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Gaznevada, gli outsider della Bologna punk diventati classici

La storia ha dato loro ragione. Intervista a Ciro Pagano, lo Zanardi di Pazienza che con la band ha inciso il 'Modern Dance' d'Italia. Spaccato di un'epoca fra no wave e case occupate, eroina e tastiere Casio

Foto per gentile concessione del gruppo

Sick Soundtrack è uno dei punti fermi della new wave italiana. È il nostro Remain in Light, il nostro Q: Are We Not Men? A: We Are Devo!, il nostro The Modern Dance, per dire. Ma il confronto con i capolavori di Talking Heads, Devo e Pere Ubu non gli rende giustizia, perché Sick Soundtrack è unico e crea un suono che per l’Italia del 1980 è qualcosa di alieno. Che in parte sicuramente subisce le influenze citate (e anche di tanta no wave newyorkese), ma è in grado di assorbire gli spunti per creare un mix originale di non-melodia-melodica, ritmi ipnotici, astratti incastri tra chitarre, sax e tastiere.

In occasione del quarantennale dell’album, la Italian Records se ne è uscita con una gustosissima ristampa del cult album dei Gaznevada in versione standard e limitata a 150 copie in vinile bianco marmorizzato. Con le grafiche riportate in maniera fedele e tanto di Polaroid che raffigurano i componenti del gruppo. Come l’originale, la ristampa include anche il 45 giri I See My Baby Standing on a Plane, pubblicato a nome Billy Blade & The Electric Razors, l’alter ego rockabilly dei Gaz.

Ma non è finita, dal 31 gennaio sarà disponibile su vinile anche l’esordio del gruppo, Gaznevada, pubblicato nel 1979 solo su cassetta, nel quale si fanno maggiormente presenti le scorie punk che avevano caratterizzato il primo periodo della band, quando ancora si chiamava Centro D’Urlo Metropolitano.

I Gaznevada hanno attraversato l’ultimo scorcio di anni ’70 in un contesto come quello bolognese fatto di rivolte studentesche, case occupate e un fermento artistico che coinvolgeva musicisti, registi, scrittori, fumettisti. Un momento irripetibile che il chitarrista Ciro Pagano, aka Robert Squibb, ci racconta nell’intervista che segue. Ciro poi non è mica uno normale, è addirittura la personificazione dello Zanardi di Andrea Pazienza!

Ciro Pagano

Che effetto fa ritrovarvi la prima storica cassetta su vinile, dopo tanti anni?
Beh, un effettone. È quella che noi abbiamo sempre chiamato la “cassettina”. All’epoca fare dischi su vinile era un privilegio a cui pochi arrivavano, giravano le cassettine come la nostra che mi ha riportato indietro di 41 anni. In realtà non mi ero veramente reso conto che fosse passato così tanto tempo ma l’operazione mi ha fatto piacere. Concentrato come sono sulla mia carriera presente (dopo i Gaznavada Ciro ha dato vita al progetto dance Datura, nda) è stato un piacevole passo indietro e sono felice che suddetta cassettina si sia trasformata in un disco “vero”. Disco che dal mio punto di vista rappresenta l’unico momento veramente punk dei Gaznevada. Ma è stata solo una fase, anche piuttosto breve, con Sick Soundtrack già eravamo più interessati alla no wave americana, alla new wave…

Nella tua bio c’è scritto che qualche anno prima ti dilettavi col prog rock, impensabile per un (futuro) punk…
Eh sì, c’era quello e io avevo una gran voglia di esplorare le capacità del mio strumento. Ebbi il mio battesimo musicale quando vidi il film di Woodstock e quando ascoltai The Dark Side of the Moon. Poi mi piacevano Emerson, Lake & Palmer, Yes, Genesis…

A proposito di ELP, ho scovato un piccolo frammento di un loro brano in uno dei pezzi della cassettina.
Sì, in Roipnol, l’unico pezzo dei Gaznevada che parla di sostanze psicotrope, un viaggio delirante in macchina con tanto di incidente finale. Nel brano avevamo inserito alcuni spezzoni presi dalla radio, ti lascio immaginare in quale maniera rocambolesca rispetto a oggi.

