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Galeffi: «Il mio disco, una perla in mezzo all’itpop»

Chiacchiera col cantautore che pubblica in formato fisico 'Settebello', il disco uscito in pieno lockdown: «Ho vissuto malissimo all'idea di avere un album fuori senza poterlo "toccare"»

Galeffi. Foto di Elisa Campi

L’occasione per chiacchierare con Galeffi arriva in maniera insolita: con l’uscita in cd di Settebello, il suo secondo album originariamente pubblicato – in digitale, e su vinile – lo scorso marzo, come da programmi. Un evento abbastanza raro, questo scostamento di date; ma nel 2020 bisogna essere pronti a tutto, pare. Tant’è: con l’aggiunta di un inedito, Il regalo perfetto, il disco adesso è disponibile anche nei negozi, nel caro vecchio formato del compact disc.

«La verità è che durante il primo lockdown non potevo rimandarne la pubblicazione, nonostante il momento disperato per tutti», ci spiega il cantante romano. Tanto più perché si tratta di un disco su cui lui ha investito due anni di lavoro, e che – dice – serve a smarcarlo dal calderone dell’itpop in cui si è ritrovato dopo il successo del suo debutto, Scudetto, chiamando in ballo influenze jazzy e cantautorali. «Però, ecco, uscire su supporto fisico è il modo per rendere giustizia a Settebello. E finalmente sto in pace con l’anima».

Già: ma come è nato, tecnicamente, questo scostamento fra versione digitale cd?
È figlio del nostro navigare a vista. A marzo abbiamo pubblicato il disco in digitale e, appunto, in vinile, perché è un formato che è tornato in voga e avrebbe potuto comunque trovare la propria strada pure coi negozi chiusi. E così è stato, visto che li abbiamo venduti tutti. Quindi il cd: che ancora mancava, ed era davvero il minimo da far uscire. Volevamo accompagnarne la stampa con un tour nei negozi, un instore classico. Ma l’idea, ovviamente, si è infranta di nuovo con la realtà. Ma sono soddisfatto lo stesso: ho vissuto malissimo questi mesi all’idea di avere un disco fuori senza poterlo “toccare”.

Come mai?
Io sono uno vintage: colleziono vinili e cd, vado per mercatini, compro. Dei dischi mi piacciono l’artwork, il booklet, ma anche l’idea stessa di poterli toccare con mano. Settebello, poi, ha proprio un progetto grafico molto curato – abbiamo disegnato la carta in chiave “galeffiana” – e ci tenevo a dargli la sua consacrazione fisica. Non lo so, prima di oggi sentivo di aver pubblicato un disco “nato morto”. Per me è un processo che non si completa finché non vedi ciò che hai fatto: scrivi le canzoni al piano, le registri, fai riunioni con l’etichetta… ecco, mancava l’ultimo passo, metterlo sugli scaffali dei negozi.

A che serve un disco nel 2020? Cioè: perché un disco e non, per dire, una serie di singoli?
Io preferisco ragionare per dischi, quando lavoro. Perché mi serve un elemento che torni in tutta la serie di tracce che sto scrivendo, che sia una linea di arrangiamento comune o un canone estetico. Ho bisogno di una linea guida, mi dà ambizione. E solo l’idea di lavorare a un album, te la dà. Esempio: quest’estate, visto che suonare dal vivo non era semplice, mi sono chiuso a scrivere delle nuove canzoni, che comporranno – credo – il prossimo album; è ancora mega-presto per parlarne in termini concreti, ma anche qui mi è servito trovare una linea comune di lavoro. Cioè: ho dovuto inquadrare il “Galeffi del futuro” entro determinati confini. Altrimenti, non ci sarei riuscito. Poi non lo so: credo che il discorso di uscire “per singoli” riguardi più le etichette, l’aspetto promozionale e di ricezione del pubblico. Io, come artista, preferisco non avere fretta. È un momento che mi piace molto, quando inizi a scrivere un disco: ti fermi, fai tabula rasa, ricominci.

