Gemitaiz: «Mai troppo vecchio per il rap» | Rolling Stone Italia
Meloni, sbloccalo

Gemitaiz: «Mai troppo vecchio per il rap»

Intervista XL a un veterano di appena 35 anni che se ne sente 150 perché «a dettare il ritmo sono i più giovani»: ‘QVC 10’, la differenza fra album e mixtape, la trap diventata «un gioco da ragazzini», le polemichette, la abitudine «orrenda» di associare agli artisti i numeri degli stream

Gemitaiz: «Mai troppo vecchio per il rap»

Foto: Alessia Gunawan

«A un certo punto ho provato a fare i conti: in effetti ad oggi ho inciso qualcosa come 497 tracce». Ride Gemitaiz quando gli diamo del workaholic, però poi in effetti non può che constatare che sì, è un dato di fatto. Non è però solo questione di quantità, attenzione: perché parliamo di uno dei rapper più tecnici – più acrobatici cioè nel combinare metriche e rime – ma anche di uno di quelli che più sa tenere registri diversi restando sempre e comunque credibile; e che sa barcamenarsi con grande equilibrio ed efficacia tra proiezioni pop, coi suoi album veri e propri, e una solidità 100% hip hop che è consacrata ad esempio con la serie di mixtape QVC – Quello che vi consiglio, arrivata ora al decimo volume.

Un decimo volume sfavillante per quantità (22 tracce, «ma potevano essere 24, alla fine ne ho tagliate un paio») ma anche notevolissimo per qualità, d’altro canto la batteria di ospiti fa impressione (Fibra, Guè, Massimo Pericolo, Jake La Furia, Emis Killa, Nayt, ovviamente MadMan, Franco 126, Ensi & Nerone, Dj Shocca, e questo è un elenco solo parziale…), e fa ancora più impressione come Gemitaiz ogni volta azzecchi brano e stile per metterli a loro agio e valorizzare le loro – e le proprie – qualità. Un trattato di stile & mestiere hip hop.

Abbiamo parlato di questo, della differenza tra un album e un mixtape, di come si misura il successo; e abbiamo parlato anche di polemiche e rapporti problematici coi media, visto che Gemitaiz non pago di essere fertilissimo workaholic è uno dei pochi rapper che ha davvero il coraggio di esporsi sui social anche su questioni politiche e sociali, tirando randellate a Salvini, ai lutti pelosi per commemorare Berlusconi, uscite che poi generano il classico bailamme sulla stampa generalista più dozzinale (quella che già gli saltò al collo quasi dieci anni fa, per una storia di detenzione di stupefacenti ed arresti, poi ovviamente sfiorita: dare addosso ai rapper è un mestiere in voga fra i moralisti da sempre, non è una moda recente).

Insomma, quanta voglia hai di sbrigarti ‘sta cosa delle interviste? Anche perché mi sa che ormai stai molto attento a pesare le parole, visto che spesso finisci nell’occhio del ciclone delle polemiche e polemicucce.
Ma se si tratta di parlare di musica, non c’è problema. Soprattutto se posso parlare della mia. Perché di parlare di quella degli altri, mah…

Niente dissing? Mi togli così i titoli sensazionalisti?
Niente dissing. Mi pare una perdita di tempo. Ma la cosa peggiore con la stampa è se inizi appunto ad aprirti al sociale, alla politica. Lì ormai ho capito che quello che devo dire è sempre un bel no comment, perché se dicessi quello che vorrei veramente dire, poi avrebbero modo di farmene pentire. Quindi meglio non dire più nulla, guarda.

Tu di tuo però non ti tiri certo indietro, dai tuoi social. E i media generalisti ci ricamano ovviamente sopra. Le polemiche con Salvini, o con Berlusconi per la sua morte; ma del resto fin dal 2014, quando ci fa quella vicenda del tuo arresto, mi sa che avevi maturato – e anche a ragione – un bel po’ di diffidenza verso i media. Al massimo ti esprimi solo attraverso i tuoi account social personali.
Beh, la Meloni mi ha bloccato su Instagram.