Quindi non è vero che i punk se ne fregavano di sapere suonare?
La grande intuizione del punk fu proprio quella di permettere a tutti di potere comunicare col proprio strumento. Io stesso mi accorgo che riesco a esprimermi senza avere un diploma da conservatorio o una tecnica spaventosa. Il punk ha messo in primo piano la creatività. Quando arrivò il primo disco dei Ramones ci sentimmo liberati dalle lunghe suite infarcite di virtuosismi, in due minuti questi riuscivano a chiudere un discorso musicale. All’epoca tutto ciò fu visto come una roba di dimensioni galattiche, una vera rivoluzione.

Ciro Pagano e Alessandro Raffini

Guardando il video di un vostro soundcheck dell’epoca si vede quanto eravate originali con gli strumenti, nell’approccio, nei suoni…
Tiravamo fuori delle cose che se non senti in maniera profonda è meglio che cambi mestiere. Giusto durante i soundcheck uscivano poi fuori delle cose completamente anarchiche, erano quasi dei mini concerti in cui ognuno andava a esplorare campi musicali diversi.

Avevate un bello spiegamento di mini-tastiere della Casio.
Sì, quando uscivano questi nuovi strumenti cercavamo sempre di tenerci aggiornati, facevamo i brani basandoci sui suoni che la tecnologia dell’epoca ci metteva a disposizione. Poi avevamo questa necessità di incastrare l’elettrico con l’elettronico, si sente molto in Sick Soundtrack. Nel 1980 in Italia non c’erano situazioni come la nostra.

Nei pezzi ci sono incastri tra tastiere, sax, chitarra che creano un tessuto non-melodico che a modo suo produce melodie.
Cercavamo, sempre in maniera del tutto naturale, di esprimere quello che volevamo dire secondo la nostra estetica musicale. Anche analizzando un pezzo di qualche tempo dopo come I.C. Love Affair, del 1983, se ci fai caso non è un qualcosa che puoi inserire nel discorso Italo disco di quel periodo, è diventato un club classic senza che noi avessimo deciso di aderire a quel mondo. Facevamo una cosa perché ci piaceva e così ci ritrovammo i pianini in levare, come succederà tempo dopo.

Tornando a Sick Soundtrack, nonostante fossimo influenzati da gente come i Talking Heads, i Tubes, Brian Eno, il tutto è fluito in maniera spontanea nella nostra musica che rappresentava una specie di sintesi di quello che stavamo facendo, vivendo, ascoltando. Poi eravamo anche molto attenti all’estetica, alla grafica, al modo di presentare il progetto.

Si intuisce dalla copertina, con tanto di logo che riprende quello dello storico anime Gundam.
Sì, una vera opera d’arte, all’interno ci sono una serie di polaroid, tutti i testi dei brani e gli stessi testi in giapponese, il che è assolutamente inutile, ma ci piaceva. Anche lo slogan “Gaznevada, The Invincible Guardians of World’s Freedom!” si ispira ai robottoni giapponesi.

Chi si occupò delle grafiche?
Giorgio Lavagna (cantante/tastierista della band, conosciuto prima come Andy Droid e poi come Andy Nevada, nda). Furono sue illuminazioni quelle di portarci su un tipo di grafica giapponese. Un altro riferimento al sol levante è nel brano Japanese Girl che poi fu ripreso anche nel film su Andrea Pazienza, Paz.

Su Pazienza avresti diverse storie da raccontare…
Andrea era un grande artista che io ho vissuto come amico, nel periodo in cui ci frequentavamo. Che si può dire di lui se non che era un genio? Uno che era sempre lì a disegnare, pam! Prendeva, faceva un disegno e in un attimo finiva, con una facilità incredibile.

Come sei arrivato a essere Zanardi?
Evidentemente la mia faccia, la pettinatura e tutto il resto hanno ispirato Andrea. Del resto le cose che disegnava erano estremizzazioni di ciò che si viveva in quegli anni, così dentro ci sono finito anche io che ero suo amico. All’epoca la cosa non mi toccò più di tanto, era una roba così, tra amici, eravamo molto giovani, 18-19 anni. Oggi però la trovo una cosa bella, simpatica.

