Future Islands: «Non siamo cambiati» | Rolling Stone Italia
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Future Islands: «Non siamo cambiati»

La band di Baltimora è tornata con il nuovo album "The Far Field". Intervista al cantante Samuel T. Herring

Future Islands: «Non siamo cambiati»

The Far Field è il quinto album di studio dei Future Islands, e il primo dopo il successo del precedente Singles, che ha catapultato la band synthpop di Baltimora da culto locale uno dei nomi più importanti del Coachella (complice anche un’indimenticabile performance danzereccia al David Letterman Show, su cui torneremo dopo). Forse non avrà un singolone come Seasons (Waiting on You), ma è comunque un ottimo disco, con una sezione ritmica mai così compatta (ascoltatevi il singolo Cave) e un carisma, quello del frontman Samuel T. Herring, che sembra persino rafforzato. Al telefono da un hotel di Glasgow, dove si trovava per il BBC Radio 6 Music Festival, il caloroso Herring ci ha raccontato, tra le altre cose, come il successo improvviso non ha cambiato nulla, né per lui né per la band.

Pronto, Samuel? Ero un po’ preoccupato, il tizio dell’hotel che ha risposto parlava una lingua incomprensibile. È un miracolo sia riuscito a passare la mia telefonata.
Tranquillo, non sei l’unico che ha problemi con l’accento di Glasgow [Ride].

Nel nuovo album, The Far Field, sembri usare la tua voce in modi persino più interessanti del solito.
Credo in effetti di averla spinta verso direzioni in cui non l’avevo mai portata prima. Ogni duecento/trecento show la mia voce cambia, a furia di cantare senza risparmiarmi come faccio io. E non posso che prenderne atto e cercare di adattarmi. Una volta la cosa mi spaventava. Pensavo: ho perso la mia voce, non posso più raggiungere certe note. Ma per ogni cosa che perdi guadagni qualcos’altro, no? Un timbro più basso, più carattere. E questo permette di sperimentare di più, anche dal punto di vista della scrittura.

Questo disco arriva dopo l’enorme successo di Singles. È cambiato qualcosa nel modo in cui lavorate a un album?
Eravamo ansiosi di tornare a scrivere, prima di tutto perché volevamo provare a noi stessi di essere ancora bravi. Quindi nel gennaio dell’anno scorso abbiamo affittato una casa sulla spiaggia in North Carolina, e devo dire che è stato molto bello per me ritrovarmi lì insieme ai ragazzi. Credo che già il primo giorno abbiamo scritto il pezzo Ancient Water (uno dei migliori dell’album, ndr). Nel giro di una settimana avevamo Ran e Black Rose. Per me la cosa più importante è la relazione che c’è all’interno della band, siamo in giro da 14 anni. Nella mia mente avevo dei piani su dove dovevamo andare, cosa dovevamo diventare, ma quando siamo tornati insieme ho capito che non dovevamo cambiare nulla. Singles ha raggiunto un pubblico molto più vasto, ma non aveva nulla di speciale rispetto ai dischi precedenti. Eravamo sempre noi tre dentro una stanza, che cercavamo di trovare un bel suono, lasciando che le canzoni si creassero da sole. La sola cosa complicata è stato capire che non dovevamo fare niente. Solo continuare a essere noi stessi. Credo ci sia qualche innovazione, in The Far Field, ma più dal punto di vista tecnico.

La sezione ritmica, che è uno degli elementi più importanti del vostro sound, ora sembra ancora più a fuoco, più precisa e potente che mai.
Sono d’accordo. Infatti questo è il primo album che abbiamo registrato con un batterista come parte della band. Nei dischi precedenti la batteria era sullo sfondo, la sua funzione principale, forse, era soprattutto di accentuare l’elettronica. Con The Far Field volevamo darle più importanza. Per fortuna avevamo Michael (Lowry), che da qualche anno suona in tour con noi. Lui e William (Cashion, il bassista) si sono trovati tre settimane prima delle registrazioni, ogni giorno, a provare insieme soltanto batteria e basso. Quando ci siamo ritrovati tutti in studio, loro due erano già perfetti. E pochi giorni dopo gran parte delle canzoni dell’album erano già lì. La batteria ha aggiunto vita, calore, e una dimensione in più.

