Ghali: «Quando mi escludevano, ero io che non volevo essere come loro» | Rolling Stone Italia
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Ghali: «Quando mi escludevano, ero io che non volevo essere come loro»

C'era un tempo in cui Ghali Amdouni mangiava focacce unte dalle parti di Lambrate, e nessuno lo riconosceva. Ce l'ha fatta senza mai fermarsi, continuando a stupire se stesso e gli altri. Come Tupac e Babbo Natale

Ghali: «Quando mi escludevano, ero io che non volevo essere come loro»

Ghali: camicia stampata, abito giacca e pantaloni a quadri e stivaletto con fibbie dorate Versace. Foto Fabio Leidi

L’intervista esclusiva a Ghali è sul numero di Rolling Stone in edicola. Per acquistare la copia digitale, clicca qui.

Ghali Amdouni è il ragazzo d’oro della musica italiana e Antonio Dikele Distefano è uno scrittore di ventisei anni – e nostro editorialista – che ha da poco pubblicato il suo quarto romanzo (Non ho mai avuto la mia età). Ghali e Antonio sono amici, hanno abitato per un periodo nella stessa casa e oggi sono entrambi soci di Sto Records, l’etichetta discografica indipendente che da poco è stata acquisita dalla multinazionale Warner. Antonio e Ghali sono nati in Italia, da genitori angolani il primo, tunisini il secondo; sono seconde generazioni, sono italiani. Antonio è un gran parlatore, adrenalinico, esuberante, mentre Ghali, di solito, è molto silenzioso, quasi diffidente, come avvolto in una misteriosa nuvola di coolness karmica. Ma in questa lunga chiacchierata organizzata un pomeriggio da Rolling Stone, come per magia, Ghali e Antonio si sono sintonizzati sulla stessa frequenza, quella di una conversazione intima e appassionata sulla musica, il successo, la visione, i figli, la vita tutta.

Abito giacca, camicia, pantalone e cravatta in tweed tutto Neil Barret, stivaletto con fibbie dorate Versace. Foto Fabio Leidi

Dikele: La sera prima dell’uscita di Album, esattamente un anno fa, eravamo in una trattoria, c’erano anche Charlie Charles, Ruth, Amed ed Endry. Quella sera abbiamo fatto il giochino di indovinare in quanto tempo Album sarebbe diventato disco d’oro, e ci avevi azzeccato solo tu. Ho ancora una polaroid della serata, avevo una maglia della Coca-Cola ed eravamo mega-contenti, stavamo festeggiando. Solitamente non festeggiamo le cose che ci capitano, ed era strano farlo. Fuori dalla trattoria urlavamo come matti: “Il disco è uscito! Il disco è uscito!”. Poi è arrivato il momento del tour: sbattimenti, capire come fare i concerti, come stare sul palco, inventarsi lo show, tutte robe nuove. Siamo stati travolti dal disco, non ce lo siamo goduti. A settembre decidi di andare a Los Angeles, e stai lì per tre settimane… (Ghali lo interrompe, nda)
Tre settimane!?! Ma se ho fatto solo cinque giorni. Sono stato un giorno in Arizona, poi son salito a Palm Springs, poi Los Angeles, da lì New York e poi di nuovo Arizona.

Dikele: Ok, ma quando sei tornato ho notato che la fiamma che c’era quella sera della cena si era un po’ spenta. Hai avuto la sensazione, guardando i social e parlando con le persone, che il tuo album non sia stato capito?
Sì, parecchio. A volte – non so se sia una mia debolezza – confonde le idee anche a me. Spesso ho la percezione che ad alcuni sia piaciuto solo perché doveva piacere. Ho la brutta sensazione di far parte di una moda, ho fatto Album proprio con l’idea di sfuggire a questa idea. Il disco è nato pensando di lasciare qualcosa che rimanesse per sempre, come una pietra, al di là dei trend, di tutto. Artisticamente sono molto severo con me stesso, mi piacciono sempre di più le cose degli altri. È la mia indole. Mia madre mi ricorda sempre quando da bambino camminavamo in metropolitana e le dicevo “guarda quello com’è vestito bene”. E lei mi rispondeva “Ghali non ti piacciono mai i tuoi vestiti, ma te li scegli tu! Ci facciamo il culo per comprarli, e continui a non piacerti”. Mi succede la stessa cosa nella musica. Certe sere, quando sono da solo e non uso Instagram, stando fuori da quello che mi può influenzare, allora finalmente sto bene. Ascolto Album e penso: “Cavolo, è una chicca”.