Prima di diventare Gaznevada eravate il Centro d’Urlo Metropolitano.
Sì, nel ’76-’77, ma come Centro d’Urlo siamo durati proprio un attimo, già alla fine del ’77 abbiamo scelto di passare al nome Gaznevada (“Nevada Gas” è il titolo di un racconto di Raymond Chandler, nda). Centro d’Urlo Metropolitano nasce in una situazione universitaria, dai fermenti di quel periodo, anni duri, non solo per Bologna ma per tutta l’Italia. Noi eravamo parte del movimento studentesco ma a differenza di altri eravamo interessati a varie arti, alla musica, alla grafica… Con questa sigla abbiamo realizzato una sola canzone: Mamma dammi la benza, che registrammo al volo nei mitici studi Fonoprint perché c’era bisogno di fare una cassettina autogestita dal movimento studentesco da vendere. Facemmo una sola esibizione in una Bologna che era stata da poco rivoltata come un calzino da manifestanti e forze dell’ordine in seguito all’uccisione del militante di Lotta Continua Francesco Lorusso. Era un convegno al quale erano invitati anche Dario Fo e vari cantautori impegnati dell’epoca. Immagina che reazioni potevano scaturire dall’ascolto di un pezzo come Mamma dammi la benza.

È di questo periodo l’esperienza del Traumfabrik di Via Clavature.
Il Traumfabrik era una casa che avevamo occupato, che in breve cominciò a essere frequentata da un ricettacolo di artisti, fumettisti, scrittori, personaggi destinati al successo come Filippo Scozzari, lo stesso Pazienza. Era una specie di centro sociale, ci si passavano intere giornate a disegnare, a creare. Noi alla fine eravamo i più penalizzati perché non c’era una sala prove, quindi dovevamo arrangiarci con le chitarre acustiche. Quello che respiravi lì poi lo riportavi in ciò che creavi.

Sembra che al Traumfabrik girasse anche parecchia droga.
È noto che verso la fine degli anni ’70 l’Italia venne invasa da quella che oggi viene chiamata “eroina di Stato”, utile a placare gli animi troppo focosi. Alla Traumfabrik c’era anche quello, ma noi avevamo questo faro che era la creatività, tutto era fatto in funzione di quello, anche l’uso o l’abuso di certe sostanze. Del resto il nostro modello era la Factory di Andy Warhol, lui aveva i suoi artisti, noi avevamo i nostri fumettisti, lui i suoi registi, noi i nostri. I Gaznavada in questo ambiente erano i Velvet Undergound di Via Clavature.

Dal vivo all’Accademia di Belle Arti

In un contesto come quello bolognese vi sentivate in qualche modo antagonisti rispetto alla scena cantautorale, quella dei vari Guccini e Lolli?
No, ci sentivamo semplicemente diversi, e con un cantautore ci abbiamo anche suonato. Alla fine del 1980 infatti Edoardo Bennato ci ha voluti per il brano omonimo del suo Uffà! Uffà!. Venne nella nostra cantina, ci fece ascoltare il pezzo con la chitarra acustica e ci disse che gli era piaciuto molto la nostra canzone Criminale, contenuta nella cassettina, una roba alla Ramones. Voleva quel tipo di suono, un muro serrato di basso-chitarra-batteria.

E i vostri colleghi del nuovo rock italiano? Vi piaceva qualcuno?
Se c’è stato un movimento all’epoca non era molto coeso, almeno noi non ci sentivamo parte di alcun movimento e non ascoltavamo quasi mai cose italiane, la nostra attenzione era rivolta all’estero. Ma non perché fossimo snob, solo ci interessavano altre cose.

Però in Sick Soundtrack avete dedicato un pezzo a Pordenone, che in quegli anni era la culla di vere istituzioni del punk-new wave come The Great Complotto…
Hai ragione, Pordenone Ufo Attack, che in realtà ha una doppia storia: in parte è dedicata ai molti avvistamenti di oggetti volanti non identificati in quelle zone. Ma si riferisce anche alla scena musicale di quella città, una scena che ci interessava perché molto avant-garde, nella canzone infatti sono citati un bel po’ di gruppi appartenenti a quel movimento. A differenza della scena bolognese, che era molto frammentata, a Pordenone le band erano parecchio coese, quasi una sorta di setta.

