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Gianluca De Rubertis celebra la «santa voglia di ballare»

Nell'album ‘La violenza della luce’, canta di bellezza e vizi che devastano la vita. Qui racconta il disco, spiega perché Il Genio non ha avuto più successo, mostra in anteprima il video di 'Solo una bocca'

Foto: Pierluigi De Rubertis

Dice di essere riuscito a essere più diretto, Gianluca De Rubertis, nel suo nuovo disco in uscita il 23 ottobre, il primo per Sony Music. È vero: La violenza della luce, terza prova solista del cantautore pugliese, milanese d’adozione, poggia su una scrittura elegante, ricca di suggestioni sonore che nel loro rimescolarsi vanno a comporre un album dove la raffinatezza melodica, armonica e degli arrangiamenti impreziositi con archi e sintetizzatori si fonde con un gusto spiccatamente pop. Dentro c’è tutta la musica che De Rubertis ama da sempre, da De André a Battiato, ma è questo forse il capitolo della sua discografia solista in cui si avverte sin dal primo ascolto la volontà, da parte dell’autore, di esporsi maggiormente, di mettersi più a nudo. Con una scrittura ricca di metafore, in un gioco tra sensualità e disincanto, sarcasmo e riflessioni esistenziali che non risparmiano nessuno, nemmeno se stesso, il 43enne attacca l’ipocrisia, insegue l’amore, dipinge mondi onirici, confessa gli errori della giovinezza, si chiede cos’è il bene, cos’è il male, celebra la “santa voglia di ballare” tratteggiando il ritratto di un uomo, e forse di un mondo, che non si sa bene dove stia andando, ma che ha ancora fame di bellezza.

«È un disco che ho scritto in un tempo abbastanza breve, in un momento in cui ero particolarmente ispirato», racconta De Rubertis, già co-fondatore degli Studio Davoli e de Il Genio, il duo dell’hit Pop porno formato con Alessandra Contini. «Ci sono momenti della vita in cui guardi un pianoforte o suoni per ore senza trovare alcuno slancio emotivo, come una barca a vela che non riesce a solcare bene le onde. Ma ce ne sono altri – e sono momenti assurdi, incredibili, talvolta seguito di torture mentali che ti sei inflitto – in cui accade l’opposto, per cui ti basta toccare il tasto di un piano con un semplice do o un si bemolle qualsiasi perché ti vengano fuori milioni di note, di canzoni. Ed è ciò che è successo con questo album».

La violenza della luce che affiora dal buio: quali torture mentali ti saresti inflitto?
Ma sai, capita a noi altri di auto-infliggerci delle psicosi, e forse inconsciamente lo facciamo apposta, per avere un contatto maggiore con il soprannaturale. È partito tutto dalla prima traccia, Voi mica io, nata da una riflessione su un post che avevo condiviso su Facebook in cui dicevo “voi che…”, “voi che…”, elencando dei comportamenti che vedevo mettere in atto da molti altri e che mi davano particolarmente fastidio. E in cui concludevo con una frase: “voi, mica io”.

Che è il modo in cui inizia il brano: fino a un certo punto sembra un j’accuse, in realtà verso la fine si trasforma in un’autocritica.
È che avevo in mente di scrivere un pezzo con quel concept, con quel “voi mica io”, ma quando è arrivato il momento è intervenuta anche una trasformazione, un’introspezione che mi ha portato a pensare che in fondo ero anch’io dalla parte del torto. Di lì la scelta di inserire quei cori che urlano “voi mica io”: ci tenevo a far capire anche da prima del finale del pezzo che è il pianeta che urla “voi mica io”, siamo tutti quanti a urlarci in faccia quelle parole, ma alla fine non siamo altro che parte di questo piccolo accrocchio mezzo nefando che si chiama umanità. Forse da questo punto di vista questo album mi ha insegnato a crescere.

Rispetto ai tuoi precedenti è un disco che trasmette una maggiore apertura: è il frutto di una resa dei conti?
Nella vita ci sono tanti momenti in cui si arriva a una resa dei conti con se stessi, questo non significa che poi ci si trasformi completamente, altrimenti, guarda, mi sarei anche potuto rinchiudere in un monastero.

