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Garbo: «La gente mi toccava per sincerarsi che esistessi veramente»

Il 21 settembre 1981 debuttava con 'A Berlino... tutto bene' un cantautore anomalo. Qui racconta tutto: l'impaccio che diventa fascino, la new wave che faceva e non conosceva, il tour con Battiato, il successo

Un dettaglio della copertina di 'A Berlino... va bene'

Il 21 settembre 1981 non è solo la data di pubblicazione de La voce del padrone. Quel giorno esce anche A Berlino… va bene, il primo album di Renato Abate, che tutti impareranno a conoscere con il nome di Garbo. In pochi mesi l’artista passa dai provini casalinghi alle classifiche di vendita. Tutto questo mentre il sottobosco new wave italiano sta cercando a fatica di emergere. Ci riusciranno in pochi e Garbo sarà uno di loro, diventando uno dei fenomeni più acclamati nel primo scorcio di anni ’80.

Garbo è bello, algido, raffinato, pare un incrocio tra David Bowie e David Sylvian, ha una voce profonda e propone musica di grande atmosfera: europea fino al midollo, malinconica e brumosa come solo la trilogia berlinese è stata in grado di fare ma allo stesso tempo stupendamente pop. A Berlino… va bene diventerà un caposaldo ma la sua carriera andrà avanti fino a oggi, tra vette da superstar e repentini cambi di scenario nei quali la parola d’ordine è libertà.

Oggi Garbo è un signore elegante che guarda al suo passato senza rimpianti e che è pronto a divertirsi nei festeggiamenti dei suoi 40 anni di carriera.

Chi era Renato Abate prima di diventare Garbo?
Ero un adolescente appassionato di musica grazie anche a un fratello maggiore che portava a casa dei dischi che ascoltavo e interiorizzavo. Poi c’era la radio, specie programmi Rai come Supersonic che trasmetteva cosa alternative. Mi piaceva un certo tipo di musica ricercata, assolutamente non nazional-popolare. Questa passione mi ha fatto passare dall’essere un semplice ascoltatore a decidere di buttare giù anche cose mie, brani che componevo con la chitarra e che poi venivano completati con i primi tentativi di testo.

Quindi tu già suonavi?
Sì, la chitarra appunto, come quasi tutti i ragazzi all’epoca, lo strumento più semplice ed economico per fare le proprie cose. La mia poi era proprio a basso prezzo, di seconda o terza mano. Quando arrivai ad avere 16 e fino almeno ai 18 anni presi a registrare le mie canzoni con il classico registratore a cassetta e diversi amici musicisti, spesso compagni di scuola, che mi davano una mano. Tutto chiaramente buono alla prima. Registravamo in qualche garage o in qualsiasi altro posto dove c’era spazio per gli strumenti. Il salto di qualità avvenne quando cominciai a recarmi in una sala di registrazione a Lecco. Era all’interno di un negozio di strumenti musicali chiamato Battistini. Scendendo le scale, i figli del proprietario avevano allestito uno studio che era abitualmente frequentato da Giuseppe “Baffo” Banfi, storico tastierista del Biglietto per l’Inferno. Appena avevo 100 mila lire da spendere mi recavo subito lì a registrare i miei provini. Uno di questi fu ascoltato un sabato pomeriggio da Banfi che si dimostrò colpito e mi disse che avrebbe avuto intenzione di farli ascoltare a qualcuno. Da lì a poco venni chiamato da questo “qualcuno” che era Giampiero Scussel, direttore artistico della Fonit Cetra che presto sarebbe passato alla EMI.

Le tue prime composizioni erano già influenzate dalla new wave?
In realtà all’epoca non sapevo che esistesse la new wave. Ascoltavo David Bowie, Roxy Music, Brian Eno, Velvet Underground, Lou Reed… quel tipo di mondo toccava profondamente le mie corde. Questi riferimenti poi mi hanno aiutato a tirare fuori la mia musica. Sicuramente non amavo l’hard rock, i cantautori o il pop commerciale, ma non conoscevo i vari Cure, Depeche Mode, Simple Minds. Da noi, dove abitavo io, non arrivavano. Scoprii dopo che la musica influenzata da coloro che amavo veniva chiamata new wave.

Anche David Sylvian lo hai scoperto dopo?
Assolutamente, non lo conoscevo. Internet non esisteva, in tv e per radio certe cose non passavano.