Ma veramente?!
Giuro!

Guarda che un segno di grande rilevanza, è una medaglia al valore praticamente…
Due, tre mesi fa volevo andare sul suo profilo perché aveva detto qualche cazzata, almeno così si scriveva in giro, e volevo controllare bene. Nulla: non potevo accedere al suo profilo. E non è certo l’unico personaggio grosso che mi ha bannato… Ma va benissimo, eh: non sono certo di persone di cui voglio farmi regolarmente i cazzi loro, a dirla tutta. Quindi stiamo benissimo così (ride).

Foto: Alessia Gunawan

Ti diverte comunque ancora, questa danza dei social network…
Sì. Anche se io ormai sono un dinosauro, o comunque mi vedo come tale: ho 35 anni, ma mi sembra di averne 150 perché a dettare il ritmo su certe cose sono i ragazzi più giovani. E va benissimo, eh! Dico solo che certe cose non fanno per me. Io manco ho TikTok. Non ho un account, di più, non ho manco l’app sul telefono. Mi spaventa, ecco. Vedere le cose che ci sono lì sopra mi fa percorrere troppo spesso un brivido lungo la schiena. E mi fa dire: «No». Però sono consapevole che oggi per un artista avere una presenza di un certo tipo su TikTok è molto importante, quindi capisco chi ci sta dietro. Non troppo tempo fa mi sono trovate a dare un occhio alla top 50 dei singoli e ad iniziare a sentire delle cose: ogni tanto mi dicevo «Ma che roba brutta è, ma questo da dove salta fuori, possibile ci sia roba così in giro?», fino a quando non è arrivato un mio amico a spiegarmi «Questo? Guarda che questo è virale su TikTok; e quest’altro, pure». Dopodiché per carità, ci ho sentito anche delle ottime cose lì. Ma in molti casi mi rendo proprio conto che quello è un terreno che non fa per me. Il mio social è Instagram. Anche perché Facebook ormai è morto.

Vero. Siamo rimasti in tre ad usarlo assiduamente, tra cui forse il sottoscritto.
Ho lì ancora un mio profilo personale, così tengo i contatti con un po’ di amici. Ma come leva di marketing, Facebook è morto. Con Instagram mi trovo bene. Perché in fondo è un social esteta: la fotografia come mezzo principale d’espressione, comunque una grafica complessivamente elegante, curata, non come Facebook, che ormai è terrificante, e non che prima fosse molto meglio… A me piace che ci sia una certa coerenza e bellezza estetica nelle cose.

Ma ti è mai capitato di sentirti non dico troppo vecchio per TikTok, ma troppo vecchio proprio per fare quello fai in generale?
Fare il rap?

Ecco, sì.
No. Mai.

Ok.
Anche perché negli ultimi tempi ho visto gente con dieci, vent’anni più di me spaccare sul palco.

In effetti l’estate scorsa ho visto i Cypress Hill in Veneto ed erano clamorosamente in forma. Forse in forma come mai negli ultimi vent’anni.
Capisci? Finalmente anche da noi puoi andare a sentire i grandi veterani e i mostri sacri senza che sia vista come una cosa assurda, esattamente come un appassionato di pop va a sentire, che so, i Depeche Mode.

Il rap quindi ha smesso di essere una musica da ragazzini? È diventato una musica definitivamente adulta? Perché per un po’ lo è stata, musica da ragazzini: diciamolo.
Credo che la musica che piace oggi ai ragazzini non sia più il rap, ma più che altro i sottogeneri che da esso sono nati.

Tipo la trap.
Che ormai ha un po’ rotto il cazzo.

