Giacomo Toni è l’alternativa anarchica e stralunata ai vostri cantautori preferiti | Rolling Stone Italia
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Giacomo Toni è l’alternativa anarchica e stralunata ai vostri cantautori preferiti

Adepto del pianopunk, genere che ha inventato lui, fa dischi popolati da personaggi che sembrano usciti dalla penna di Jannacci. Dopo l'estremo ‘Nafta’, ecco i ritratti spigolosi di donna di ‘Ballate di ferro’

Giacomo Toni è l’alternativa anarchica e stralunata ai vostri cantautori preferiti

Giacomo Toni

Foto: Giulia Masci

Giacomo Toni – romagnolo, classe ’83, con un passato nella 900Band – fa un genere che definisce pianopunk. Mi spiega: «Il pianoforte è il mio strumento di riferimento, abbastanza un classico; il punk invece, la musica di cui sono innamorato sin da ragazzino, e che qui si traduce in un approccio all’arte abbastanza selvaggio». Ne viene fuori un cantautorato classico e anarchico, sporcato di jazz e pieno di spigoli, amaro e ironico, con un mondo popolato da personaggi strani e vitalistici e malinconici. Una sorta di Paolo Conte drogato, specie per quanto visto nel penultimo album Nafta, un bignami di soluzioni estreme datato 2017. In questo nuovo Ballate di ferro, che esce oggi dopo quattro anni «di lavoro, rimandi pandemici e zero ansie discografiche», l’identità non cambia, per quanto lui pare essersi ammorbidito, verso una maggiore e più posata ricerca melodica senza perderne nella poetica e nell’intenzione di fondo.

«Da quel punto di vista», conferma, «è stata una scelta voluta. Per me Ballate di ferro è un po’ il lato B di Nafta: dove c’erano canzoni maschili, giocate cioè sull’assenza femminile, qui vince invece la presenza – in senso più o meno stretto – della donna. E i pezzi sono più rotondi. Però i contrasti, gli angoli non smussati, restano». Già dal titolo, che è un ossimoro «perché uno immagina le ballate come dolci, mentre a me piace la durezza del ferro per raccontare le storture delle mie». Ovvero gli arrangiamenti vintage con pure synth, chitarre acustiche, cori e contrabbassi, ovvero «soprattutto il mixaggio all’americana» di Mark Nevers, fatto a Nashville con «poco riguardo per la voce», trattata come uno dei tanti strumenti nel pezzo. Una cosa poco convenzionale, se pensiamo che si parla di un cantautore italiano e da noi le parole hanno spesso predominanza sul resto. «A tratti, non mi si sente neanche chiaramente. Tutto ciò mi ha colpito in positivo». Ovvero i testi stessi. «Sono quasi tutte canzoni d’amore, a volte romantiche, lo stesso con angoli scuri e stralunati, perché raccontano gli ostacoli che di solito affrontano i rapporti umani».

Se prendiamo gli episodi più dolci di Ballate di ferro, infatti, hanno tutti puntualmente un qualcosa di surreale, sghembo, triste. Ne Gli autobus, per dire, lei è tanto bella che “quando passa gli autobus inchiodano”. «Che anche i pullman possano prendere vita e renderle omaggio, per me, è la dedica più bella», ci racconta lui. E siamo subito dalle parti dell’animismo fiabesco di Lucio Corsi, delle scene allucinate. Ma l’immaginario è personale, a fuoco, e lo dimostra la stoica Se proprio devo, sul vivere “senza timone e col vento in petto”, con vette di romanticismo sad in un “se proprio devo lasciarti, che sia tutto più lento”, nata dopo una grigliata e prima di una partita di calcetto alle 15 del pomeriggio. Un amico disse: «Se proprio devo morire, che sia in un campo di pallone». Arriva l’ispirazione. E poi l’incedere cadenzato e armonico, soft, di Sexy smog, là dove la prospettiva si ribalta e l’inquinamento e la devastazione ambientale diventano un “tributo” alla donna amata. Ma, appunto, c’è sempre una patina di malinconia, un gusto freak raffinato, in zona notturni di Vinicio Capossela e ovviamente vicino a Conte. «Che resta un riferimento fondamentale nello scrivere: parto sempre da un vissuto non per forza autobiografico, ma poi come lui mi diverto a costruirci su storie, “esternalizzando” il tutto attraverso la creazione di un personaggio-protagonista e di un paesaggio in cui inserirlo».

E così i dieci episodi di questo disco sembrano, prima ancora che dei dipinti, cortometraggi, con descrizioni minuziose, colpi di scena, finali a sorpresa e soprattutto ironia. «L’ho presa in prestito da Enzo Jannacci», mi spiega, confermando che è un altro suo mito («sono pazzo soprattutto per i suoi brani minori») e uno che, col suo umorismo, ha influito tanto sulla sua formazione culturale, prima ancora che strettamente artistica. Farsi un giro sulla (solo apparentemente) allegra Mogli ingrate per capire. «Allo stesso modo delle sue canzoni, ha una scorza quasi da commedia, ma poi nasconde un sottotesto, un non-detto, da tragedia. In questo caso, si tratta del dramma degli uomini benestanti che compiono violenza domestica». E sì, perché è un album che usa a pretesto l’amore per descrivere le sciagure, per esorcizzarle. A proposito: quindi Tutto mi fa ridere ne è un manifesto? Più o meno. «Il titolo deriva da una frase che un galeotto francese si era tatuato sul petto. Sarà uno scatto di cento anni fa, me l’ha fatto vedere un amico. Mi ha sorpreso: lui era in prigione, eppure con quelle parole sembra fregarsene. Ho voluto rapportarlo con altre tragedie più o meno grandi, più o meno quotidiane; e ragionare su come uscirne, non farsi ferire».

A questo punto cominciamo a parlare di concerti. Mi racconta di un tour che partirà a ottobre in cui proverà a suonare l’album per intero, dell’ambizione di portarlo in giro, di essere «trasversale» e al contempo «di nicchia». Non lo so: Ballate di ferro non è un disco facile per gli standard di oggi, e neanche il personaggio di Toni – al netto di un certo ammorbidimento rispetto a Nafta – lo è; perché ha un’ironia amara che però nasconde, perché il suo non è un cantautorato semplice nei testi e nei riferimenti, anzi richiede impegno nell’ascolto, è pieno (dicevamo) di spigoli, soluzioni da digerire. Che collocazione può avere, nel mercato di adesso, un lavoro così? «Sicuramente di antitesi rispetto a ciò che è successo nella nostra musica negli ultimi dieci anni», ammette. I nomi: «Mi piace Giovanni Truppi», un altro come lui che ha iniziato con dischi maleducati e poi ha adottato forme più rotonde, consapevolmente, «senza rinunciare alla ricerca, che per me è fondamentale». Per gli altri no? «Vedo arrivismo fine a sé stesso, specie fra i nuovi cantautori che vengono dall’indie e si sono aperti al mainstream. Non è questione di pop o meno. Io voglio rappresentare un’alternativa a tutto ciò». A oggi, lo è.

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