E gli italiani? Non sapevi che c’era già una bella scuola new wave autoctona con band come Gaznevada o altri?
No, pensa che Piero Pelù un giorno mi disse che in qualche modo io gli ho dato la spinta per emergere. Non capivano bene come avessi fatto, non ero un “cantinaro”, non avevo fatto la classica gavetta e da un giorno all’altro mi vedevano in tv. Si dissero «Allora si può fare!». Però per me non è stata una conquista, sono semplicemente inciampato in qualcosa e mi sono trovato lì.

Come ti spieghi che mentre altri si arrabattavano sudando per ottenere un po’ di visibilità tu in pochi mesi passi dall’essere un signor nessuno a superstar?
Credo di essere stato avvantaggiato dall’essere in sostanza milanese, il luogo dove tutto ruotava, anche a livello discografico. La EMI era a pochi chilometri da casa mia, a Caronno Pertusella. In 10 minuti di auto ero lì. Poi c’è il fatto che a volte la discografia punta su cose banali: ero un bel ragazzo, c’era un mix tra questo e il fatto che proponessi un tipo di musica che cominciava a circolare e che poteva essere presentata in maniera a cui i media erano abituati, grazie al mio aspetto un po’ da dandy. Poi ero romantico, proponevo sperimentazione ma anche melodia, avevo una voce interessante, diversa, ero molto Bowie. Tutti questi erano dati attraenti nell’ambito di quella che in quel momento era una discografia ricca, la EMI poteva permettersi di fare degli investimenti. Io sono capitato nel momento giusto senza nemmeno che lo avessi cercato mentre altri che si sbattevano tantissimo – vuoi perché erano decentrati, vuoi a causa di un appeal più “sporco”, troppo underground – faticavano.

Come ti sei trovato a passare dall’anonimato ai palchi importanti?
Piuttosto a disagio, probabilmente risultavo teutonico, freddo… In realtà era solo timidezza, creavo un po’ una corazza di distacco, era una difesa. Tutto questo però in qualche modo accresceva la curiosità per il mio personaggio, c’era questo aspetto un po’ decadente tipico di quell’epoca se facevi certa musica.

Da dove nasce il tuo pseudonimo?
Il cognome Garbo, che è molto comune nelle zone del Veneto, semplicemente mi piaceva… era italiano e molto musicale.

Raccontami del lavoro dietro al tuo primo album A Berlino… va bene. Sei stato coinvolto nella produzione e negli arrangiamenti?
Sì, in EMI mi fu presentato un ragazzo, Sergio Franzosi, che aveva un’estrazione classica, era un concertista. Lui mi aiutò a dare un’organizzazione meno istintiva ai brani. In realtà gli arrangiamenti sono quasi totalmente miei ed erano anche piuttosto atipici, cosa che stupiva. Franzosi mi chiedeva cosa significassero certi tipi di passaggi armonici o strumentali, lui era molto “classico” e a volte mi faceva un po’ da sponda per non uscire troppo dai binari. Non so se questo fu un pregio o una limitazione ma alla fine fui soddisfatto, pur con tutte le ingenuità del caso, essendo un primo album.

C’è una specie di concept che lega alcuni pezzi: A Berlino… va bene, A Milano… va bene, Anche con te… va bene.
Era un piacevole gioco, ma voleva dire anche fissare dei punti, di partenza non di arrivo per ciò che volevo proporre e continuare a elaborare e a migliorare. Ecco perché “va bene”, come a dire “ci siamo”.

L’album era melanconico e decadente.
Ero affascinato da una certa idea di Europa, cantavo di luoghi che avevano subito un destino tragico ma che poi avevano generato arte. Io non ero filoamericano, ero distante anni luce da Bruce Springsteen, se dovevo ascoltare qualcosa di americano ero più sul versante Velvet/Lou Reed. Mi piaceva evocare sensazioni nebbiose, malinconiche… In un mondo dove tutto è bello e in armonia non c’è bisogno di fare arte. Dalle cose negative, dalle sofferenze invece nasce l’atto creativo.

Cosa è per te la musica?
È un qualcosa che mi mette in contatto con dei mondi. Una semplice canzone fine a se stessa mi dice poco, ho bisogno che sia un mezzo per percepire cose, per arrivare ad altro, viaggiare, scoprire. Paradossalmente è come se usassi la musica per fare cinema.