Eh.
Non che la denigri, attenzione: a me di per sé piace anche. Ma era diventato un gioco da ragazzini. Non a caso i più bravi adesso stanno tornando al rap più elaborato, più classico…

Più tecnico. Ecco, questa cosa ti dà un moto d’orgoglio? Perché tu sei il rapper tecnico per eccellenza. Potresti dire: «Visto, avevo ragione io».
Beh, fa piacere. Vedere che la tecnica nel rap è tornata ad essere un minimo importante non può che farmi piacere, lo ammetto.

Che poi la mia impressione è che in questo QVC10 tu abbia portato la tecnica e lo studio della tecnica a livelli quasi ossessivi: l’impressione cioè è che tu abbia valutato maniacalmente gli stili dei vari artisti ospiti, e sono una miriade, adeguando poi il tuo flow al loro, pur restando inconfondibilmente te stesso: quasi una roba da secchione, passami il termine. Da studioso accademico del rap e dei suoi vari stili, tipo. In realtà è una cosa che ti è venuta naturale senza nemmeno pensarci e senza nemmeno sforzarti, o c’è stato davvero uno studio preparatorio di questo tipo?
Se io ti mando un pezzo chiedendoti di farci sopra delle rime per un featuring, molto difficilmente se mi rispondi «Non lo so, non mi gira, non mi convince del tutto» io poi te ne mando un altro, per vedere se ti funziona meglio. Perché se ti ho mandato quella traccia lì, è perché nella mia testa sei esattamente tu la persona giusta per rapparci sopra, tu e nessun altro: se però non sei convinto tu, non mi metto a insistere. Ma stai certo che quello che ti mando non è intercambiabile, ecco: se te l’ho mandato, è perché avevo in mente te, proprio te, e non posso mandarlo a nessun altro.

Ti diverti di più a fare un album o a fare dei mixtape, come nel caso dei QVC, che ormai sono arrivati alla doppia cifra? Ovvero, ti sei divertito di più a fare Eclissi, il tuo ultimo album propriamente detto uscito l’anno scorso, o QVC10?
Ovviamente QVC10.

Di Eclissi, a un anno e mezzo di distanza dalla sua uscita, che te ne pare?
Trovo ancora oggi che sia un bel disco. Ed ha una traccia importante come Ciao Baby che ci ha fatto impazzire per via del sample da Disfruto di Carla Morrison: quanto abbiamo penato per poter prenderne i diritti… A un certo punto la cosa pareva essersi arenata, i suoi editori avevano smesso di risponderci; al che preso dalla disperazione mi ero messo a scriverle direttamente su Instagram. Miracolosamente, il giorno dopo si era sbloccato tutto. Per fortuna, guarda: era un pezzo su cui avevamo puntato tanto. C’avevamo puntato tanto emotivamente e – non te lo nascondo, vedi appunto la faccenda del sample su cui ci siamo incaponiti fino a spuntarla – anche economicamente.

GEMITAIZ - "Ciao Baby" (prod. Mixer T, Stabber) (Visual)

Ma un po’ tutto Eclissi, dai: mi ricordo una campagna pubblicitario di lancio abbastanza imponente. Era un disco che sembrava dovesse spaccare il mondo, almeno a giudicare appunto dallo sforzo promozionale al momento della sua uscita. Invece mi pare di poter dire che è andato così così, almeno rispetto alle aspettative gigantesche che gli erano state appiccicate addosso. Sbaglio?
Ma io lo sapevo che non avrebbe potuto ripetere la botta di Davide. Prima di tutto per il periodo in cui è uscito: maggio, con la gente già mentalmente pronta ad andare in vacanza, mentre io arrivo lì con un disco tutto cupo, introspettivo, per molti versi proprio triste (sorride). In realtà sapevo che questo disco avrebbe ripreso quota con l’autunno, e così è stato: inizia a piovere, le giornate si accorciano, diventa allora più facile entrare in un determinato tipo di mood. Sono molto orgoglioso del fatto che Ciao Baby ancora oggi continui ad essere ascoltata da molte persone, e in generale tutti i pezzi che pensavo avessero un certo tipo di spessore, beh, ho visto che hanno resistito bene nel tempo. Questa è la soddisfazione più importante.

