Gianna Nannini: «È come se gli artisti oggi fossero in un fast food, ma dietro ci sono esseri umani» | Rolling Stone Italia
“Nata senza genere”

Gianna Nannini: «È come se gli artisti oggi fossero in un fast food, ma dietro ci sono esseri umani»

L’amore per il soul finito nel nuovo ‘Sei nel l’anima’ (sic), gli stranieri che imparano l’italiano per cantare le sue canzoni, il rap come l’ottava rima toscana, la «manipolazione del mondo discografico» che ha dovuto combattere: l’intervista

Gianna Nannini: «È come se gli artisti oggi fossero in un fast food, ma dietro ci sono esseri umani»

Gianna Nannini

Foto: Luigi & Iango

Dice di avere «una missione da compiere» e sembra esserci riuscita visto che, sostiene, «è il disco che volevo fare». Sarà per questo che la Gianna Nannini che abbiamo incontrato ci è apparsa particolarmente raggiante nel suo giubbotto di pelle rossa e tra risate contagiose, mentre ci ha raccontato Sei nel l’anima (sic), il nuovo album che contiene 12 canzoni (11 inediti e una cover) che l’hanno talmente coinvolta che «ci ho messo due mesi a cantarli da quante emozioni mi davano». Ma è solo una delle tappe che la attendono. Sarà infatti un 2024 intenso per la rockeuse che, dopo quattro anni, ha deciso di strafare avendo in calendario anche un film sulla sua vita (dal 2 maggio su Netflix), un libro (la riedizione aggiornata di Cazzi miei) e una tournée che partirà dal 24 novembre da Ginevra e arriverà in Italia in diverse date fino al 21 dicembre a Roma.

Tanti progetti “fisici”, benché non manchi la parte digitale, perché «io voglio fare musica che rimane», ci ha spiegato orgogliosa in questa intervista spaziando su tanto altro: il senso di appartenenza toscano nonostante continui a girare il mondo, il momento più difficile della sua carriera (che canta in 1983), il femminismo che si è trasformato da libertario a globale, l’importanza del “gesto” di rottura (dal vibratore di California al viaggio in Iraq contro la guerra), i limiti della lingua italiana e la forza di rap e trap nel «fare la differenza». E si è chiesta scherzando: «Dopo un album così, come si riesce a farne un altro? Magari questo è l’ultimo».

Un disco, un film, un libro, i concerti. Un ritorno in grande stile, ma anche molto “fisico”, mentre molti ormai puntano soltanto sul digitale.
Io voglio fare dischi di musica che rimane. Il digitale si sa com’è, in fondo è un po’ usa e getta. Ci vuole, perché puoi sentirlo ovunque ed è pronto subito all’ascolto, ma per fare un disco come questo avevo bisogno di una certa intimità, che trovi solo con progetti così. Quindi, per esempio, il vinile è fondamentale per il tipo di suono che stavo cercando.

Non è solo un vezzo per collezionisti?
Io ho sempre fatto vinili. A maggior ragione per un disco così.

Un disco influenzato dal soul. Anche in questo caso una scelta coraggiosa, mentre la discografia sembra puntare su altre sonorità.
Perché io ho una missione da compiere. Questo è un disco che dovevo fare, era nella mia strada. «Un giorno, Gianna, tu dovrai fare un disco soul», sentivo nella testa questa frase. Certo, non considero questo disco strettamente soul, perché io sono italiana e quindi vengo da una cultura diversissima da quelle origini, però ogni paese ha il suo soul, il suo blues, il suo rock e il suo folk.

E qual è il tuo soul?
Per me è una appartenenza al mio territorio, che è la Toscana. E credo di aver trovato nella melodia e nell’impatto del groove quello che cercavo da anni e che spero di aver trovato in questo album. Ci ho messo un po’ a farlo, ma credo di esserci riuscita.

In passato hai dichiarato: «Se scegli il rock non puoi fare altro». Con il tempo hai capito che da quella strada principale è utile anche percorrere altre vie laterali?
Il rock è soltanto una parola e basta. Un contenitore di tanti stili musicali. Un po’ come il pop. Credo di aver sempre fatto scelte personali seguendo l’istinto, che mi ha portato a fare il disco che senti oggi. Ho ascoltato molto di più quello che ho dentro rispetto al guardare fuori o copiare qualcun altro.