L’estate precedente all’uscita del tuo album la grande occasione: un tour di supporto a Franco Battiato, il cui fortunatissimo La voce del padrone sarebbe uscito proprio lo stesso giorno di A Berlino… va bene.
Un’esperienza straordinaria, soprattutto dal punto di vista umano, che mi è servita per abituarmi al contatto col pubblico, scoprire cosa significa realmente stare sul palco. Stavo con Franco per l’intera giornata: a pranzo, a cena, in auto, al soundcheck… Lo osservavo da dietro il palco, al buio, vedevo le reazioni della gente che cresceva data dopo data, comportamenti diversi tra il nord, il sud e il centro. Andando avanti con il tour notavo con lo stesso Franco “chiazze nere” di pubblico: erano darkettoni che venivano apposta per vedermi. Il pubblico di Battiato era per lo più composto da suoi estimatori che lo seguivano fin dagli anni ’70, io invece attiravo questa parte nuova di gente che mi gridava «Killing Joke!», «Joy Division!»… cose del genere che, come ti dicevo, a volte non conoscevo nemmeno.

Tra l’altro eri completamente solo, allo sbaraglio, senza una band a coprirti le spalle.
Avevo un registratore Revox che mandava le basi di 3-4 brani e io ci cantavo sopra. Ero veramente nudo, e fu meglio perché così potei accelerare il mio apprendistato sul palco. Concerto dopo concerto imparavo nuove cose, mi auto-correggevo cercando il modo migliore per stare sul palco. In certi casi o crolli o vai avanti.

Cosa succede quando esce l’album?
Succede che si mette in moto una macchina, una macchina massiccia di promozione: tour radiofonici, un giornalista dietro l’altro, tanta tv. Io trovavo il tutto anche strano, bizzarro, perché non ero quel tipo di artista che pensavo potesse frequentare certi salotti, magari a mezzogiorno, da Pippo Baudo la domenica pomeriggio o da Mike Buongiorno. Ero sempre un po’ a disagio in certi contesti, così come lo era anche Battiato che però vide il suo album decollare proprio a seguito di una serie di apparizioni televisive.

Come per lui, questa sorta di distacco che tu avevi probabilmente contribuiva ad affascinare il pubblico.
Era solo un problema di impaccio che serviva a connotarmi come personaggio nuovo, diverso dalle solite cose, un po’ più internazionale. Ero abbigliato in un certo modo, ero magro, pallido… forse sembravo più un artista anglosassone che italiano.

Eri tu stesso a curare il tuo look?
Certo, e credo che molti altri abbiano fatto come me, specie all’estero. Mi vestivo come volevo, con quello che avevo, decidevo io come abbigliarmi, se e come truccarmi per concerti o apparizioni televisive. Non ho mai avuto imposizioni e ho cercato di curare tutto quello che riguardava il mio progetto, dagli arrangiamenti dei brani, ai testi e a come pormi. Massima libertà. E credo che anche grossi personaggi come Madonna all’inizio non avessero chissà quali staff dietro: erano loro, spontanei, facevano ciò che più gli piaceva, magari in modo più furbo e scaltro rispetto a noi. Così come lo stesso Bowie: decideva lui cosa essere o non essere. Poi sicuramente ci saranno stati artisti iper-costruiti, ma io non ne ho mai conosciuti.

Passasti in breve dall’essere un rappresentante della new wave italiana a un alfiere del new romantic.
È buffa questa cosa, da un momento all’altro ero new romantic… Mi stupivo perché non mi ponevo nell’ottica di cosa essere, chi essere, a che movimento appartenere… Era semplicemente il mio piacere di pormi in un certo modo. Tutto era molto più semplice di quello che sembrava: mi alzavo alla mattina e decidevo di mettermi una camicia piuttosto che un’altra. Mi compravo le cose, non avevo sponsor che mi passavano gli abiti. Facevo anche una certa fatica per trovare le cose che volevo. Una volta cercavo una polo nera, così andai in un negozio di Saronno. Chiesta la polo di quel colore mi guardarono malissimo: «Nera? Come i preti?». In effetti tutte le altre maglie in giro erano color pastello, giallini, azzurrini… tipici colori anni ’80. Così dovetti farmene fare un paio da una magliaia.