Il video di Cave, che raffigura soltanto una persona che traduce la canzone nel linguaggio dei segni, è molto semplice, ma si abbina perfettamente alla vostra musica. È difficile credere che nessuno abbia avuto questa idea, prima.

A dire il vero abbiamo avuto l’idea tre giorni prima di girare il video. Il giorno dopo abbiamo trovato l’interprete, quello dopo ancora abbiamo girato. I lyrics video spesso sono noiosi, così abbiamo cercato di cambiare un po’ le cose. In fondo è quello che faccio io sul palco: cerco di raccontare qualcosa non soltanto con la voce, ma con il corpo e con i gesti. È il risultato di avere suonato per tanti anni in bar fumosi, con una pessima acustica, davanti a un pubblico di ubriachi: ero costretto a mostrare al pubblico il significato delle canzoni. Comunque trovo che il video di Cave sia molto poetico.

Per la tua gestualità potresti benissimo essere un cantante italiano.
Questo ancora non me l’aveva detto nessuno, ma grazie.

Ho letto da qualche parte che sei rimasto ferito dalle reazioni su Internet, dopo che la performance di Seasons al Letterman Show nel 2014 è diventata virale [per la cronaca, nel video Herring, non esattamente fisico e attaccatura di capelli da rockstar, balla in modo improbabile e si percuote il petto alla Mario Merola – uno dei commenti di YouTube dice: “Quando all’insegnante di educazione fisica viene finalmente concesso di dirigere il musical di fine anno”.]

Non sono stato turbato dalla popolarità del video o dal numero di reazioni, ci mancherebbe. Sono rimasto male per i commenti cattivi. Da Letterman ci siamo comportati esattamente come in ogni altro nostro live. Credo che mostrare vulnerabilità sul palco, e al tempo stesso avere una forte presenza scenica, sia un messaggio potente da dare al pubblico: si può essere forti anche mostrando le proprie emozioni, ed è una cosa che dà alle persone coraggio. Il nostro ideale di concerto è creare un ambiente in cui le persone di sentano libere di essere loro stesse – possono piangere, abbracciare i loro amici, e quando se ne vanno lo fanno con qualcosa di più che una manciata di canzoni. La notorietà improvvisa che abbiamo avuto dopo Singles, invece di farmi chiudere in me stesso, mi ha dato più forza per esprimermi. Nel nuovo album mi sono aperto ancora di più, per esempio in una canzone come Through the Roses, che parla proprio di essere una persona su un palco, che non è certo migliore o meno sola o meno impaurita di chiunque altro.

Verso la fine di The Far Field c’è un regalo inaspettato: Shadows, un duetto tra Herring e la leggendaria Debbie Harry. Com’è successo?
È stato abbastanza fortuito. John Congleton aveva lavorato all’ultimo disco dei Blondie, e noi stavamo cercando chi avrebbe potuto cantare quella canzone. Ci voleva una leggenda: non solo un grande voce, ma una grande presenza dietro quella voce. Qualcuno con una storia. Una giovane di talento non avrebbe funzionato. Quando John ha fatto il nome di Debbie, è sembrata subito la scelta giusta. Non abbiamo ancora la fortuna di incontrarci, perché lei ha registrato la sua parte a New York e noi eravamo a L.A.. Ma spero che presto le nostre strade si incrocino. Magari per un live insieme. Sarebbe bellissimo.

Finiamo con qualche consiglio: cosa stai ascoltando ultimamente?
Fammici pensare… beh, l’ultimo album di A Tribe Called Quest è semplicemente fantastico. Poi Gunship Diplomacy di una band hip hop di Chicago, i War Church, una vera bomba. C’è Valley of Grace, il disco di un mc di Brooklyn che si chiama Elucid. Questi sono i più recenti che mi vengono in mente. E poi ascolto gli Stars of the Lid tutti i giorni. Mi piace un po’ di musica ambient, quando sono negli aeroporti.