Sul serio?
Io non posso sapere quali pensieri circolino nella mente degli altri e che profondità abbiano, ma so che per indole sono uno che va molto a fondo delle cose. Mi sono posto alcune domande fino al limite della non risposta, e lì entri nel campo della teologia. Sono per natura un minatore del pensiero: per me è come se il cervello fosse una miniera e io ogni tanto andassi giù a scavare, e sempre più giù, e ogni tanto mi è capitato di prendere degli ascensori che mi hanno portato davvero tanto giù, fino a certi meandri dove si capiscono tante cose, ma che generano spavento. E quello spavento può provocare una sofferenza insopportabile, quasi un terrore di se stessi che, sì, mi ha spinto qualche volta a chiedermi “come starei a riflettere per tutto il resto della mia vita?” e a rispondermi “forse ci riuscirei”. Ma alla fine sono un animale sociale, anzi, sono proprio un animale, come diceva Battiato, e quindi…

Che sia rivolta agli altri, a te stesso o a tutti noi, Voi mica io è un’invettiva arguta. “Voi che pensate all’evoluzione come principio di uguaglianza” recita l’incipit: ci vai giù pesante…
Guarda, io sono incoerente come tutti, ma in quella frase, nonostante l’abbia scritta ormai tempo fa, mi ci ritrovo ancora completamente. Perché in nome della parola evoluzione abbiamo fatto cose orribili. Mi sembra che a causa della ricerca forsennata della parità non si coltivino più le differenze, le diversità; persino il dibattito sull’immigrazione è diventato un gioco, una presa per il culo in cui si fa i finti accoglienti perché bisogna essere politicamente corretti, e a me questo politicamente corretto ha fracassato le palle. Non ne posso più e trovo terrificante che non si possano più dire certe cose: se penso a geni come Carmelo Bene e Umberto Eco, ma anche ad altri che facevano anche cose leggere – Tognazzi, Mastroianni – e rifletto su ciò che si poteva dire una volta e su tutto ciò che non si può più dire adesso, non so, per me è terrificante.

Dici che se uscissero oggi, certi capolavori sarebbero criticati?
Adesso siamo in un periodo in cui quei capolavori si possono guardare, leggere: sono stati fatti, qualcuno li censurerebbe, ma sono giustificati dal fatto che Tognazzi, Mastroianni, Bene e altri come loro erano dei grandi. E vale anche per la musica. Perché al loro confronto noi… Noi siamo dei coglioni. Cioè: secondo questa visione la nostra sarebbe sostanzialmente una generazione di coglioni che non possono e non potranno mai somigliare a qualcosa di grande. Io non potrò mai essere grande come un De André, un altro non potrà mai essere l’equivalente di Mastroianni, perché siamo soltanto una massa di deficienti che devono solo inginocchiarsi di fronte alla grandezza del passato, nient’altro. E questo concetto è spaventoso, è la morte culturale di un Paese.

Per questo nel comunicato stampa del disco hai inserito una tua dichiarazione in cui avverti che «i riferimenti soliti che tutti i giornalisti vorranno cercare all’interno delle canzoni non li rifuggo, sebbene non mi interessino»?
In realtà quella era una mia riflessione inviata all’ufficio stampa, doveva essere una cosa tra noi. Ma quando ho visto che era stata inserita nel comunicato ho deciso di lasciarla. Perché è ciò che penso, quei riferimenti non m’interessano più di tanto.

Indicare eventuali riferimenti che si sentono nei tuoi dischi serve ai lettori che magari De Rubertis non lo conoscono.
Lo capisco, ma infatti non mi riferisco a chi scrive che nella mia musica si sentono echi di questo o di quello, ma a chi afferma che sembro qualcun altro. Penso ad alcuni commenti al video di Pantelleria: “questo fa Bianconi”. Ma come faccio a fare Bianconi che è della mia stessa generazione? Non ha senso. Semplicemente ci sono artisti che anche per vicinanza anagrafica, ma non solo, hanno una sensibilità comune, letture condivise, e vale per tutti gli ambiti.