Come mai Eclissi è venuto fuori così cupo?
In generale, penso che non ci sarà mai un mio disco che non abbia una vena di malinconia. Ma in generale: la musica migliore è quella dove comunque c’è un po’ di scuro. La musica felice non “arriva” mai davvero alle persone.

Per arrivare arriva, scusa; al massimo possiamo dire che non dura, che è un po’ effimera. Ma arriva, basta guardare le classifiche.
Non so. Ti posso dire che i pezzi che sanno anche essere un po’ tristi e malinconici hanno un modo molto particolare di colpire le persone; e, in generale, penso che una canzone che ti fa piangere sia più bella e colpisca molto più in profondità di una che ti fa banalmente prendere bene lì sul momento. Il mood ideale per me per scrivere una canzone è fumarmi un cannone mentre fuori diluvia, tipo di domenica pomeriggio, con la musica giusta in sottofondo. E se la musica giusta non c’è, me la vado a cercare. So che ne devo approfittare, perché proprio momenti così sono quelli in cui sono più ispirato.

Allora però non posso non chiederti: perché spendere tante energie per fare un mixtape? Visto che il mixtape è l’esatto opposto della musica meditativa, profonda, ragionata. È qualcosa di veloce, immediato, qualcosa che colpisce diretto. Sbaglio?
No, no, dici bene. Ma sai cosa? Per me i mixtape sono inni alla libertà. Fin da subito lo sono stati. Fin dai primi QVC, anzi, addirittura fin dai mixtape precedenti che avevo inciso.

Spiega meglio.
Io arrivo dal mondo del rap romano, no? Un mondo molto dogmatico, soprattutto all’epoca: dovevi essere così e cosà, dovevi dire certe cose, adottare un certo stile, avere un determinato atteggiamento… Qualcosa di molto ben definito, e se non lo facevi eri un coglione o comunque uno scarso, uno non degno di nota. Coi mixtape ho voluto sfatare queste regole, fare le cose a modo mio, in maniera completamente diversa, combinando e rimescolando gli elementi in maniera non convenzionale rispetto a quelli che allora erano i canoni della scena. Pensa a QVC2, che tra l’altro ha avuto una grandissima risonanza quando è uscito: è un lavoro in realtà stranissimo, molto serrato come rap – è quasi tutto in extrabeat – ma che parla di cose piuttosto tristi, emotive.

Appunto: tu pure nei mixtape non metti solo leggerezza nei testi. Non posso che chiederti perché fare qualcosa che viene chiamato mixtape e non dire semplicemente: ecco, questo è il mio nuovo album?
Fare un album vero e proprio è stressante. Ti obbliga fin dall’inizio a un approccio diverso: diverso dal punto di vista pratico, diverso dal punto di vista mentale, diverso dal punto di vita organizzativo.

A questo punto però spiegami bene qual è la differenza, per te, fra mixtape ed album.
Per me?

Per te.
Un mixtape è per certi versi completamente l’opposto di un album. Ma non tanto a livello di argomenti, come si potrebbe pensare, e nemmeno magari a livello di impegno complessivo; il punto è che nei mixtape non c’è nessun paletto. In un mixtape, faccio il cazzo che mi pare. Lavoro proprio di getto. Anche negli album alla fine non è che subisca delle influenze, il progetto finale è sempre quello che ho originariamente in testa. Ma la differenza è che negli album deve esserci un corpo concettuale molto forte, molto netto, molto ben definito, un qualcosa dove ogni elemento è attentamente soppesato non solo di per sé, ma anche per come si abbina con tutti gli altri elementi presenti. Un album è come un menù degustazione: è un percorso. Mentre un mixtape è «Oh, a me piacciono sia il gelato che le patatatine, e sai che c’è? Mo’ provo a metterle assieme, vaffanculo» (risate). In un mixtape non è un problema se una traccia parla di una cosa e quella dopo di qualcosa di completamente diverso e scollegato; non è un problema se una traccia ti fa ridere e quella dopo invece è gran triste. Se mi sentivo di fare così, di passare subito da una roba tutta allegra a una malinconica, in un mixtape è giusto che lo faccia. Dietro un album invece c’è un altro stadio di produzione e di ragionamento. L’impegno è lo stesso, alla fine, è l’approccio che cambia.