Un’altra volta per presentare a Sanremo il mio singolo Radioclima, nel 1984, mi venne l’idea di indossare degli occhiali da vista. Siccome ci vedevo benissimo chiaramente con lenti di vetro, senza gradazione. Così andai a comprare questi occhiali di marca T-look con montatura nera. Quando salii sul palco dell’Ariston mi dissero che mi ero presentato così per un’operazione di marketing pubblicitario. All’epoca quasi nessun artista indossava occhiali da vista, portavano le lenti a contatto. Da lì invece anche i giornali di moda cominciarono a proporre modelli con gli occhiali. Ci fu addirittura una causa perché la T-look mise in un suo negozio in Galleria del Corso una mia foto con quegli occhiali senza avermi chiesto nulla.

Una piccola rivoluzione dell’immagine che andava di pari passo con un mutamento musicale molto interessante.
Sì, l’elettronica stava prendendo sempre più campo, era in atto un cambiamento, lo sentivi nell’aria. Il disco di Battiato lo ha testimoniato, e anche il mio.

Come andarono le esperienze sanremesi nell’84 con Radioclima e nell’85 con Cose veloci?
Inizialmente non volevo andarci, mi chiedevo: ma che ci vado a fare? Sapevo che avrei deluso il mio pubblico partecipando a quella manifestazione, mi avrebbero detto che mi ero svenduto, posizioni molto radicali oramai scomparse. La EMI però mi convinse tramite Gianni Ravera, il quale mi disse che avrebbe voluto che il suo Sanremo rappresentasse tutta la musica, non solo quella di un certo tipo. Voleva mettere insieme i Ricchi e Poveri con artisti più al passo coi tempi: infatti da lì uscirono Vasco Rossi, Zucchero, Enrico Ruggeri… Tutti sempre ultimi in classifica ma destinati a vincere i vari premi della critica e a lasciare il segno.

Con Sanremo crebbe anche la tua popolarità, che effetto ti fece?
All’epoca c’era l’idea che chi andava in televisione fosse un alieno; quando la gente mi incontrava non credeva che io fossi vero, specie al sud mi toccavano per sincerarsi che esistessi veramente, che fossi fatto di carne e ossa. Poi c’erano le foto, gli autografi sui diari delle adolescenti… All’inizio era bello ma poi diventò stancante. Molti colleghi non potevano vivere senza cose del genere ma se poi la popolarità calava cadevano in crisi: «Perché non mi fermano più per strada?». Io invece ho sempre preferito vivere in maniera molto normale, mi ha fatto anche bene, non ho mai perso la realtà del quotidiano. Non volevo diventare schiavo del successo. Qualche giorno fa ho avuto modo di incontrare Morgan e facendo quattro chiacchiere ho pensato quanto mi abbia fatto bene evitare casini con mogli sparse, figli, case… Non essere inglobato da una macchina tritatutto che ti spinge fuori dalla realtà fino a renderti vittima di un sistema al quale io non volevo appartenere. Certo, se avessi fatto in un altro modo forse sarei più ricco e popolare, ma non mi interessa, alla fine sono sereno, ho vissuto questi 40 anni esattamente come volevo, senza compromessi, senza cose non decise da me, senza essere vittima.

A un certo punto, verso la fine degli anni ’80, ti dai alla macchia: Garbo scompare dai radar e lo ritroviamo anni dopo alle prese con dischi sempre molto belli e avventurosi ma lontani dai fasti di quel decennio. Cos’è successo?
In primo luogo terminai il mio rapporto con le multinazionali discografiche. Loro volevano da me un cambio di passo, un salto commerciale, una sterzata verso un pop più di facile ascolto. Io desideravo invece sperimentare e non avevo voglia di stare dietro a lungaggini e intromissioni. Quindi di comune accordo mi lasciarono libero e io aprii una mia etichetta (Discipline) per pubblicare quando volevo ciò che volevo. Questo mi ha allontanato dai grossi veicoli promozionali ma ho potuto fare quello che mi andava di fare, fino a oggi.

Cosa succederà per il tuo quarantennale?
Intanto ho iniziato a collaborare con Barley Arts che, in un momento difficile come quello attuale, sta organizzando dei concerti per festeggiare questa tappa importante. Al momento niente dischi nuovi, molti colleghi hanno sbandierato ai quattro venti quanto fosse importante durante la pandemia essere creativi. Secondo me no, un po’ di silenzio ha fatto bene a tutti. Niente concerti in streaming, che palle. Fermiamoci, riordiniamo le idee, riazzeriamo un po’ di cose anche brutte. Una piallata che serva a riflettere e vedere poi cosa rimane davvero.

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