Se conduce a un risultato personale il sincretismo musicale a me piace molto, e differisce dalla mera riproduzione.
Di certo non sono uno che si mette lì a copiare, e nemmeno a stabilire delle cose. Perché non è artisticamente possibile, per me. Semmai si può lavorare alla produzione, al suono, a determinate scelte stilistiche.

Qui l’ingegnere del suono è Lele Battista, mentre i produttori sono Leziero Rescigno e Matilde Davoli. Come avete lavorato sul suono, sugli arrangiamenti?
Dal punto di vista degli arrangiamenti i pezzi finiti nel disco non sono così diversi dai miei primi provini, il contributo principale è stato quello di Leziero sulle parti ritmiche. La prima stesura di produzione è stata fatta con Lele e Leziero, e a quel punto l’album aveva già una sua forma. Poi quest’anno, durante i mesi di stop – non voglio usare quella parola che circola e che mi fa schifo –, abbiamo ripreso un po’ in mano e rifinito il tutto: mia sorella Matilde è intervenuta su alcuni brani, abbiamo rifatto qualche batteria. In quella fase mi trovavo a Lecce ed è stato fondamentale, perché mio padre, che è un audiofilo, ha un impianto particolarmente fedele con cui ho potuto testare il suono. Che, devo dire, mi soddisfa.

Il video di Solo una bocca, in anteprima su Rolling Stone. Clicca per iniziare a vederlo. Regia: Pierluigi De Rubertis. Effetti speciali: MiriamGili. Hanno partecipato Gianluca de Rubertis, Alberto Bazzoli e Alessandra Busacca.

È il tuo album più pop e anche il più orecchiabile.
Vero, è un disco più facile, laddove per facilità intendo quella di cui parlava Tutto è come sei tu, un brano de Il Genio: “la notte più bella ha un sapore come di facilità”. Quando le cose sono più facili sono più belle, non c’è da vergognarsi, no?

Per niente, ma è innegabile che quando si parla di pop l’equivoco è dietro l’angolo; pare che per molti sia pop solo ciò che è commerciale, che funziona, che fa i numeri.
Io vorrei fare un pop bello e che funzioni. Anche perché con l’età che inizia ad avanzare come potrei reinventarmi? Mi metto a fare il fornaio?

Cosa sognavi di diventare da piccolo? Il pilota, come canti in Nel cuore del cuore?
Già, il pilota di automobili. E mi piacerebbe ancora, ma non ho mai avuto la possibilità di girare in pista. È un argomento che attiene alla fantasia, ormai, ma credo sarei portato, ho una grande capacità di concentrazione in tutto ciò che faccio, e penso che in quel campo serva.

Ma tu, specie ai tempi del successo di Pop porno, hai mai avuto paura di diventare famoso?
Io e Alessandra avremmo indubbiamente potuto raccogliere molto di più, ma in qualche modo lo abbiamo rifiutato, quel di più, perché avrebbe significato fare delle cose che non erano secondo noi giuste da fare in quel momento.

Non è stata paura?
Più una scelta ponderata di cui non mi pento. Il successo a tutti i costi non so quanto possa far dormire bene la notte.

Quali erano questi costi? Cosa vi è stato chiesto?
Di partecipare a trasmissioni televisive per fare tutt’altro che musica, che ne so, gli inviati dallo stadio di Lecce per Quelli che il calcio (programma allora condotto da Simona Ventura, che aveva promosso Pop porno presso il grande pubblico, nda). Questa una delle cose cui dicemmo di no, e non per snobismo, ma perché così finisci per diventare una macchietta televisiva. Poi magari sei bravo, sei simpatico alla gente, ti metti a fare tv e non scrivi più dischi.

È un rischio: se portato all’estremo, tutto ciò che è comunicazione, promozione, può spegnere l’ispirazione, vale anche per i cantanti-influencer che passano il tempo sui social. È questo che intendi?
Il fatto è che secondo me devi scegliere che mestiere fare, a un certo punto. Se fai il blogger o l’influencer… Io per l’uscita di questo disco sto cercando di essere un minimo più performante sui social, però ci vuole tempo a fare post, a servire continuamente storie sul vassoio, la giornata se ne va in quelle che poi, diciamoci la verità, sono abbastanza delle minchiate.