Una cosa che non cambia è il fatto che tu veramente sei un grande “federatore” della scena rap, uno vede i tuoi dischi – a partire appunto dalla serie dei QVC – e non può che pensare «Ok, ma allora esiste una scena rap vera e propria, continua ad esistere». Perché sai: è facile essere scena quando si è in quattro gatti e si è underground, come lo si era negli anni ’90; molto più difficile invece quando poi si emerge nel pop, arrivano i soldi, le contaminazioni. Però mi pare che proprio carriere come le tue e dischi come i tuoi – dove c’è sempre una quota di featuring molto ben caratterizzata – siano la dimostrazione che il rap è riuscito a restare qualcosa di ben definibile e a modo suo coeso come realtà, come comunità artistica. Ci si riconosce. E ci si dà una mano a vicenda.
Vero. Pensa che ancora adesso quando mi chiedono «che lavoro fai?» mi viene più facile da rispondere «il rapper»; e questo nonostante più passi il tempo, più sento che l’etichetta rap mi stia un po’ stretta.

Attenzione.
Ovviamente il sapore hip hop è la prima cosa che senti come elemento quando ascolti un mio disco, è l’ingrediente più netto e riconoscibile, ma allo stesso tempo è da molto che cerco di mettere sempre più musica suonata in quello che faccio. Da ragazzino ascoltavo solo ed esclusivamente rap: anche per questo sono diventato così forte tecnicamente, sai? Perché ero praticamente autistico! Un folle! Solo rap, tutto il giorno! Questo significava che mi obbligavo ad ascoltare di tutto nel genere, dischi bellissimi ma anche dischi orribili, così come dischi che lì per lì mi sembravano orribili – mi ricordo ancora adesso quanto orrore mi fece Too Short, figurati, io abituato a robe tipo Jedi Mind Tricks che ne potevo pensare del gangsta rap più truce – ma che poi invece a furia di ascoltarli arrivavo a capire, se non addirittura ad apprezzare. Però oh: quando sei un ragazzino ci sta che tu faccia così, anzi, per certi versi è pure molto utile, salutare. Ti forma.

Ci sta. Ma quand’è che hai sentito di essere pronto per uscire da questo maniacale monoteismo?
Credo con Nonostante tutto. Anzi, già c’era stata qualche avvisaglia con L’unico compromesso, un po’ di anni prima: penso a Nevermind, la traccia di chiusura, che poi è la prima roba che ho fatto con Frenetik e Orang3… Lì mi ero detto: oh, ho fatto tutto un disco rap e va bene, giusto così, ma a me piace anche la cassa dritta, perché non mettere una pezzo di chiusura che ce l’abbia? Ed è venuta fuori una traccia stranissima, in certi momenti pure dubstep, qualcosa di folle, e mi aveva lasciato una bella sensazione addosso. È comunque con Nonostante tutto che ho fatto il vero salto di mentalità, che ho capito quanto sia importante collaborare anche con dei musicisti. Sai, ad inizio carriera altro che collaborare con musicisti, già mi sembrava incredibile che producer come Don Joe, i 2nd Roof, Sine mi dessero delle basi. Dovevo già riprendermi da quello… Figurati se avevo la forza per immaginarmi uno step successivo. Oggi invece è bello poter lavorare su due pieni: ricevo le produzioni, ma poi posso ragionare su come arricchirle con degli interventi strumentali. E lo faccio, lo faccio ormai sempre: è inevitabile che in ogni mia release ci sia comunque nella parte sonora qualcosa di “organico”, qualcosa di suonato. Negli album come nei mixtape.

