anche per Mike Bongiorno, per la sigla di Superflash. Sei uno dei padrini del glo-fi italiano per i tuoi jingle…
Sono lavori che non mi hanno reso niente, mi hanno dato 70 lire di SIAE, mi hanno fregato. Un mio amico che lavora a Sky mi ha detto «ma sai che sono andato nell’archivio e quel pezzo tuo è depositato come Augusto Martelli?». Lì ho capito perché non mi arrivavano mai i soldi. Io stando qui a Mosca non ho tempo di andare a Milano per controllare tutto: le parole addirittura le ha depositate Mike Bongiorno a suo nome, e non sono sue.

Mi racconti la genesi del mitico brano degli Albatros Volo AZ 504?
Allora, siamo in maggio in Sardegna con gli Albatros, che avevano appena fatto uscire Africa, un pezzo di Dino Rosito. Toto Cutugno non ha scritto neanche una riga, ma ci si è comprato lo yacht e lo ha chiamato pure Africa. Comunque, il riff di Volo AZ 504 l ho scritto io mentre smanettavo, era di pomeriggio e Toto fa: «Ah, bello sto pezzo». Ma era una roba davvero scolastica. Quindi andiamo a Sanremo e io mi dico: bello cazzo, almeno guadagno un po’ di soldi. Sai, avevo già speso 20 milioni per gli strumenti, che cazzo… avevamo anche dei concerti da fare, quindi la cosa sembrava decollasse. Ma non ero ancora iscritto alla SIAE. A parte una compilation della De Agostini in cui risulto come autore, il resto è sparito. Considerato che solo in Francia gli Albatros hanno avuto un grande successo, otto milioni di dischi venduti sui quali non ho preso una lira, per me è stato un bel danno economico.

Sei stato uno dei capoccia della nostra Italo disco. Lì sei riuscito a capitalizzare un minimo o no?
Poca roba. Però ho lavorato un casino con Celso Valli, abbiamo fatto tante di quelle cose che sinceramente non mi ricordo neanche, dischi fatti in Italia ma spacciati per olandesi…

Hai fatto anche I miei americani 2 di Celentano, no?
Dentro c’era il tango della Gelosia, ho fatto dei begli archi perché con l’Emulator lavoravo bene, lo doppiavo col Kurzweil. Li mettevi insieme e c’erano degli archi della madonna, più il violino solista del Kurzweil che faceva sentire il legno… ho litigato pure con l’orchestra vera perché gli toglievo lavoro (ride).

Gelosia (Jalousie)

Che ne pensi della musica elettronica odierna?
Sento che ancora una volta sta ritornando la moda degli anni ’80, ma è passeggera. Cioè puoi rifare il passato, ma se io andassi a rifare Why? lo farei sicuramente molto meglio.

Pensi che i giovani non facciano altro che perfezionare qualcosa di già sentito senza aggiungere nessuna idea?
Per i giovani è molto difficile fare qualcosa di potente perché non ci sono gli strumenti per farlo: quasi nessuno si mette davvero a smanettare per fare i suoni in analogico, li fai col computer o presettati. I parametri sono molto differenti, oggi si fa meno fatica.

Hai lavorato moltissimo con Radius, non solo insieme per i dischi altrui ma anche per i suoi, eravate molto affiatati. Un ricordo di lui?
Eh, mi è dispiaciuto tanto per Alberto. Me lo sono sognato ieri notte, pensa.