La dittatura delle distrazioni.
Eh, che è proprio ciò che io non sono, perché come dicevo sono uno molto concentrato, se mi metto a fare una cosa, e per me quella cosa è la musica, non mi va di perdere il filo del discorso.

Non perdiamolo: c’è una sensualità che percorre le tue canzoni, penso al singolo Pantelleria o a Solo una bocca: conta, per te, la sensualità nella musica?
Molto, cerco un ideale di sensualità, e di senso e sensibilità, che non si è mai realizzato. È come se ricercassi quel massimo di sensualità che per me è delicatezza e completezza armonica e che nella vita è difficile da trovare. Nelle canzoni provo a mostrare come potrebbe essere la bellezza ideale e come non è nella realtà, dove si rimane sempre un po’ delusi rispetto alle aspettative. Perché grazie a dio l’immaginazione è perfetta, libera di pensare alla bellezza pura.

Non è un caso che nella tua scrittura ricorri spesso a metafore, c’entrano anche le tue letture?
Sì, e come lettore ho attraversato diverse fasi. Dai 10 anni all’adolescenza ho letto tanti libri di fantascienza, da Clifford Simak ad Asimov ad autori meno conosciuti come Campbell, tra gli esponenti della fantascienza americana anni ’50. Poi mi sono dato ai classici e sempre in maniera monomaniacale, per cui iniziavo Dostoevskij e finivo Dostoevskij, iniziavo Victor Hugo e finivo Victor Hugo, e lo stesso con Henry James e altri. Più tante biografie di musicisti, di fisici, di tutto. Mi interessa anche la Bibbia, perché penso sia un libro che conserva ancora dei segreti, dei misteri irrisolti.

Foto: Pierluigi De Rubertis

Solo una bocca e Versateci del vino sono brani che in questo periodo di pandemia fanno stringere il cuore, mai come ora abbiamo un bisogno enorme di toccare, di farci toccare, di ballare.
E di concerti… Personalmente non ho paura del virus, il che non significa che ne neghi l’esistenza. Semmai mi sembra che non si voglia più morire, e nemmeno più ammalarsi, è questo che mi preoccupa.

In Versateci del vino e in Che ci facciamo noi parli anche di vizi: cosa sono per te? Servono a “devastare la vita”, citandoti?
In quelle due canzoni un po’ li critico, i vizi; in realtà ne ho molti, se mi dai una bottiglia di Nebbiolo me la finisco, fumo in maniera seriale… Il vizio credo sia una necessità, per quanto mi riguarda. Trovo raccapricciante la via di mezzo del buon cristiano che si sveglia la mattina per andare a lavorare e torna a casa per rigenerarsi in previsione di una catena di montaggio che lo porterà a una pensione in cui non si sa bene cosa devi fare. Quindi il vizio è una risposta all’ascetismo mancato, è il suo contraltare.

Sei d’accordo con Samuele Bersani quando dice che il linguaggio della canzone si è impoverito?
Hai voglia! Non finirò mai dirlo, se c’è una cosa a cui tengo è la struttura, struttura che è importante in ogni disciplina. Pensa se si togliesse la struttura a un romanzo, a I promessi sposi o a Il nome della rosa. La canzone è una forma espressiva molto più breve, come la poesia, ma se togli la metrica – non dico la logica, una canzone può essere illogica, ma la metrica – togli la base di tutto. Oggi c’è questa visione secondo cui puoi scrivere un po’ come ti pare e a me sinceramente non sembra che i frutti siano così interessanti, vengono fuori cose sconclusionate o che vanno a finire in un ambito di faciloneria spicciola che non mi dà nulla. E anche qui non si tratta di snobismo, solo che non è che ci si improvvisa soltanto perché si pensa di avere un briciolo di talento. Che poi il talento… Il talento serve, ma bisogna avere il coraggio di portarlo avanti.

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