All’epoca avevate tutti degli pseudonimi, ad esempio tu eri Robert Squibb.
Ero Robert Squibb perché in quel periodo prendevo degli analgesici della Squibb, tutto qui. A un certo punto decidemmo che tutti dovevamo avere uno pseudonimo e col senno di poi sarebbe stato carino se ci fossimo chiamati tutti Nevada.

Eravate anche un po’ schizofrenici. In Sick Soundtrack era allegato un 45 giri con una sola facciata contenente il brano I See My Baby Standing on a Plane a nome Billy Blade and the Electric Razors, un perfetto ensemble rockabilly.
Il rockabilly è sempre stato la passione di Billy Blade (Alessandro Raffini, cantante, sassofonista e tastierista, nda), che creò una specie di band fittizia della quale lui era il leader e il resto dei Gaznavada i suoi accompagnatori. Il brano non c’entrava nulla con il resto del materiale di Sick Soundtrack, ma decidemmo lo stesso di includerlo staccandolo dal resto grazie al 45 giri.

Non volevate che l’armonia dell’album venisse rovinata.
Sì, anche perché nella nostra mente Sick Soundtrack non era una semplice raccolta di canzoni, ma una specie di concept che univa una serie di atmosfere similari a livello di influenze, di testi (spesso creati con la tecnica del cut-up caro a William Burroughs), di musiche e di arrangiamenti.

Nel 1980, l’anno di ‘Sick Soundtrack’

Che ricordi hai delle sessioni di registrazione?
Registrammo in diretta con alcune sovraincisioni negli Umbi Studios dei fratelli Maggi, a Modena, con un budget limitatissimo. Lo mixammo negli studi della Fonoprint in una serie di sessioni serali o notturne, quando lo studio era libero, facendo spesso l’alba.

Chi erano all’epoca i tuoi modelli chitarristici?
Adoravo tantissimo Robert Fripp, mi piaceva la chitarra serrata e a-ritmica di David Byrne, i Ramones che mi hanno insegnato a usare il barré, poi successivamente Adrian Belew.

Siete stati tra i primi in Italia a unire la batteria elettronica con quella acustica.
Per fortuna il nostro batterista (Marco Dondini, aka Bat Matic, nda) era interessato a questa commistione. Del resto i brani nascevano spesso con l’ausilio della drum machine o di sequenze, come Tij-U-Wan che prende vita proprio da una sequenza messa in loop e da un Farfisa suonato sulla scala minore. Poi si aggiungevano le varie parti, ma tutto nasceva grazie all’elettronica.

Parlando dell’oggi, quante possibilità ci sono di rivedere sul palco la formazione di Sick Soundtrack che rifà l’album da capo a piedi?
Per me queste ristampe sono state un grande piacere, ci ho lavorato con passione curando i remaster e incontrando gli altri della band con i quali sono tutt’ora in ottimi rapporti. Il fatto è che siamo tutti un po’ altrove, ognuno da tempo è dietro ai suoi progetti, non so nemmeno quanto saremmo a nostro agio e secondo me è giusto lasciare le cose così come sono. Di una sola cosa personalmente mi rammarico, non avere avuto la possibilità di remixare alcuni brani. Purtroppo i 24 piste originari al momento risultano dispersi.

I Gaznevada sono da tempo un’istituzione, te lo saresti aspettato?
Se ci penso è incredibile, i Gaznevada che nascono da una casa occupata entreranno presto in un museo dedicato alla musica bolognese. E Sick Soundtrack, nato in maniera trasversale rispetto a tutto quello che circolava all’epoca, è diventato un disco seminale senza essere stato in classifica, senza avere venduto chissà quali copie. La particolarità di certe operazioni artistiche è che piano piano riescono da sole a prendersi il loro significato, la loro collocazione. E questa è la cosa più importante.

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