Non è una tendenza solo tua. Ormai direi che vale così per tutta la scena rap.
Ed è sicuramente un bene. Trovo sia importantissimo, negli ultimi anni, quello che ha fatto Mace: tutti si aspettavano da lui il classico producer album, il producer di turno che tira fuori una serie di basi che offre poi a vari featuring al microfono, del resto il background di Mace è assolutamente hip hop…

Figurati, io l’ho conosciuto quando faceva le basi per Jack The Smoker: rigorosissimo hip hop underground.
Già, e invece ha fatto un disco che ha sorpreso e spiazzato tutti. Un disco dalla grandissima ricchezza, competenza e apertura mentale.

Quand’è che il producer album lo farai tu? Perché diciamolo: non pago di sfornare rime in quantità infinite e album uno dietro l’altro facendo il protagonista al microfono, in realtà sei anche un produttore niente male, quando ti ci metti.
Quando ne faccio uno io? Sai che non ci ho mai pensato…

Beh, dovresti.
Da vecchio. Lo farò da vecchio!

Ora no?
Se riesco a tirare fuori un bel beat, col cazzo che perdo l’opportunità di rapparci sopra (risate)!

Però guarda che hai un tocco molto elegante, ad esempio la base che hai sfornato in QVC10 per il pezzo con Nayt è raffinatissima.
Io come musicista sono zero, nel senso che non so suonare assolutamente nulla ancora adesso dopo tutti questi anni, ci credi? Un po’ me ne vergogno. Forse per questo cerco di compensare tentando di scegliere con molta cura i campionamenti.

Quello che mi sorprende appunto è che sono molto eleganti, sofisticati, astratti quasi; pensando invece alla tua identità tecnica da rapper – molto acrobatica, serrata, in your face – uno si aspetterebbe non dico il contrario, ma quasi.
Appunto: lì dove non arrivo come musicista, perché non so suonare, cerco di arrivarci come selezionatore di parti interessanti da campionare. Io solo coi sample riesco a lavorare, meglio che ci lavori bene. Per dirti: non sono manco capace di fare dei beat trap. Perché lo si sottovaluta, ma comunque anche per fare quella roba lì devi saper suonare: e non è cosa mia.

Siamo in dirittura finale di questa chiacchierata e allora vado con il domandone: senza che ti mi faccia nomi specifici, perché non mi interessa creare la polemichetta e il dissing del giorno e credo non interessi manco a te, cosa c’è però che non ti piace dell’ecosistema musica che ti circonda quotidianamente?
Mmmh. Una cosa veramente orrenda c’è.

Vai.
Quando ogni volta che si parla di un arista gli vengano associati i numeri di vendita e stream, i dischi di platino: questa cosa, davvero, è orrenda.

Faccio l’avvocato del diavolo: i numeri almeno sono un parametro oggettivo.
Mah. Io credo che per lo stesso artista sia brutto essere presentati così. O almeno, dovrebbe esserlo. È come se parlando di calciatori li presentassero non per i trofei vinti o per le abilità in campo, ma per lo stipendio che prendono. E poi c’è una cosa da dire…

Prego.
Lo sappiamo un po’ tutti che se arrivi a fare i grandi numeri, è inevitabilmente perché ha iniziato ad ascoltarti la grande massa di persone, quella che insomma fruisce la musica più distrattamente, con meno attenzione e meno cura nelle scelte. Diciamolo: quella che non ci capisce granché. Non puoi valutare un cantante solo in base dei numeri che fa, degli stream, dei play. No accidenti, non puoi. Perché poi si finisce col dire che The Weeknd è il cantante più bravo del mondo, che subito dopo Taylor Swift, poi Ariana Grande, poi Drake, e tutti gli altri valgono di meno: ma non è vero. È pessimo, ragionare così.

Ma allora come è possibile che uno come te comunque macini dischi di platino?
Mah? Forse perché mi ascoltano, ma non mi hanno capito veramente (risate).

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