E Il regalo perfetto quando l’hai scritta? È un pezzo natalizio, non dirmi che è uno dei brani che hai scritto quest’estate…
No, anzi: l’ho scritta circa due anni fa. E sempre due anni fa avevo pubblicato Mai Natale, un altro pezzo a tema. Mi piaceva l’idea di diventare il “cantante del Natale”. L’ho tirata fuori dal cassetto quando con Maciste Dischi (l’etichetta che produce Settebello, nda) è venuta l’idea di ristampare l’album per il periodo delle Feste. Nella canzone, poi, mi prendo anche abbastanza in giro. Canto: “Fanno l’amore tutti quanti tranne me”. Ci sta, non mi piace fare il professore. Tra l’altro due anni fa non era un bel periodo, a livello sentimentale. Ma il Natale mi piace anche da single (ride, nda).



Canti anche “Non è normale che mi manchi anche il giorno di Natale”. Come mai non sarebbe normale? Cioè: per me il 25 dicembre è un giorno molto malinconico, in cui fai il conto di chi c’è e di chi manca. Lo stereotipo della festa “felice” mi sembra un po’ passato.
Oddio no, non per me perlomeno. Vado in crisi per i regali, tipo che non so come reagire (o meglio: non so recitare) quando zia mi regala le ciabatte o il dopobarba (ride, nda). Ma per il resto mi piace. Specie se si tratta di rivedere parenti che non vedi da tempo, cucinare, giocare a carte – e qui sto veramente in fissa. In generale, apprezzo quell’atmosfera in cui tutti fingono di volersi bene, almeno per un giorno. Infatti no, quest’anno non riesco a immaginarmi che Natale sarà. Spero non si riapra tutto “tanto per”. Ci tengo ai genitori e ai nonni, non vorrei che il cenone diventasse un’occasione per attaccargli il covid. Meglio fare i vaghi. E festeggiare il prossimo Natale.

A proposito: tu il primo lockdown come l’hai vissuto? Con un disco appena uscito e l’impossibilità di promuoverlo, immagino la botta.
Malissimo, sì. Ora sono contento, però, perché fra Spotify e il mini-tour di quest’estate mi sono arrivate delle soddisfazioni. Ma i concerti restano fondamentali: quando chiudo un album non riesco più a sentirlo, ne ho abbastanza, per me “muore” lì; suonarlo dal vivo è il modo per farlo rivivere, coi fan. Poi in tour ti diverti e conosci gente: non poter partite è stata una mazzata. Tra l’altro a maggio mi ero parecchio buttato giù, ne sono solo uscito a luglio scrivendo una canzone che mi ha ridato serenità. Però il disco non avrei mai potuto rimandarlo: Scudetto, il mio album precedente, era uscito troppo tempo prima; e poi avevamo intuito che la pandemia si sarebbe protratta ancora a lungo, quindi sarebbe stato meglio accettare la situazione, da persone mature, e pubblicarlo lo stesso. Sono convinto che i miei fan ricorderanno con piacere Settebello, perché gli ha tenuto compagnia in un momento brutto. Mentre molti altri hanno rinviato i propri lavori.

Tra l’altro, immagino ci sia stato davvero molto lavoro dietro Settebello. Nel senso: rispetto a Scudetto una crescita c’è, e si nota su tutti i fronti.
Sì, l’idea era quella. L’input è combaciato col fatto che abbia trovato il coraggio di andare a vivere da solo. A casa nuova mi sono dotato di un bell’impianto stereo, con cui ho fatto delle vere e proprie sedute d’ascolto di vinili, dalla musica internazionale al cantautorato italiano. Ma anche per quanto riguarda l’arrangiamento abbiamo scelto soluzioni più “cicciotte”. Scudetto l’ho scritto nel 2015 e ho iniziato a suonarlo in giro per Roma quell’anno, mentre lo registravo “per me” con calma. Una vita fa: facevo il giornalista, scrivevo di musica, arte, della Roma; collaboravo anche con la Gazzetta, e per il resto arrotondavo in pizzeria. Quasi stavo facendo carriera (ride, nda). Invece poi ho firmato con Maciste Dischi e all’improvviso mi hanno detto che, sì, nel giro di qualche mese quel disco che stavo registrando per conto mio sarebbe dovuto uscire. Quindi col produttore ci siamo mossi: non dico sia stata una corsa, ma insomma. Al contrario, Settebello è più lavorato. Ed è anche più colto.
Nasconde delle piccole perle, come America. Non che abbia scritto Imagine, eh. Però mi è servita a capire che certe cose le posso fare anch’io, le ho nelle corde. Del resto per un’artista la chiave è buttarsi, cercare nuovi stimoli. Ho sempre amato i Beatles e Cesare Cremonini proprio per questo.