Nella canzone Silenzio fai una profonda riflessione in musica. Ma di musica che riflette, in giro, ne senti come in passato?
L’introspezione è importante. Il silenzio, in particolare, è un nostro spazio intimo che combacia con l’anima. In questo senso, nell’album cerco di portare fuori quello che ho dentro. Non è facile a volte, nascondiamo molte cose nel silenzio. In questo caso ho cercato di farle uscire. È un album che cerca di trasmettere delle emozioni e se ci sono riuscita è già una grande rivoluzione. Per me lo è stata, tanto che c’è un pezzo che neanche riuscivo a cantare da quante emozioni mi dava, ci ho messo due mesi. Si tratta di Lento lontano.

E in Lento lontano ti appelli alla “dolceamara malinconia”. C’è qualcosa di cui hai nostalgia?
Ogni tanto il passato torna se penso alle persone che ho perso, però il mio sguardo è sempre rivolto al futuro. Non guardo indietro e non rifaccio mai quello che ho già fatto.

Quindi Gianna Nannini non ha rimpianti?
No (sorride soddisfatta, nda).

In carriera, parallelamente alla musica, sono famose le tue battaglie civili o sociali. Una di queste riguarda il femminismo. Qualche giorno fa, però, la scrittrice Claudia Durastanti ci ha spiegato che oggi il femminismo è diventato anche di posizione. Basta alle donne essere in certi posti se poi non cambiano le dinamiche?
Tutte le parole che finiscono in “ismo” rischiano di essere etichettate in una sola definizione. Ma ci sono tante sfaccettature della libertà. C’è un femminismo libertario, al quale appartenevo, che oggi intendo in senso più globale. Lo si riconosce attraverso la luce delle donne che combattono per le proprie libertà personali e per uscire allo scoperto. Per arrivare a fare quello che sentono e che vogliono. Dimentichiamo spesso la violenza economica, non c’è soltanto quella fisica. In questo senso le donne portano avanti una grande battaglia, non c’è dubbio. Ma a me le etichette non piacciono, mi sembra di ridurre l’importanza di un femminismo globale che, a seconda dei paesi, ha diversi modi di esprimersi.

Sulla copertina del tuo album California del ’79 era rappresentata la Statua della Libertà che impugna un vibratore.
Il vibratore si usa ancora anche oggi?! Se c’è la bandiera americana fa un po’ male… Quello era uno sberleffo, perché ci si rifaceva troppo a quella cultura, che non è cultura, quando io penso che si debba appartenere alle proprie tradizioni e cambiarle contaminandole per reinventare il futuro. E non guardare a quello che è già stato fatto, soprattutto dagli altri.

Ma vedi gesti di rottura così nei musicisti contemporanei?
Io nelle canzoni non ho la via di mezzo, passo dal rock disperato alla dolcezza di una ballad dove, tra loro, non c’è confine. Qualche volta, però, il gesto ci vuole. Io credo nel gesto, che può essere qualcosa di molto politico. Se invece ti distrai e guardi la tv non riesci a capire quello che sta succedendo. È necessario intervenire. Quando sono andata in Iraq non è che non avessi niente da fare, sono intervenuta perché c’era una guerra in corso e non ero d’accordo. L’unica cosa che possiamo fare è vedere con i nostri occhi quello che succede e raccontare agli altri quello che abbiamo visto. Questa è la verità.

Sarà che oggi molti giovani si ritrovano su grandi palcoscenici da un giorno all’altro senza un percorso e rischiano essere in balìa di scelte altrui prima ancora di riuscire a pensare a ciò che gli accade attorno?
Oggi non c’è nessuno che cura la crescita artistica. Si sfrutta il momento come se fossimo in un fast food e ci si dimentica che dietro ci sono degli esseri umani. Non è tutto così facile, perché rischi di perdere l’ispirazione. Io stessa ho dovuto ribellarmi a quella che è stata la manipolazione del mondo discografico. E ho fatto sempre quello che mi pareva. Solo in un periodo è stato molto difficile, infatti lo racconto nel brano 1983.