Dikele: L’ultimo singolo certificato disco d’oro è Ora d’aria. Quando lo registravate, tu e Charlie Charles eravate gasatissimi…
Sì, era il nostro pezzo preferito! Anzi, è ancora il nostro pezzo preferito.

Dikele: Oggi lo rifaresti uguale?
Lo rifarei meglio. Ha un sound pazzesco, è una cosa che non farebbero mai i rapper “in tendenza” adesso. Un pezzo come quello lo fanno i big, lo farebbe Kanye, quelli che vivono con la stessa mentalità che ho avuto io quando stavo scrivendo quel pezzo e Charlie lo stava producendo. Quando abbiamo fatto Ora d’aria non abbiamo calcolato nessuno, non doveva piacere a tutti.

Dikele: In Italia ragazzi come me o te hanno dovuto vivere difficoltà, perché sono cresciuti in un Paese dove episodi di razzismo e discriminazione sono all’ordine del giorno. Se dovessi dare un consiglio a un “nuovo piccolo” Ghali di Baggio, quale sarebbe? Per convertire quella negatività che lo può circondare in un quartiere popolare, in un paese che discrimina, che consiglio gli daresti?
Io non mi sono mai sentito escluso. Quando mi escludevano, alla fine, ero io che non volevo essere come loro. Paradossalmente avevo le idee più chiare da bambino che adesso, è assurdo. Non ho mai pensato fosse uno svantaggio. Ho sempre pensato: “Non capiscono e li capisco”. Da piccolo mi sono spostato da via Padova a Baggio e lì c’erano meno extracomunitari, per strada e a scuola. E riuscivo a capire. “Ok questo ragazzo mi sta dicendo questa cosa perché in classe non ha tre marocchini, due filippini e due africani”. Mi dicevo che non volevo essere come loro e cercavo di comunicarglielo. Gli stessi ragazzi che quando sono arrivato il primo giorno in oratorio non mi volevano far giocare con loro, e mi hanno caricato di botte in cinque, sono quelli a cui ho fatto scoprire un sacco di musica, li ho portati a farsi l’orecchino, a comprare i vestiti fighi.

Abito giacca e pantaloni con cappotto doppiopetto, maglia in cachemire girocollo color block turchese, stivaletto in vernice blu notte, tutto Paul Smith. Foto Fabio Leidi


Dikele: In molte interviste – soprattutto quelle del periodo di Album – hai detto “io non parlo di politica”. Ma secondo me Cara Italia è un pezzo politico, che lancia un messaggio: utilizzi una multinazionale come Vodafone – che ha scelto il pezzo per la propria pubblicità –, per mandare un messaggio. Ricordo la sera in cui uscì lo spot: su Instagram un sacco di ragazzi scrivevano “La nuova Italia, grazie”. Tu pensi che la tua musica possa cambiare l’Italia? Pensi che la musica possa cambiare il mondo?
Cambiare il mondo non lo so, però puoi sensibilizzare gli individui. Puoi far stare meglio le persone, essergli d’aiuto. Da piccolino, quando incontravo difficoltà, cercavo qualcuno che mi rispecchiasse nella musica, e non riuscivo a trovarlo. Ora sono sicuro che quello che racconto sia la storia di tantissimi ragazzi nati o cresciuti in Italia, o che sono appena arrivati in questo Paese. Ho parlato del Ramadan in una storia di Instagram e tanti mi hanno scritto per ringraziarmi, perché in quel modo avevano scoperto qualcosa di nuovo.

RS: L’hai descritto in modo laico, scrivendo queste parole: “Qualunque sia la tua religione, questo è un mese di purificazione, di preghiera, di desideri”.
Sì, è come il carnevale! È una festa per tutti. Credo che tutte le feste, di tutte le religioni, possano essere condivise da tutti. Come il Natale.

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