Tra l’altro, Cremonini ha dovuto combattere molti pregiudizi dopo i Lùnapop, per dimostrare di essere “bravo”. Pensa a un disco come Il Primo bacio sulla luna.
Lui per me è un esempio. Se ne ripercorri la carriera, vedi come abbia sempre avuto delle fasi, delle correnti da seguire. E, con ciò, è cresciuto. Vale lo stesso per me: con Settebello sono voluto uscire dal campo dei quattro-accordi-quattro di Scudetto. Infatti i pezzi nuovi ne hanno tantissimi. E dal vivo sono difficilissimi, ma ok (ride, nda). Diciamo che ho prodotto un disco più celebrale: che ne perde in immediatezza, ma ti stanca meno.

Anche tu sei sentito vittima di un pregiudizio, quando hai scritto Settebello? Magari di essere “uno dei tanti” dell’itpop.
Una cifra, e lo ammetto senza problemi. Non che non ci abbia dormito la notte, eh. Perché sono anche narciso: “Voi parlate pure, ma provate a fare queste cose al posto mio e poi ne parliamo”. Quindi le cattiverie che ho letto, e che la gente ha scritto tranquillamente dal computer, non le ho prese sul serio. Ma le critiche più sensate, quelle sì. Perché sono uno stimolo per fare meglio, e ci tengo a zittirle. Settebello infatti prova a migliorare ciò che non andava in Scudetto: arrangiamenti più profondi, vocabolario maggiormente ricercato, brani con strutture articolate. Le critiche hanno rappresentato una carica positiva.

Chi fa pop è vittima di pregiudizi in Italia?
Siamo un popolo di allenatori: molto teatrali, soprattutto al centro-sud; ci piace sentirci più bravi di quelli che effettivamente fanno le cose, stiamo lì pronti a commentare. È una questione culturale, e chiaramente sì, le popstar sono fra le prime vittime di tutto ciò. Poi certo, quelle del mainstream, che macinano grandissimi numeri, credo che se ne freghino di cosa certa gente dica di loro. Anche se lo stesso Cremonini ha raccontato come molte critiche lo abbiano spinto a scrivere canzoni sempre migliori. E credo che alla fine gli siano servite, visto che è diventato dio. Chi critica, amen: se i risultati sono questi, continuasse a criticare.

Di Settebello hai detto che è un disco “raro”. Immagino in riferimento al panorama itpop.
Sì, soprattutto nelle ambizioni è una piccola perla nell’itpop. Poi decide il pubblico, chiaro. Anche perché il settebello, a scopa e scopone scientifico (di cui, parentesi, io sono malato: qualche estate fa, invece di andare a mare, sono andato persino a fare i tornei coi pensionati sul Lago Maggiore) è la carta-madre per eccellenza, ce ne è una in tutto il mazzo. È rara, sì. E ti aiuta nel conteggio finale, ti garantisce punti importanti da mettere in cascina. Però non è che, se ce l’hai in mano, hai già vinto: devi saperla giocare, e devi avere pure culo. È una carta pericolosa.

E a te com’è andata?
Al di là dei riconoscimenti (il disco ha vinto il premio del MEI come album dell’anno, nda), mi è servita per capire che ce la posso fare. E che questo del cantante può diventare un mestiere “vero”. Quindi bene, direi.

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