È stato quello il periodo più difficile della tua carriera?
Sì, dopo California che è del 1979. Dopo è arrivato il momento complicato.

Cose si supera una situazione del genere?
Magari non si supera mai. A me ha aiutato scrivere un sacco di canzoni. Comunque io l’ho superato attraverso la musica.

Qualche anno fa dicesti di aver scelto Londra per vivere.
No no, io vivo a Milano.

Quindi è stato solo un breve periodo?
Non so perché c’è in giro questa voce. Da trent’anni faccio i dischi a Londra, quindi ci sto vari periodi per lavoro perché mi piace lavorare con alcuni dei massimi esponenti dell’ingegneria del suono che capiscono la mia cultura. In questo album hanno collaborato da Andy Wright (Massive Attack, Jeff Beck, Simply Red) a Troy Miller (Amy Winehouse, Gregory Porter, Diana Ross) e il produttore e chitarrista Raül Refree (Rosalia, Guitarricadelafuente). Per questo mi piace andarci. Poi in generale viaggio dappertutto, non ho un punto di riferimento. Questo disco l’ho fatto a Nashville, ma non è che abito là.

Te lo chiedevo perché avevi raccontato di aver scelto Londra visto che avresti potuto affidarti alla stepchild adoption per tutelare tua figlia Penelope.
Quello è il passato, ora guardo al futuro. Vivevo lì perché, appunto, stavo lavorando a un disco e mia figlia non potevo lasciarla qui in Italia.

L’Italia di oggi ti piace?
A me piace molto. Mi è sempre piaciuta, anzi combatto per l’Italia. Anche per far uscire la nostra musica e la nostra cultura all’estero.

Non c’è niente che ti fa arrabbiare degli italiani?
Più che altro ci sono cose che uno deve subire, perché in fondo l’Italia è una colonia. C’è un contratto da rispettare firmato dopo le varie guerre, come altri paesi europei. Ma intorno a questo possiamo costruire una realtà tutta nostra che, anche attraverso l’arte, può circolare. Essendo uno spazio libero, la musica ci permette di uscire dalle coercizioni e di non farci imporre sempre tutto dagli altri.

Da fuori come viene percepita la musica italiana?
Il limite della musica italiana è l’italiano. Perché nella nostra lingua, purtroppo, non si va oltre Chiasso. O fai l’opera, o sei Andrea Bocelli che si rifà a quelle sonorità, o fai fatica. Abbiamo questa barriera rispetto a tutti agli altri paesi, che invece cantano in inglese. Esclusa la Spagna che è molto avanti. Non è facile poter imporre la propria lingua. Anche se io faccio rock a livello internazionale, se la gente non comprende le parole è un limite. Nel rap è ancora più difficile. Io fortunatamente ho un pubblico anche all’estero che comprende la mia lingua. Da un lato, un po’ come una volta con la musica inglese che sembrava di capire anche senza conoscerlo, e un po’ ci sono persone che studiano l’italiano per cantare le mie canzoni.

L’ultima ondata rap e trap ti ha incuriosito?
Da Marracash in poi la musica rap e trap in Italia penso abbia fatto la differenza. È un po’ come l’ottava toscana, che si improvvisava a braccio e loro lo fanno con il freestyle. Hanno riportato la parola a reimpossessarsi di sé stessa. In questo senso mi interessa. Non faccio parte di quel mondo, però mi piace farmi contaminare. Anche se non sono rap, io sono blues, soul, rock… e folk.

E dopo un disco così intenso, proprio per la tua voglia di cambiamento, il prossimo come potrebbe essere?
Magari questo è l’ultimo… (scoppia a ridere). Scherzo! Ma effettivamente, dopo un lavoro del genere, come si riesce a farne un altro? Non so. Sono molto felice di questo, anche se poi dovranno dirlo gli altri, ma quando lo sento mi dico da sola: è il disco che volevo fare.

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